Leonardo Sciascia amava tanto il libro di Francesco Lanza e, considerato l'amicizia che legava lo scrittore alla casa editrice palermitana, avrà sicuramente contribuito a convincere Sellerio a ristampare il libro.
Riproponiamo di seguito l'introduzione che, in occasione della ristampa, ne scrisse Italo Calvino alleggerita dalle sue note. (fv)
Introduzione ai “Mimi Siciliani” di F. Lanza
di Italo Calvino
Due
movimenti opposti animano la scrittura dei Mimi di Francesco Lanza:
quello lieve e attento di una prosa limpida ed evocativa, e quello astioso e
tristo del lazzo paesano, del feroce dileggio. Il genere di narrazione popolare
orale alla cui trascrizione egli applicò la sua arte e il suo gusto — in
un'epoca in cui le coordinate culturali d'un simile esercizio erano stilistiche
e morali, non più e non ancora «scientifiche», «demopsicologiche»,
«sociologiche», «semiotiche», come sarebbe stato quarant'anni prima o
quarant'anni dopo — è il più elementare e labile: la facezia rustica, la
barzelletta contadina, la storiella di sciocchi e di cornuti.
Per
l'etnologo o il psicosociologo o il semiologo (o per il letterato intinto in
questa bagna) un campione d'un centinaio di storielle, molte delle quali
salaci, tutte provenienti da un'area culturale delimitata, costituiscono una
ricca e rara ghiottoneria. (Ricco e raro oggetto di studio è già stata e merita
d'esserlo ancora tutta l'opera di Lanza, per il critico stilistico e lo
storico del gusto letterario italiano tra «Voce» e «Ronda», ed è strano non lo
sia stato ancora quanto merita per il critico e lo storico interessati ai
rapporti tra «letteratura e popolo», tra modello estetico e impegno
illuministico, magari sviluppando il confronto con Jahier, già proposto, vivente
l'autore, da Cecchi). Io mi limiterò a qualche riflessione su queste
storielle, come istituzioni del mondo culturale contadino e come scelta
espressiva dello scrittore Lanza.
I Mimi
siciliani sono una raccolta di storielle tutte d'una varietà assai
peculiare: alla comicità «disinteressata» della barzelletta si sovrappone in
esse la carica d'aggressività delle contese di campanile. Ogni storiella fa
perno su un protagonista comico — colui del quale si ride, — che è designato
con un toponimico: il calascibettese, il raddusano, il mistrettese. Su
quell'articolo determinativo gravita la violenza denigratoria che fa d'ogni
storiella un atto di sopraffazione, lo strumento d'una interminabile faida di
poveri. I nomi dei paesi sono, credo, in larghissima parte intercambiabili;
vano è cercare di dedurne una tipologia, un repertorio di caratteri: voler
definire, per esempio, in base alle ricorrenze dei comportamenti narrati, gli
aidonesi come testardi, o i mazzarinesi come pigri. I « caratteri », in verità,
non sussistono che in misura minima; la varietà dei vizi s'impasta nel gran
calderone della stoltezza umana: le storie che in ogni regione s'attribuiscono
tradizionalmente a un « paese degli sciocchi », a un luogo deputato dalla
tradizione a quel ruolo, qui sembra che si distribuiscano quasi equamente alle
spese del barrafranchese e del brontese, del modicano e del caltagironese. Per
il lettore che (come io ora) riceve il libro avulso da tutti i suoi contesti, i
nomi dei paesi sfumano in una geografia fluida e arbitraria: il solo luogo che
possono evocare è qualcosa come un accampamento di braccianti ai margini del
coltivo nell'ora della siesta, dove a turno il pietraperzese o il castriannese
viene «messo in mezzo», escluso dalla comunità, inchiodato alla definizione
emblematica consegnata una volta per tutte alla facezia. La vittima non ha
rivalsa possibile se non nel raccontare un'altra storia in cui lo scherno
colpisca il nicosiano o il buterese, e ristabilisca l'equilibrio, a un grado
sempre più basso.
C'è però un
livello che pare il più basso di tutti ed è quello cui viene condannato il
piazzese, considerato addirittura fuori dell'umanità, non cristiano; è questo
un personaggio che più degli altri assume caratteristiche fisse, di maschera
(con un suo intercalare: ahbò); le storie che lo riguardano cominciano a
bollarlo fin dal titolo e ribadiscono la sua predestinazione nella clausola
finale: come il piazzese che era. Questo accanimento nello spregio si rivela
anche dallo stile, che raggiunge — in una delle storie più feroci — punte di
delirio verbale espressionista, come i versi: stronzino stronzicolo - parla
piazzesicolo. È un'animosità personale di Lanza che viene a incrinare
l'equanimità del suo pessimismo universale? O è il segno che nella mutua
denigrazione degli oppressi c'è sempre qualcuno più denigrato e più oppresso di
tutti?
Ho detto
equanime il pessimismo di queste denigrazioni, ma subito devo annotare delle
diversità o almeno delle sfumature nel trattamento riservato agli uni o agli
altri. Dalla bibliografia sull'autore apprendo che quelli che egli chiama i
caropipani sono i suoi compaesani (di Valguarnera, anticamente detta Caropepe),
e mi vien fatto d'osservare che i caropipani ritornano nei Mimi non come
sciocchi ma come ladri (in un caso come cornificatori, cioè ladri di donne) :
definizione denigratoria anche questa, ma attiva anziché passiva.
Distinzione
che qui conta molto, in quanto mentre le «storie di sciocchi» sono la gran
maggioranza, le «storie di furbi» in cui il furbo o briccone viene designato
dal nome d'un paese, sono pochissime, e quasi sempre un altro nome di paese vi
designa l'antagonista sciocco. Sono dunque questi i pochi casi in cui la
storiella si firma, si dichiara come quella che l'adernese racconta per imporre
la sua superiorità sopra il brontese. Pure nella sequela delle storie di corna;
mentre il cornuto riceve sempre nome dal suo paese, raramente per il
cornificatore s'indica il nome d'un paese rivale; più spesso questo personaggio
— negativo anch'esso ma superiore all'altro per astuzia e per prestanza fisica
— è indicato anonimamente come il compare. Ora è sottinteso che se il cornuto
è il troinese o il mistrettese, il compare che lo cornifica sarà con ogni
probabilità un suo compaesano; però l'intenzione infamante della storiella sta
nell'identificare il paesano tipico con il gabbato e non col gabbatore.
La speciale
cattiveria di queste storielle sta nel castigare quasi sempre non una colpa ma
una mancanza. Vediamo che, in questo campionario d'un centinaio di storielle
sui vizi umani, non ce n'è nemmeno una che appartenga allo sterminato filone
delle barzellette sugli avari. Mentre ogni area culturale ha i suoi «scozzesi»
cui attribuirle, si direbbe (sempre a giudicare da questo repertorio) che i
siciliani ne manchino. (A meno di considerare avaro il mazzarinese che soffia
dentro un sacco volendo mettere in serbo il fiato per quando potrebbe
mancargli). Dobbiamo inferirne che siamo in un mondo troppo povero perché
l'avarizia vi muova l'immaginazione satirica? O piuttosto è segno che
l'intenzione di queste storielle non è moralistica ma oltraggiosa, e l'avarizia
(eccesso nel senso del possesso e non della mancanza) è peccato che non
comporta scherno come la stoltezza (mancanza d'intelletto), né infamia come le
corna (mancanza di onore patriarcale o di potenza sessuale), né vergogna come
la lussuria (specie femminile, mancanza di pudore, di civiltà nei costumi), né
scomunica come l'ignoranza sacrilega (mancanza di civiltà religiosa)? Se la
morale cristiana, — il Discorso della Montagna — è trasformazione della
mancanza da disvalore in valore, queste storielle (come già le «parità» e le
storie raccolte dal Guastella) possono pure essere dette un «antivangelo»:
segno d'una resistenza sorda del mondo dei poveri ad accettare la mancanza come
un valore. Antivangelo regressivo e reazionario: alla mancanza non c'è riscatto,
le denominazioni geografiche sanciscono una predestinazione, gli ultimi non
saranno mai i primi.
Secondo
l'«anatomia» di Northrop Frye potremmo classificare questi Mimi come
«commedia ironica» in quanto rito d'esclusione del capro espiatorio dalla
società, ed è naturale che in un buon numero di storielle l'escluso sia
l'ignorante in fatto di religione, colui che commette balordaggini o indecenze
nel suo rapporto con la chiesa e con i santi. Ma la difesa del retto
comportamento cristiano che parrebbe attuarsi attraverso l'ironia riguarda solo
le forme e resta estranea allo spirito. Si veda la serie dette storie sulla
sacra rappresentazione paesana, basate sulle reazioni fisiologiche troppo umane
del villano posto sulla Croce a far da Cristo. Qui l'opposizione sacro-profano
(lo scandalo) su cui si basa la comicità detta storiella, può esser detta di
secondo grado rispetto all'opposizione sacro-profano (lo scandalo) in cui già
consiste l'efficacia poetica della Passione secondo il Vangelo: il Vangelo
racconta una storia di strumenti di tortura, soldati, folla urlante, ladroni,
malefemmine e la riferisce a un significato sacro; la storiella paesana compie
un'operazione simmetrica (e in fondo ridondante e tautologica) facendo
insorgere i segni profani contro il sistema dei simboli sacri.
Non per
nulla la vittima di tutte le mancanze, lo stolto, è personaggio così importante
d'ogni folklore narrativo, e ha un posto di rilievo nella narrativa orale
siciliana, come testimonia il ciclo di Giufà, di cui Pitré raccolse un ricco
repertorio. Giufà, come il Goha arabo, è una maschera fuori dallo spazio e dal
tempo cui si fa assumere tutta la stoltezza universale per allontanarla dalla
comunità: il raccontare le storie di Giufà conferma narratore e ascoltatore
netta loro superiorità sul mondo degli stolti. Tra le «storie di sciocchi»
quelle della varietà raccolta da Francesco Lanza si differenziano dalla varietà
«Giufà» in quanto rispondono a un impulso più aggressivo: il narratore
localizza la stoltezza in un luogo, l'avvicina (può essere il paese d'uno degli
ascoltatori o d'un conoscente oggetto di dileggio) per marcarne il confine e
sancire non tanto la superiorità della propria etnìa quanto l'inferiorità
dell'altra. Che questa funzione aggressiva si innesti sulla funzione primaria
d'allontanamento della stoltezza, è testimoniato da una delle storielle di
Lanza (Giufà e il mazzarinese), continuazione o contaminazione o parodia
d'una notissima storiella di Giufà, quella delle mosche e il giudice: per
provare che il mazzarinese è più sciocco ancora di Giufà.
Alla varietà
«Giufà» appartengono le storielle arabe che Lanza aggiunse in appendice alle
siciliane (Mimi arabi): lo sciocco vi porta nome proprio di persona e la
querela tra villaggi non sussiste o non appare a noi. Il risultato è che
(nonostante l'affinità — e in qualche caso identità — tematica) l'accento di
violenza riottosa viene meno. (L'ultima della serie però potrebbe essere una
delle storielle che gli arabi raccontano per dileggiare i negri: ma lo dico
tirando a indovinare; troppi elementi mi sfuggono).
Le storielle
siciliane contro i calabresi sono in questo libro gli unici casi in cui la
faida campanilistica fa tregua per lasciare il campo alla faida interregionale.
Il calabrese è imputato non solo di madornale stoltezza ma pure di violenza
cieca e truculenta (un peccato che — a quanto risulta da questi testi — sembra
che non abbia riscontro nell'isola...).
Nate da una
tradizione sociale ed esistenziale in cui non resta altro sfogo alle frustrazioni
dei poveri che l'umiliarsi a vicenda, queste storie ignorano il mondo dei
ricchi, all'opposto di quel che avviene nelle fiabe, in cui i poveri e i
principi sono due mondi contrapposti ma di cui si tiene viva la speranza d'una
miracolosa comunione. Qui, come manifestazione del remoto mondo del potere,
solo appare, in alcune storielle, il re; ma la derisione è sempre rivolta ai
paesani (come in certe storielle continentali su Vittorio Emanuele II in
visita a Cuneo) o al sindaco (potere non rispettato perché proveniente dal
basso, come nella sola storiella politica — o meglio antipolitica — del libro, I
tredici sindaci di San Cataldo). Invece troviamo una clamorosa chiamata in
causa del problema demografico (La chiesa di Bronte).
Il povero si
consola deridendo il pezzente: la storiella a più alto potenziale di
disperazione è per me Il grembiule della pierzese; una donna è tanto abituata
agli stracci e alle toppe che quando le regalano un grembiule nuovo lo
sforbicia per rattoppare quello vecchio. In questa, come nella maggior parte
delle altre storielle, la comicità nasce dall'opposizione di due ordini di
conseguenze entrambi logici la cui mutua conferma provoca un effetto di
sproporzione paradossale (secondo la terminologia di Violette Morin, autrice
d'una delle prime analisi del meccanismo delle barzellette, le dovremmo
classificare come «a disgiunzione referenziale in articolazione bloccata»), ma
l'elemento specifico è che questo paradosso nasce da una situazione di
mancanza, di penuria, di fame. Volendone formalizzare il meccanismo, proporrei
uno schema molto semplice: La pierzese è così stracciata (1) che tutti i panni
le servono per fare toppe; (2) che ha bisogno di un grembiule nuovo. Risultato:
si farà le toppe col grembiule nuovo.
Il piazzese
è così improvvido e intempestivo (1) che muore d'improvviso; (2) che interrompe
la moglie mentre scodella la pappa calda. Risultato: moglie e figlio prima
mangeranno la pappa, poi piangeranno il morto.
Il
cesarottano, per la lunga astinenza sessuale durante i lavori agricoli, torna
a casa così voglioso (1) che infuria sulla moglie come un toro; (2) che la
moglie spaventata lo para con la mano. Risultato: E lui, tutto focoso: —
Levatevi la mano vi dico, che ve la buco!
Se i
rapporti tra persone si stabiliscono sotto il segno della mancanza, i rapporti
con i luoghi sono altrettanto ridotti. Più che i luoghi sono i nomi dei luoghi
a muovere l'avversione o l'attrazione. (Attrazione che è presente in una sola
storiella, sulla nostalgia dell'emigrato, che dà l'unica nota di sentimento a
questo quadro spietato: la nave che riporta in patria il prizzitano s'avvicina
alla costa, «la lanterna del molo lungi ardeva come un braciere», e lui tende
le mani per scaldarsi).
Il contadino
è tanto immerso nella natura che non ha bisogno di parlarne, così come nel
Corano non si parla mai di cammelli (il che prova — scrisse una volta Borges —
che veramente fu dettato negli accampamenti del deserto). L'arte di Lanza
prosatore eccelle nell'evocare un paesaggio da scarni elementi. La natura
compare in queste storie come atmosfera e luce delle stagioni, ma le immagini
vegetali e animali che vi agiscono direttamente sono rare, e per di più
ambigue, apportatrici d'insicurezza: «una ficaia mora, vasta e frondosa» con
«in cima nel folto un fico come una melanzana», ma che potrebb'essere pure,
visto controluce, una merla che sta per spiccare il volo; in un bosco coperto
di neve, su di un olmo dai rami stecchiti si posa una civetta e gli affamati la
scambiano per selvaggina commestibile; sul campo di frumento maturo, la notte
il verso del chiù è scambiato dall'avido agricoltore per una promessa di
maggior raccolto; nella tana, invece del coniglio, il furetto trova un rospo
che gli piscia veleno sul muso.
La natura è
il mondo dell'impreciso e dell'incerto, che il linguaggio umano cerca di
fissare come può: La pernice del raddusano era in realtà un'upupa, ma lui
l'aveva cacciata e mangiata come pernice, per cui poteva raccontare in piazza:
« Ho ammazzato una pernice che era anche un'upupa ». Anche la luna, che si
direbbe l'oggetto più inconfutabile e patente, due volte compare in questi
racconti, e una volta l'ubriaco la confonde col sole, e l'altra volta il
carrettiere la perde col riflesso nell'abbeveratoio.
La natura
vera, nei Mimi di Lanza, non è cosmo, non è esterna all'uomo: è una parte
dell'uomo, è il sesso. Mentre nelle barzellette oscene che sentiamo raccontare
di solito l'atto sessuale è evocato in modo generico e spiccio, qui lo spirito
sta spesso nella precisione dei dettagli con cui vengono rappresentati gli
organi sessuali e le fasi e posizioni dell'accoppiamento: come il «saluto» de Il
licatese, stupratore di garbo, o il «forno» de L'adernese, che
obbliga il marito a soffiare « come un ciuco in salita », o la « giusta misura
» de La chiaramontana, o gli inabili maneggi de Il malpasso («
quella, che aveva prescia, lo raddrizzava, ora scansandosi ora tirandolo... »).
È difficile
stabilire in che misura questi effetti provengano dall'esattezza del dettato
popolare e in che misura dall'efficacia della scrittura di Lanza. Certo l'uno e
l'altro elemento vi hanno parte. Nelle storie boccaccesche d'astuzie per
possedere una donna, Lanza rivela la dote maggiore della sua prosa: quelli di
comunicare il massimo di colore e calore con i minimi mezzi. Così nella trovata
del compare che persuade una donna incinta che il marito ha dimenticato di
fare i piedini al nascituro e s'offre di completare l'opera (I piedini);
o nella finta ingenuità de La nicosiana che continua a dire: «Vediamo
che vuol fare il compare», finché l'atto viene portato a compimento; o nella
fantasia erotica de Il riesano che nella notte di nozze, prima della
giovane sposa, sente l'uzzolo di possedere la suocera.
Storie di
bricconi e gabbati anche queste, ma in cui le vittime — le donne sedotte — sono
probabili complici dell'inganno subito: la guerra degli inganni si rivela essa
stessa un inganno per mascherare una armonia proibita, una festa delle
trasgressioni.
Se la
barzelletta oscena è tradizionalmente ispirata all'«ideologia maschile» qui
vediamo peraltro che i diritti della donna alla soddisfazione sessuale vengono
messi in primo piano. In realtà questa «ideologia maschile» ha sempre avuto due
facce, come ben si vede nelle molte storielle dedicate alle donne vogliose: una
faccia misogina e denigratoria, e l'altra di giulivo compiacimento per la forza
degli istinti naturali; in Lanza è questo secondo aspetto che trionfa sul
primo. Perfino nella storiella del marito che, dovendo staccarsi dalla moglie
a metà dell'amplesso per correre a sparare alla lepre, prega il compare di
continuare l'opera intrapresa (La lepre nei cavoli) al di là del solito
dileggio del cornuto affiora l'evocazione d'un'età dell'oro in cui tra le
leggi della natura e quelle della società si stabiliscono altre connessioni.
La storiella
oscena si rivela relitto dell'orgia contadina come rito annuale di fertilità,
da secoli cancellata dalla memoria e dalla coscienza collettive, e qui
riaffiorante nell'intrico de Le gambe dei lercaresi, così mischiate che
nessuno ritrova le proprie. L'oscenità narrativa rimanda alla festa
carnevalesca, al mito del paese della cuccagna, al capovolgimento dei valori e
delle gerarchie e dei linguaggi, al sogno della realizzazione dei desideri,
all'utopia.
In Francesco
Lanza, Mimi Siciliani, Sellerio Editore, Palermo, 1971
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