30 giugno 2012

MIRACOLI...



Miracoli

         Da ieri gli italiani sono tutti antirazzisti. 

Jena@lastampa.it   30 giugno 2012



PS: Dopo la lezione impartita dagli spagnoli, scommetto che tutto tornerà come prima.

27 giugno 2012

TUTO E’ CORPO D’AMORE



Oggi prendo dal blog di Francesca -  http://buchi-nella-sabbia.blogspot.it/ - una splendida poesia di  Franco Scataglini  in dialetto anconitano con la sua traduzione inglese.



Tuto è corpo d'amore
la tera 'l cielo 'l pa'
i ucceli de cità
spenati, senz'unore,

gati cessi arboreli
drento l'aiole grame,
l'esse sazi e ave' fame,
el coce sui forneli

- 'st'ora de mezogiorno -
de mile e mile pasti,
i luoghi streti e i vasti
liberi dal contorno,

i scolari che sorte
in massa da le scole
e le composte fiole
de sé più meio acorte,

i operai del cantiere
co' le sue azzure tute
(inteligenze mute
coi tapi del potere)

i ladri i questuri'
sempre dal sud sortiti
- musi guzi aneriti
schiene da signorsì –

le casalinghe (strane
anime d'umidicio)
quele che va in uficio
le operaie le putane,

i fenochi estromessi
de l'ama' 'nte 'l dicoro,
tuti i ribeli, loro,
che manco a vive è amessi

ma pure l'obediente
da la fadiga zita
scartato da la vita
quando non dà più niente.

Tuto è corpo d'amore
mischiato al bene e 'l male,
tuto è 'l fenomenale
essece: serpe o fiore

ortiga o albaspina
infedeltà, costanza
fortuna, malandanza
sesso d'omo o vagina

e te, dialeto caro
che da l'infanzia sorti,
t'ha cinguetato i morti
su l'alto colombaro

e te, arboro mio,
c'arfoi a tute le lune,
'nte le tue fieze brune
io so' pedochio e dio

Franco Scataglini
So’ rimaso la spina, 1977


Franco Scataglini

Everything is body of love
earth sky bread
plucked, unhonored
city birds

cats johns little trees
within afflicted flowerbeds,
being full and being hungry,
cooking on cookers

- at this noon hour -
thousands of meals,
narrow and wide places
free from outline,

crowds of students
coming out of school
and well-behaved,
more mindful girls,

construction workers
in their blue working clothes
(dumb minds
stucked by power)

thieves policemen
always from the south
- dark pointed faces
and nodding backs –

housewives (bizarre
water souls)
those going to the office
workers whores

gays banned
from loving with decency,
all rebels, those
who are denied life

but also the obedient
who silently struggles
thrown out from life
when he has nothing more to give.

Everything is body of love
mixed with evil and good,
everything is extraordinary
being there: snake or flower

nettle or hawthorn
infidelity, constancy
being lucky, failing
male member or vagina

and you, my dear dialect
coming out of childhood,
tweeted by the deads
on the high pigeonry

and you, my tree,
pushing out leaves with each new moon,
in your brown locks
I'm louse and god




26 giugno 2012

MARX VIVO















Oggi, 3 luglio 2012, sul  Corriere della Sera si può leggere questo articolo:

 
Un fantasma si aggira per l’Europa: la nuova primavera di Karl Marx
Oltre la tragedia del comunismo reale, la riscoperta del grande filosofo
di Umberto Curi

Qualche tempo fa, la rete radiofo­nica della Bbc, Radio 4, nella ru­brica «In our time» aveva pro­mosso un’iniziativa davvero singolare. Si chiedeva agli ascoltatori di indicare «il più grande filosofo della sto­ria», fra una lista di 20 autori. L’esito fi­nale del sondaggio, proseguito per alcu­ne settimane con una risonanza crescen­te e con alcuni significativi riflessi nei grandi media, appare per molti aspetti sorprendente. In questa insolita classifi­ca, infatti, è risultato largamente vincito­re Karl Marx (con quasi il 30% dei voti), seguito a notevole distanza da Hume (12,67%), Wittgenstein (6,80%), Nietz­sche (6,49%), Platone (5,65%) e Kant (5,61%). Nelle ultime posizioni, Epicuro, Hobbes e Heidegger, votati con percen­tuali pressoché irrilevanti. A ridosso dei primi, anche se irrimediabilmente ta­gliati fuori dalla «zona podio», san Tom­maso e Socrate, seguiti da Aristotele e da Popper, i quali raggranellano rispettivamente il 4,52% e il 4,20%. Ma prima di esprimere qualche valutazione in margi­ne a una iniziativa per molti versi strava­gante, può essere istruttivo, oltre che ta­lora anche divertente, andare a spulcia­re nel repertorio delle risposte fornite, oltre che delle motivazioni che accompa­gnano le diverse nomination.
Trascurando le indicazioni più sconta­te, riguardanti pensatori comunque noti e più volte votati, colpisce anzitutto l’in­sistenza con la quale emergono i nomi di filosofi orientali — gli indiani Ghan­di, Patanjali e Nagarjuna, i cinesi Lao-Tzu e Confucio, il persiano El Ghazali, proposti in esplicita polemica con l’impostazione «eurocentrica» dominan­te nella lista dei 20 nomi proposti. Merita di essere sottolineata, in questo conte­sto, la motivazione addotta per la scelta di Averroè, grande esponente dell’aristotelismo arabo, fautore del dialogo inter­culturale e della tolleranza contro ogni forma di fanatismo, a proposito del qua­le si dice che «abbiamo bisogno di ricor­dare quest’uomo oggi più che mai». Una seconda annotazione riguarda la filoso­fia italiana, che risulterebbe del tutto as­sente, se non fossero avanzate le candi­dature di due grandi autori, i quali non rientrano tuttavia fra i filosofi in senso stretto, quali sono Dante e Machiavelli.
Tipicamente britannico il senso del­l’umorismo che ha ispirato, fra le altre, le nomination di Guglielmo di Occam («Per il suo celebre rasoio. Ah, se solo la gente si ricordasse di usarlo di più!») e di Montaigne («Perché mi fa ridere e perché non è nella lista dei 20 che lo fa­rebbe ridere!»). Più corrosive, al limite della provocazione, altre proposte: quel­la relativa a Kermit the Frog («almeno i suoi epigrammi ci fanno ridere»), o quella che vorrebbe incoronare come maggiore filosofo della storia il calciatore Éric Cantona, noto per le sue intempe­ranze violente dentro e fuori i campi da football, e più recentemente per la sua performance come attore cinematografi­co. Infine, non prive di arguzia, e perfi­no di una sottile verità, alcune proposte «estremistiche», per certi versi coinci­denti, quali quella che indica «nessu­no» quale maggior filosofo della storia («Perché ha ragione il poeta giapponese Basho quando ammonisce a non cercare i saggi del passato, ma a cercare piut­tosto ciò che essi hanno cercato»), o quella che nomina se stesso, perché «non si deve credere ai filosofi più di quanto si debba credere ai politici o a qualunque altro, in quanto ciascuno do­vrebbe essere per se stesso il proprio fi­losofo favorito».
Nel complesso, il sondaggio promos­so dalla Bbc può essere giudicato semplicemente come un giochino bizzarro ma innocuo, derivato principalmente dalla tendenza a inventare nuove forme di in­trattenimento. D’altra parte, da questa competizione emergono anche alcuni elementi un po’ più seri, che meritano qualche riflessione. Anzitutto stupisce, e per certi versi perfino allarma, il fatto che un quotidiano austero e prestigioso, quale l’«Economist», nelle ultime setti­mane del sondaggio abbia svolto una campagna fra i suoi lettori, affinché fos­se votato Hume, al solo scopo — esplici­tamente dichiarato — di evitare l’incoro­nazione di Marx quale maggior filosofo. Segno evidente della persistenza di pau­re e pregiudizi tutt’altro che superati, in un Paese, e in un giornale, che pure do­vrebbero essere perfettamente in grado di distinguere fra l’opera di un filosofo (certamente fra i più grandi, comunque la si pensi) e la tragedia del comunismo realizzato. Senza altresì avvedersi che, in una società dello spettacolo e della co­municazione quale è la nostra, un inter­vento a gamba tesa di questo genere non poteva che generare un effetto controproducente. In secondo luogo, i risul­tati del sondaggio dimostrano che, alme­no in un pubblico eterogeneo e indiffe­renziato quale è quello presumibilmen­te coinvolto nella consultazione, la figu­ra del filosofo è ancora largamente asso­ciata a quella di alcuni grandi autori del passato, mentre stentano a emergere i protagonisti del pensiero del Novecen­to. A ciò si aggiunga che, a eccezione di Wittgenstein, non vi è traccia fra i più votati di una particolare inclinazione per i filosofi di orientamento analitico. A dispetto di ciò che, viceversa, si è soli­ti ripetere, quando si indicano nei Paesi di lingua inglese le roccaforti della ten­denza abitualmente contrapposta alla fi­losofia continentale.
Insomma, per quanto possa apparire sorprendente: uno spettro ancora si aggira per l’Europa, nelle sembianze di un uomo con una folta capigliatura e una barba scurissima.

Il materialismo storico e la crisi contemporanea
 Studi, festival e perfino un romanzo giallo
Così Hobsbawm ha lanciato la tendenza

Le idee di Karl Marx per interpretare la crisi contemporanea: Gian Paolo Patta, sindacalista e politico, ha appena pubblicato il saggio Plusvalore d’Italia. Il buon uso di Marx per capire la crisi mondiale e del nostro Paese (edizioni Punto Rosso, pp. 236, € 15). La riscoperta di Marx ha già un suo «classico» nel saggio di Eric Hobsbawm, uno dei maggiori storici contemporanei, intitolato Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo (Rizzoli, 2011).
Tra i libri dedicati alla modernità del pensiero del filosofo tedesco usciti quest’anno: A lezione da Marx (Manifestolibri) di Stefano Petrucciani, Marx oltre il marxismo (Franco Angeli) di Stefano Ricciuti e perfino un giallo, Marx & Engels, investigatori.
Il filo rosso del delitto (Nuovi Equilibri). Dagli scaffali alla piazza: dal 5 al 9 luglio a Londra si tiene il festival «Marxism 2012». Sottotitolo: «Idee per cambiare il mondo» (www.marxismfestival.org.uk).



La seconda vita di Karl Marx
di Marcello Musto
da l'Unità, 24/6/2012 


Se la perpetua giovinezza di un autore sta nella sua capacità di riuscire a stimolare sempre nuove idee, si può allora affermare che Karl Marx possiede, senz’altro, questa virtù.

Nonostante, dopo la caduta del Muro di Berlino, conservatori e progressisti, liberali ed ex-comunisti, ne avessero decretato, quasi all’unanimità, la definitiva scomparsa, con una velocità per molti versi sorprendente, le sue teorie sono ritornate di grande attualità. Di fronte alla recente crisi economica e alle profonde contraddizioni che dilaniano la società capitalistica, si è ripreso a interrogare il pensatore frettolosamente messo da parte dopo il 1989 e, negli ultimi anni, centinaia di quotidiani, periodici, emittenti televisive e radiofoniche, di tutto il mondo, hanno celebrato le analisi contenute ne Il capitale.

Nuovi sentieri per la ricerca 
Questa riscoperta è accompagnata, sul fronte accademico, dal proseguimento della nuova edizione storico-critica delle opere complete di Marx ed Engels, la MEGA². In essa, le numerose opere incompiute di Marx sono state ripubblicate rispettando lo stato originario dei manoscritti e non, come avvenuto in precedenza, sulla base degli interventi redazionali cui essi furono sottoposti. Grazie a questa importante novità e tramite la stampa dei quaderni di appunti di Marx (precedentemente quasi del tutto sconosciuti), emerge un pensatore per molti versi differente da quello rappresentato da tanti avversari e presunti seguaci. Alla statua dal profilo granitico che, nelle piazze di Mosca e Pechino, indicava il sol dell’avvenire con certezza dogmatica, si sostituisce l’immagine di un autore fortemente autocritico che, nel corso della sua esistenza, lasciò incompleta una parte significativa delle opere che si era proposto di scrivere, perché sentì l’esigenza di dedicare le sue energie a studi ulteriori che verificassero la validità delle proprie tesi.
Diverse interpretazioni consolidate dell’opera di Marx vengono, così, rimesse in discussione. Le cento pagine iniziali de L’ideologia tedesca (testo molto dibattuto nel Novecento e da tutti considerato pressoché terminato) sono state pubblicate, per la prima volta, in ordine cronologico e nella veste originaria di sette frammenti separati. Si è scoperto che essi erano degli scarti delle sezioni, del libro in cantiere, dedicate agli esponenti della Sinistra hegeliana Bauer e Stirner. La prima edizione del testo, stampata a Mosca nel 1932, ma anche le numerose e successive versioni, che non ne variarono di molto la sostanza, crearono, invece, l’errata impressione che il cosiddetto “capitolo su Feuerbach” rappresentasse la parte principale del libro scritto da un Giano bifronte (Marx ed Engels), nel quale – secondo gli studiosi sovietici – erano state esposte esaustivamente le leggi del materialismo storico (espressione, per altro, mai utilizzata da Marx), o – secondo il marxista francese Althusser – era stata partorita niente meno che “una rottura epistemologica senza equivoci, chiaramente presente nell’opera di Marx”.
Ulteriore motivo di interesse di questa edizione è l’avanzamento nella distinzione tra la concezione di Marx e quella di Engels. Passaggi precedentemente considerati del tutto unitari vengono letti in modo differente. La frase, oggetto di critiche feroci e difese ideologiche, ritenuta da diversi autori come una delle principali descrizioni della società post-capitalistica secondo Marx (“la società comunista […] regola la produzione in generale e […] mi rende possibile il fare oggi questa cosa, domani quell’altra; la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare”), fu, in realtà, opera del solo Engels (ancora influenzato dalle idee degli utopisti francesi) e del tutto respinta dal suo amico più caro.

Le acquisizioni filologiche della MEGA² hanno prodotto risultati di rilievo anche rispetto al magnum opus di Marx. Nel corso dell’ultimo decennio sono stati pubblicati quattro nuovi volumi, contenenti tutte le bozze mancanti dei Libri Secondo e Terzo de Il capitale – lasciati, com’è noto, da lui incompleti. La stampa di questi testi consente di ricostruire l’intero processo di selezione e composizione dei manoscritti marxiani svolto da Engels (i suoi interventi ammontano a diverse migliaia – cifra inimmaginabile fino a pochi anni fa), nel lungo arco di tempo compreso tra il 1883 e il 1894. Oggi si può valutare, dunque, dove egli apportò consistenti modifiche e dove, invece, rispettò più fedelmente il testo di Marx che pure, occorre affermarlo con chiarezza, non rappresenta affatto l’approdo finale della sua ricerca (incluse le pagine sulla celebre Legge della caduta tendenziale del saggio di profitto).

Non solo un classico 
Credere di poter relegare Marx alla funzione di classico imbalsamato, al campo degli specialismi dell’accademia, costituirebbe, però, un errore pari a quello commesso da coloro che lo trasformarono nella fonte dottrinaria del “socialismo reale”. Le sue analisi sono più attuali che mai. Quando Marx scrisse Il capitale, il modo di produzione capitalistico era ancora in una fase iniziale del proprio sviluppo. Oggi, in seguito al crollo dell’Unione Sovietica e alla sua espansione geografica in nuove aree del pianeta (in primis la Cina), esso è divenuto un sistema compiutamente globale – che invade e condiziona tutti gli aspetti (non solo quelli economici) della vita degli esseri umani – e le riflessioni di Marx si rivelano più feconde di quanto non lo fossero al suo tempo.

Dopo vent’anni di lodi incondizionate alla società di mercato, pensieri deboli subalterni e vacuità post-moderne, poter ritornare a guardare l’orizzonte sulle spalle di un gigante come Marx è una notizia positiva per tutti quelli che sono impegnati nella ricerca, politica e teorica, di un’alternativa democratica al capitalismo.


ATTUALITA' DI PINOCCHIO...




I Professori chiamati al capezzale dell’Italia malata fanno tanto pensare ai medici chiamati  per salvare Pinocchio:


E i medici arrivarono subito uno dopo l’altro: arrivò, cioè, un Corvo, una Civetta e un Grillo-parlante.
“Vorrei sapere da lor signori “ disse la Fata, rivolgendosi ai tre medici riuniti intorno al letto di Pinocchio “vorrei sapere da lor signori se questo disgraziato burattino sia vivo o morto!”
A quest’invito, il Corvo, facendosi avanti per il primo, tastò il polso a Pinocchio, poi gli tastò il naso, poi il dito mignolo dei piedi e quand’ebbe tastato ben bene, pronunziò solennemente queste parole: “A mio credere il burattino è bell’e morto: ma se per disgrazia non fosse morto, allora sarebbe indizio sicuro che è sempre vivo!”
“Mi dispiace” disse la Civetta “di dover contraddire il Corvo, mio illustre amico e collega: per me, invece, il burattino è sempre vivo; ma se per disgrazia non fosse vivo, allora sarebbe segno che è morto davvero.”
“E lei non dice nulla?” domandò la Fata al Grillo-parlante. “Io dico che il medico prudente, quando non sa quello che dice, la miglior cosa che possa fare, è quella di stare zitto. Del resto quel burattino lì, non m’è fisionomia nuova: io lo conosco da un pezzo!”
Pinocchio, che fin allora era stato immobile come un vero pezzo di legno, ebbe una specie di fremito convulso, che fece scuotere tutto il letto.
“Quel burattino lì” seguitò a dire il Grillo-parlante “è una birba matricolata…”
Pinocchio aprì gli occhi e li richiuse subito. “È un monellaccio, uno svogliato, un vagabondo…”
Pinocchio si nascose la faccia sotto i lenzuoli. “Quel burattino lì è un figliuolo disubbidiente, che farà morire di crepacuore il suo povero babbo!”
A questo punto si sentì nella camera un suono soffocato di pianti e di singhiozzi. Figuratevi come rimasero tutti, allorché, sollevati un poco i lenzuoli, si accorsero che quello che piangeva e singhiozzava era Pinocchio.
“Quando il morto piange, è segno che è in via di guarigione”  disse solennemente il Corvo. “Mi duole di contraddire il mio illustre amico e collega” soggiunse la Civetta “ma per me quando il morto piange, è segno che gli dispiace a morire.”

Dal XVI capitolo delle Avventure di Pinocchio del Collodi

25 giugno 2012

Ezio Spataro stasera a Milano...






Mi scuso del ritardo con cui dò la notizia. Ma, meglio tardi che mai!






























Ecco due delle poesie proposte da Ezio alla CAM Garibaldi di Milano:


Acidduzzu

Acidduzzu ca ngagghiasti
nta li riti tradituri
lu desertu tu lassasti
cu li razzi migraturi

Comu fu ca tu passasti
e li riti nun vidisti?
Troppu bonu u to pinsari
ca unn'egghè sapii vulari.

T'arrimazzi nta la argia
cu lu beccu nsanguliatu
la to scerta nun fu saggia
d'arristari dda ngagghiatu

troppu vasciu tu vulasti
unni consanu li riti
nta sta trappula ammucciata
ca fa tutti scimuniti

Ora vegnu e ti la dugnu
na spiranza scanusciuta
iu t'afferru nta lu pugnu
e lu grapu a to nsaputa

Ma t'arresti ancora fermu
ti scurdasti ca vulavi
si nisciutu di lu nfernu
ma nun movi ancora l'ali.

Nun ci cridi ca davanti
c'è lu munnu ca t'aspetta
avi assai ca cchiù nun canti
stannu dintra a la gabietta..

Nta lu cielu ora ti eccu
e ribatti li to ali
si cci teni a lu to beccu
ta nsignari arrè a vulari.

 
Na petra

A principiu di na sciarra
chi si voli rispittari
c'è la rabbia di cu parra
prima ancora d'attaccari.

C'è l'offisa ripituta
di cu voli la raggiuni,
la so vucca nun s'astuta,
si pripara un timpuluni.

E s'addumanu li nerbi
di na sciarra assai cuvata
la parola ormai nun serbi,
e già parti na lampiata.

Li cristiani a giru a giru
su curiusi di sta rissa,
ci su facci misi a tiru,
e si grapi na scummissa.

Nta lu vivu di la lotta
hannu pugna già sirrati,
cu si piggha n'atra botta
avi l'ossa già spaccati.

S'aizzaru comu cani
ca si grattanu la rugna,
sà chi spinci nuatri umani
a sirrarinni li pugna..

E dda petra assai tinuta
nta na manu stritta e chiusa
di lu sangu fu tinciuta
e di n'terra ancora accusa:

"Sugnu petra di muntagna,
lu me regnu è minerali,
e ssa testa chi guadagna
arrivannu a lu spitali?

A lu regnu di l'umani
sempri stetti suttumisa
mi pistaru porci e cani
ma sta cosa un c'era misa!!

Di la terra mi pigghiaru
p'attaccari lu nemicu
di ssa testa c'ampicaru
nn'arridducinu na ficu!"


21 giugno 2012

DIALETTICA E UMORISMO

Un particolare del TRIONFO DELLA MORTE



“Quando si parla di umorismo, io penso sempre al filosofo Hegel. Il suo libro La grande logica lo lessi una volta che avevo i reumatismi e non potevo muovermi. È una delle più grandi opere umoristiche della letteratura mondiale. Tratta della maniera di vivere dei concetti, queste esistenze scivolose, instabili, irresponsabili; come s’insultano l’un l’altro e fan la lotta a coltello e poi si siedono a tavola insieme per la cena, come non fosse successo niente. Essi compaiono, per così dire, a coppie, ciascuno sposato col suo contrario, e le loro faccende le sbrigano in coppia, cioè firmano contratti in coppia, fanno processi in coppia, organizzano irruzioni e scassi in coppia, scrivono libri e fanno dichiarazioni giurate in coppia, e cioè come coppia completamente in disaccordo su ogni cosa. Ciò che afferma l’ordine, lo confuta subito, possibilmente nello stesso momento, il disordine, suo compagno inseparabile. Non possono vivere l’uno senza l’altro, né l’uno con l’altro.
Lo spirito, l’ironia di una cosa lui lo chiama la dialettica. Come tutti i grandi umoristi, egli diceva tutto con la faccia più seria di questo mondo. I più grandi sovversivi si definiscono allievi del più grande sostenitore dello stato! Tra parentesi, questo testimonia in favore del loro umorismo. Difatti, non ho mai visto un uomo privo di umorismo che capisse la dialettica di Hegel”.

Bertolt Brecht, Dialoghi di profughi


Lode alla dialettica

di Bertolt Brecht

L'ingiustizia oggi cammina con passo sicuro.
Gli oppressori si fondano su diecimila anni.
La violenza garantisce: com'è, così resterà.
Nessuna voce risuona tranne la voce di chi comanda
e sui mercati lo sfruttamento dice alto: solo ora io comincio.
Ma fra gli oppressi molti dicono ora:
quel che vogliamo, non verrà mai.
Chi ancora è vivo non dica: mai!
Quel che è sicuro non è sicuro.
Com'è, così non resterà.
Quando chi comanda avrà parlato
parleranno i comandati.
Chi osa dire: mai?
A chi si deve, se dura l'oppressione? A noi.
A chi si deve, se sarà spezzata? Sempre a noi.
Chi viene abbattuto, si alzi!
Chi è perduto, combatta!
Chi ha conosciuta la sua condizione, come lo si potrà fermare?
Perché i vinti di oggi sono i vincitori di domani
e il mai diventa: oggi! 

Traduzione di Franco Fortini



 Lob der Dialektik

Das Unrecht geht heute einher mit sicherem Schritt.
Die Unterdriicker richten sich ein auf zehntausend Jahre.
Die Gewalt versichert: So, wie es ist, bleibt es.
Keine Stimme ert
önt außer der Stimme der Herrschenden
Und auf den M
ärkten sagt die Ausbeutung laut: Jetzt beginne ich erst.
Aber von den Unterdr
űckten sagen viele jetzt:
Was wir wollen, geht niemals.
Wer noch lebt, sage nicht: niemals!
Das Sichere ist nicht sicher.
So, wie es ist, bleibt es nicht.
Wenn die Herrschenden gesprochen haben
Werden die Beherrschten sprechen.
Wer wagt zu sagen: niemals?
An wem liegt es, wenn die Unterdr
űckung bleibt? An uns.
An wem liegt es, wenn sie zerbrochen wird? Ebenfalls an uns.
Wer niedergeschlagen wird, der erhebe sich!
Wer verloren ist, k
ämpfe!
Wer seine Lage erkannt hat, wie solI der aufzuhalten sein?
Denn die Besiegten von heute sind die Sieger von morgen
Und aus Niemals wird: Heute noch! 

Hundert Gedichte, 195I

20 giugno 2012

QUESTIONI DI CLASSE...Gallino, Zanotelli e altri


       Finalmente anche L’Unità si accorge del libro di Luciano Gallino su cui ci siamo soffermati lo scorso otto maggio. La cosa più sorprendente è  che l'invito al conflitto sociale compaia oggi sul giornale - immemore del suo fondatore - che,  negli ultimi anni, ha rappresentato soprattutto gli interessi dei ceti dominanti.
       Comunque, anche a costo di ripeterci, riproduciamo l’articolo di Bruno Gravagnuolo, convinti come siamo del fatto che i conflitti di classe sono fisiologici in ogni società divisa in classi. Il problema è la coscienza che i protagonisti del conflitto hanno dei loro interessi. Oggi questa coscienza sembra essere patrimonio esclusivo delle classi dominanti, mentre i lavoratori dipendenti, sempre più divisi e frammentati,  paiono aver perso la consapevolezza della propria condizione e del proprio valore.

Bruno Gravagnuolo: Lotta di classe, forti contro deboli. In un libro-intervista Luciano Gallino spiega perché il basso si è disgregato

Dagli anni 80 la lotta che era stata condotta dal basso per migliorare il proprio destino ha ceduto il posto a una lotta condotta dall'alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere che erano stati in qualche misura erosi nel trentennio precedente. Questo è il mondo del lavoro nel XXI secolo.

Contrordine: la lotta di classe esiste ancora, anzi esiste più di prima. Solo che a farla sono i più forti contro i più deboli, mentre questi ultimi non sono neanche in grado di contarsi e di autoriconoscersi e perciò la subiscono. Non si tratta di slogan «vetero-marxisti», ma di una notizia vera e propria, corredata da un’analisi che mette capo a una tesi di sociologia globale. E a darci la notizia con l’analisi, è uno degli studiosi di relazioni industriali più autorevoli in Italia, Luciano Gallino, conoscitore delle tecnologie moderne, e alieno dalle chiacchiere, specie da quelle a lungo propinateci su «post-industriale», «fine del lavoro» e «fine delle classi». Chi voglia andare dentro la notizia deve leggere l’ultimo libro-intervista di Gallino, a cura di Paola Borgna, sociologa a Torino: La lotta di classe. Dopo la lotta di classe (pagine 213, euro, 12,00, Laterza). Che prende le mosse dal luogo comune, egemone dagli anni 80 anche su una parte della sinistra: dal «fatto» che le classi sarebbero scomparse. Quel fatto è falso, è un «fattoide» illusorio. Perché i numeri globali di Gallino parlano chiaro. In Europa e in America gli operai come produttori di merci e capitale costituiscono almeno un terzo della forza lavoro occupata (in Italia sono circa 7milioni e mezzo di unità, su 19 milioni di lavoratori dipendenti con 5 milioni di salariati dell’industria).

Nel mondo poi c’è un proletariato industriale che sgobba e vive nelle fabbriche pari a circa un miliardo e trecento milioni di persone. Senza omettere, allargando lo sguardo, che due miliardi di persone nel mondo vivono con meno di due dollari al giorno. Contestualmente però, secondo una ricerca del Credit Suisse, nel 2010 lo 0,5% della popolazione mondiale adulta (24 milioni di persone) deteneva il 35% della ricchezza totale, pari a 69 trilioni di dollari. Mentre il 68% possedeva solo il 4,2% del totale della ricchezza mondiale, poco più di 8 trilioni di dollari. E laddove negli Usa nel 2008 l’1% della popolazione percepiva il 23% del reddito nazionale, in Italia in parallelo il reddito percepito dal «decimo» più benestante equivaleva in quell’anno a 10-11 volte la quota percepita dal decimo di famiglie col reddito più basso.

Oggi le cose vanno molto peggio. E sono solo assaggi di statistiche. Ma quel che indicano è chiaro: l’approfondimento delle differenza di classe. Dove l’impoverimento relativo che include qualche incremento verso l’alto coincide con l’impoverimento assoluto, tanto grande è la forbice tra i poli. E senza dire che quella forbice regala una vita e un «lavoro» infernale ai poveri. Altro fattore segnalato da Gallino: l’immenso trasferimento di risorse dal basso verso l’alto negli ultimi decenni, con spoliazione dei salari a vantaggio di rendite e profitti e impoverimento del ceto medio nel fuoco delle turbolenze finanziarie. E qui, ulteriore batteria di dati e una domanda: che succede nel periodo 1976-2006, secondo l’Ocse? Succede che, nei 15 paesi più ricchi di quell’area, l’incidenza dei redditi da lavoro sul Pil (compreso il reddito degli autonomi calcolato come se gli autonomi ricevessero la stessa paga dei salariati) è calata di dieci punti percentuali, dal 68% al 58%. E in Italia il calo ha toccato i 15 punti, precipitando al 53%. E se si va a vedere certe «curve», scopriremo che in Italia alla fine degli anni 80 le entrate fiscali Irpef da lavoro dipendente erano il 40% del totale, e quelle del lavoro autonomo erano pari al 38%. Al presente invece quel 40% è diventato 60%, mentre l’apporto Irpef del lavoro autonomo è sceso al 10%! Il restante delle tasse lo pagano i pensionati, che per quattro quinti sono ex lavoratori dipendenti.

Quel che è accaduta allora è stata una gigantesca lotta di classe, dall’alto, che ha impoverito e disgregato il basso, privandolo di ogni capacità di resistenza. Come? Premiando le rendite e l’evasione. Privatizzando e riducendo le prestazioni di Welfare. Nutrendo le banche, alle quali tra il 2007 e oggi sono state erogati dagli stati europei tre trilioni di euro, a premio dei titoli tossici smerciati. E poi: distruggendo le conquiste del lavoro fino a ridurlo a merce precaria e malpagata. Il tutto in buona coscienza e all’insegna di un Mantra. Questo: il mercato globale alloca ottimamente risorse e investimenti, elevando per tutti le opportunità. Al contrario ci siamo ritrovati con milioni di disoccupati, debiti sovrani accresciuti ed esportazioni di capitali e lavoro fuori dall’area euro. Con merci poi importate e create a sottocosto, i due terzi delle quali, nota Gallino, prodotte da corporation europee e americane. È il Capitale occidentale che fa concorrenza a se stesso. Altro che il pungolo della concorrenza delle tigri più giovani! Del resto la metà delle merci importate in Europa è euro-americano e non cinese. Ne deriva un capitalismo che per un verso abbassa i salari e aumenta la «metrica del lavoro», schiacciando il corpo e la mente dei precari alla catena molto più che al tempo fordista. E per l’altro entra in crisi di realizzo e investe in finanza. Per ristrutturarsi o spuntare alti rendimenti muovendo enormi masse di denaro. Masse di «fondi» con dentro i risparmi dei lavoratori, trascinati a investire contro se stessi: contro i loro posti di lavoro. E contro i debiti sovrani dei loro paesi, oggetti di speculazione e gonfiati da evasione aiuti a banche e a industrie che delocalizzano. Come invertire la rotta? Con la lotta di classe, visto che le classi esistono anche se precariato e «flessibilità» le ha rese «invisibili».

Insomma per Gallino, occorrono sinistra, partiti, corpi intermedi. Per dare forma non distruttiva al capitalismo e farlo funzionare, con redistribuzioni e politiche industriali. Dunque: scoraggiare le delocalizzazioni, spingere in alto i salari in Europa e fuori, tassare le rendite. E colpire magari l’arbitrio privatistico del «rating». Quello che prima incoraggia le speculazioni e poi spinge verso alti tassi di interessi, col ricatto del default. Ma tutto questo per Gallino, va fatto prima che populismo e protesta si alleino con finanza e tecnici, spingendo i poveri ancora più in basso. E prima che una crisi distruttiva del capitalismo ci sospinga verso forme autoritarie. Già, la lotta di classe può salvare il mondo e le anime. Purché stavolta dal basso contro l’alto.

(Da: L'Unità del 19 giugno 2012)

P.S. :
Raccolgo l’invito di Grazia a leggere l’articolo di Luciano Gallino, pubblicato ieri su La Repubblica, che auspica un new deal. Ma mi pare utile riflettere anche sugli interventi di Alex Zanotelli  e di Franco Arminio che  sollecitano un cambiamento ancora più radicale.


LUCIANO GALLINO:
 
Di fronte a un’emergenza che si riassume in quattro milioni di disoccupati e altrettanti di precari, con una marcata tendenza al peggioramento, qualsiasi intervento in tema di occupazione dovrebbe presentare una serie di caratteristiche quali: creare in breve tempo il maggior numero di posti di lavoro; dare priorità alle fasce sociali più colpite, poiché un indicatore negativo che segna il 10 per cento per alcuni può toccare il doppio o il triplo per altri; privilegiare attività ad alta intensità di lavoro; indirizzare i nuovi occupati verso settori di pubblica utilità ed alta priorità, tipo, visto quel che succede, la messa in sicurezza antisismica degli edifici.
Gli interventi finora previsti in questo campo dal governo non presentano nessuna di tali caratteristiche. Dal lato della spesa si pensa ancora una volta a grandi opere, che richiedono anni prima di vedere assunto un solo lavoratore, e in ogni caso ne occupano assai pochi in rapporto al capitale fisso impiegato. Dal lato degli incentivi fiscali, tipo i 10.000 euro di sgravi promessi alle imprese per ogni giovane che assumono, si tratta di vetusti incentivi a pioggia: invece di piantare un albero qui e ora, si irrora un campo sterminato sperando che in futuro spunti non si sa dove qualcosa di simile a un albero.
Inoltre il governo ha peggiorato la situazione dell’occupazione, sia nel settore pubblico che nel privato, con i tagli ai bilanci che ha eseguito o sta predisponendo. Sembra predominare in esso, per non parlare dei commentatori che ogni giorno lo spronano in questo senso, l’idea che ogni forma di spesa pubblica sia un costo da contenere il più possibile. È un’idea iper-liberale, che i conservatori americani riassumono nella battuta “bisogna far morire di fame la bestia”, cioè lo Stato. Fermo restando che ogni genere di spreco nella PA va combattuto, bisognerebbe recuperare la ovvia verità che gli stipendi pagati dallo stato, nonché gli acquisti di beni e servizi che effettua, sono tutti soldi che entrano nel circuito dell’economia al pari di ogni altra spesa, trasformandosi in domanda e occupazione. Per cui i tagli alla spesa pubblica sono in ultimo efficaci contributi alla crescita non del Pil, bensì della disoccupazione.
A fronte del predominio di questa idea nel governo e nei partiti che lo sostengono, ripetere che lo stato dovrebbe finalmente decidersi a operare come datore di lavoro di ultima istanza – come chi scrive prova a dire da tempo muovendo proprio dalle realizzazioni del New Deal rooseveltiano – sembra davvero una causa persa. Con un piccolo segno in controtendenza. Il ministro dell’Istruzione Profumo ha annunciato che il suo ministero intende avviare entro il 2012 le procedure per l’assunzione di 25.000 insegnanti, metà per concorso e il resto attingendo dalle graduatorie dei precari della scuola. Non è esattamente il New Deal, quando con il programma Federal Emergency Relief Act fu ridato un lavoro a 100.000 insegnanti disoccupati e al tempo stesso furono aiutati nel proseguire gli studi 2 milioni di studenti delle scuole superiori e dell’università. Ma è quanto meno un segno che in un settore vitale come l’istruzione, dove la spesa pubblica è assolutamente insostituibile, pena l’esclusione da esso di milioni di giovani, l’idea di tagliarla ancora perché i costi della macchina statale vanno sempre e comunque ridotti, è stata riposta nel cassetto. Dove si può sperare sia raggiunta presto da altre idee controproduttive intorno allo stesso tema.
  
Tratto da La Repubblica del 21 giugno 2012

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Alex Zanotelli da Rio de Janeiro :

19 giugno 2012, Rio de Janeiro- “Benvenuti a Rio+20”. Con questa scritta a caratteri cubitali siamo stati accolti all’aeroporto di Rio per il vertice sul pianeta Terra convocato dall’Onu (20-22 giugno). Come missionari comboniani abbiamo deciso di ritrovarci insieme nel contesto del Vertice per riflettere sul tema pianeta Terra, che ci tocca direttamente. La Terra infatti non sopporta più l’homo sapiens, il cosiddetto sviluppo e questo sistema economico finanziario che vive depredando il pianeta e rendendo i poveri sempre più poveri.
Sono arrivato la notte del 18 giugno nella Baixada fluminense, uno dei quartieri più violenti di Rio, dove vive e opera una comunità comboniana. Così ho avuto subito il sentore di che cos’è “l’altra Rio”. Una sensazione diventata ancora più netta il mattino seguente, attraversando in autobus la città. Mi sono parse chiare due città, spesso una di fronte all’altra: la Rio degli impoveriti e la Rio dell’opulenza. Va notato che il vertice Onu dei capi di stato si tiene a Barra de Tigiuca, la parte bene di Rio. Io invece mi sono recato subito a Aterro de Flamengo per partecipare alla Cupola dos Povos che ha trovato spazio nel lungomare Bahia da Gloria.
Due vertici. La Cupola dos Povos fatta di indigeni, di poveri, di cittadini, di associazioni. Mentre la “Cupola dos Ricos” è collocata nel cuore della ricchezza di Rio. Una vera e propria apartheid.
“Loro sono al centro, a Tigiuca”, ha detto il prof. Bonaventura de Souza. “Il circo del’Onu”, li ha definiti il prof. Martinez-Alier, che non decide mai nulla!”. Infatti l’impressione che abbiamo ora è che il Vertice della Terra rischia di essere un altro fallimento. Fra l’altro non hanno partecipato né Obama né la Merkel.
Ma la speranza non viene da lì, viene invece dai poveri, dagli indigeni, dalla cittadinanza attiva. E’ stato incredibile per me trovare Aterro de Flamengo così tanta vivacità, dibattiti, reti, campagne… Un’immensa fiera dell’inventiva umana, di culture, di associazioni…
E’ la stessa impressione che ho avuto quella stessa mattina partecipando ad un dibattito, promosso da Rigas (Rete italiana per la giustizia sociale e ambientale), sui nuovi paradigmi necessari per rispondere alle sfide della giustizia non solo distributiva ma anche ambientale. Vi hanno partecipato il teologo brasiliano Leonardo Boff, lo spagnolo prof. J. Martinez-Alier, l’economista portoghese Bonaventura de Souza, il coordinatore di Rigas Giuseppe de Marzo. Lavori presieduti da Marica de Pierri, dell’associazione “A Sud”,  nella sala strapiena del Musero di arte moderna.
“Il Pil non può più essere l’indicatore per l’economia, ha detto il noto economista Martinez, dobbiamo andare verso la prosperità senza crescita, secondo quanto teorizzato dall’economista Usa Tim Jakson”. Martinez ha avuto parole di elogio e di sostegno per le due esperienza latinoamericane diEcuador e Bolivia.
Boff è partito citando Einstien: “Non si può pensare che chi ha creato la crisi trovi anche la soluzione”. Né si può accertate come principio etico quello del nostro vivere bene occidentale perché “questo ha significato vivere male per miliardi di persosne”. Per uscire dall’attuale crisi, Boff ha elencato 4 principi fondamentali: a) ogni essere ha un valore intrinseco che deve essere rispettato; b) il dovere di prendersi cura di ciò che ci circonda; c) una responsabilità planetaria; d) cooperazione e solidarietà universali. Ha sottolineato che non si può produrre per accumulare ma solo per condividere.
Giuseppe de Marzo ha ribadito che l’attuale crisi nasce dal non aver riconosciuto la natura e i diritti della Madre Terra. Ha urlato: “Noi siamo la terra. Basta con la crescita”.
Personalmente ho portato a conoscenza dell’assemblea le lotte popolari italiane sull’acqua con il referendum e sui rifiuti con la resistenza alle megadiscariche e agli inceneritori, per muoverci invece verso il riciclaggio totale.
Infine il prof. De Souza ha definito la green economy “il cavallo di Troia del capitalismo mondiale” e ha messo tutti in guardia tutti che “bisogna cambiare il potere prima di prenderlo”.
Questa di Rio è stata una tavola rotonda molto valida che prelude a tanti incontri. Provocazioni queste importanti anche per noi comboniani, a Rio siamo una trentina, che dobbiamo riuscire ad includere pienamente queste tematiche nel nostro fare missione.

Tratto da   http://www.democraziakmzero.org

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FRANCO  ARMINIO: LA POLITICA CHE NON C'E'

 Si parla della crisi senza il coraggio di dire cos’è in crisi. I partiti vogliono uscire dalla crisi con la crescita. Sembra una cosa ovvia e invece è una scelta molto complicata. Bisogna crescere per mantenere un certo tenore di vita. I governi ragionano come se fossero individui. La politica si sta riducendo sempre più alla manutenzione dell’egoismo. Ho molti amici di sinistra a cui parlare della necessità di inumare il capitalismo pare una follia.
Quello che una volta era il conflitto di classe adesso è diventata la guerra delle vanità contrapposte: si preferisce contestare il vicino di casa, si preferisce parlare male delle persone che abbiamo intorno, piuttosto che organizzare la lotta ai padroni del mondo. Questi padroni a volte vanno in disgrazia, vedi Berlusconi, e la sinistra non sa approfittarne per provare a costruire una democrazia senza padroni.
Il capitalismo è intimamente morto, ma prima di morire ha stordito anche la sinistra. E allora ci troviamo in una stagione con gli occhi chiusi. E l’occidente sta diventando una macchina della decomposizione. Una macchina che mostrando ogni giorno i suo effetti ha il potere di far pensare che non c’è spazio per nient’altro. E invece bisogna dire ogni giorno che la felicità e il capitalismo sono forze antitetiche. I mercati finanziari non contano più dei mercati rionali; un ragazzo che si iscrive all’università dovrebbe prima frequentare una bottega per imparare a fare qualcosa con le mani; ci vorrebbe un reddito di cittadinanza garantito per tutti, ma più alto per chi vive nei paesi poveri; i giovani che ne fanno richiesta dovrebbero poter disporre di un pezzo di terra. Alle prossime elezioni ci vorrebbe un partito che facesse proposte di questo tipo. Un partito che candidi non chi sa parlare, ma chi sa guardare. Un partito che consideri le elezioni e il governo solo un aspetto della sua azione. Un partito che lavori sui concetti, sulle proposte, sulle tecnologie del buon governo, ma che lavori anche per stimolare un pensiero poetico collettivo. È il sogno che si sposa alla ragione. Dove sta scritto che la politica deve essere unicamente estenuante mediazione per comporre interessi diversi? Questo è sicuramente un ferro del mestiere, un ferro insufficiente senza un lavoro radicale proteso a costruire uomini che siano fuori dalla logica sviluppista, dalla visione del mondo come una cava da sfruttare. C’è sempre il rischio di agitare vaghezze e misticismi e narrazioni inconcludenti, ma una politica che non sa correre rischi è completamente inutile e non a caso è tutta sottomessa ai poteri economici.
È ora di rivedere questa storia che il potere corrompe e che uno scrittore dovrebbe stare lontano da ogni forma di potere. Nell’Italia dell’autismo corale non è la passione civile il cuore della faccenda, ma le passioni incivili. Alcuni stanno molte ore al giorno davanti al computer e al telefonino e non si sognerebbero mai di entrare in una sezione di partito: la politica viene fatta con qualche mi piace su facebook, c’è un interesse molto superficiale alla vita pubblica. Sicuramente nei prossimi mesi ci sarà più partecipazione, ma senza impeti rivoluzionari non succede niente, non solo nella vita politica, anche in quella personale. Ecco la novità della nostra epoca: l’estremismo e il rigore non sono una scelta tra le tante, sono l’unica scelta possibile.
La rivoluzione non è una cosa per conquistare un palazzo. Più semplicemente è il modo migliore di consumare il tempo che passa. Allora o si è rivoluzionari o non si è niente. Non ci sono vie di mezzo, non ci sono indugi tollerabili. Bisogna fare tutto e subito, bisogna cercare l’impossibile e quando lo abbiamo trovato cercarlo ancora. Alle prossime elezioni sarebbe bello se ci fosse un partito che avesse la rivoluzione nel suo nome. E se non c’è, nulla è perduto. Cercatevi qualche amico, qualche luogo dove la rivoluzione si lascia fare comunque. È assurdo davanti a una prospettiva come questa disquisire tra i partiti esistenti e quelli che stanno arrivando. Bisogna immaginare che possa esistere questo ed altro. La politica che c’è ha bisogno di una sola cosa: la politica che non c’è.
Da il manifesto del 21 giugno 2012