Finalmente anche L’Unità si accorge del
libro di Luciano Gallino su cui ci siamo soffermati lo scorso otto maggio. La cosa più sorprendente è che l'invito al conflitto sociale compaia oggi
sul giornale - immemore del suo fondatore - che,
negli ultimi anni, ha rappresentato soprattutto gli interessi dei ceti
dominanti.
Comunque, anche a costo di
ripeterci, riproduciamo l’articolo di Bruno Gravagnuolo, convinti come siamo del fatto
che i conflitti di classe sono fisiologici in ogni società divisa in classi.
Il problema è la coscienza che i protagonisti del conflitto hanno dei loro interessi.
Oggi questa coscienza sembra essere patrimonio esclusivo delle classi dominanti,
mentre i lavoratori dipendenti, sempre più divisi e frammentati, paiono aver perso la consapevolezza della propria
condizione e del proprio valore.
Bruno Gravagnuolo: Lotta di classe, forti contro deboli. In un
libro-intervista Luciano Gallino spiega perché il basso si è disgregato
Dagli anni 80 la lotta che era stata condotta dal basso per migliorare il
proprio destino ha ceduto il posto a una lotta condotta dall'alto per
recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere che erano stati in
qualche misura erosi nel trentennio precedente. Questo è il mondo del lavoro
nel XXI secolo.
Contrordine: la lotta di classe esiste ancora, anzi esiste più di prima.
Solo che a farla sono i più forti contro i più deboli, mentre questi ultimi non
sono neanche in grado di contarsi e di autoriconoscersi e perciò la subiscono.
Non si tratta di slogan «vetero-marxisti», ma di una notizia vera e propria,
corredata da un’analisi che mette capo a una tesi di sociologia globale. E a
darci la notizia con l’analisi, è uno degli studiosi di relazioni industriali
più autorevoli in Italia, Luciano Gallino, conoscitore delle tecnologie
moderne, e alieno dalle chiacchiere, specie da quelle a lungo propinateci su
«post-industriale», «fine del lavoro» e «fine delle classi». Chi voglia andare
dentro la notizia deve leggere l’ultimo libro-intervista di Gallino, a cura di
Paola Borgna, sociologa a Torino: La lotta di classe. Dopo la lotta di classe
(pagine 213, euro, 12,00, Laterza). Che prende le mosse dal luogo comune,
egemone dagli anni 80 anche su una parte della sinistra: dal «fatto» che le
classi sarebbero scomparse. Quel fatto è falso, è un «fattoide» illusorio.
Perché i numeri globali di Gallino parlano chiaro. In Europa e in America gli
operai come produttori di merci e capitale costituiscono almeno un terzo della forza
lavoro occupata (in Italia sono circa 7milioni e mezzo di unità, su 19 milioni
di lavoratori dipendenti con 5 milioni di salariati dell’industria).
Nel mondo poi c’è un proletariato industriale che sgobba e vive nelle
fabbriche pari a circa un miliardo e trecento milioni di persone. Senza
omettere, allargando lo sguardo, che due miliardi di persone nel mondo vivono
con meno di due dollari al giorno. Contestualmente però, secondo una ricerca
del Credit Suisse, nel 2010 lo 0,5% della popolazione mondiale adulta (24
milioni di persone) deteneva il 35% della ricchezza totale, pari a 69 trilioni
di dollari. Mentre il 68% possedeva solo il 4,2% del totale della ricchezza
mondiale, poco più di 8 trilioni di dollari. E laddove negli Usa nel 2008 l’1%
della popolazione percepiva il 23% del reddito nazionale, in Italia in
parallelo il reddito percepito dal «decimo» più benestante equivaleva in
quell’anno a 10-11 volte la quota percepita dal decimo di famiglie col reddito
più basso.
Oggi le cose vanno molto peggio. E sono solo assaggi di statistiche. Ma
quel che indicano è chiaro: l’approfondimento delle differenza di classe. Dove
l’impoverimento relativo che include qualche incremento verso l’alto coincide
con l’impoverimento assoluto, tanto grande è la forbice tra i poli. E senza
dire che quella forbice regala una vita e un «lavoro» infernale ai poveri.
Altro fattore segnalato da Gallino: l’immenso trasferimento di risorse dal
basso verso l’alto negli ultimi decenni, con spoliazione dei salari a vantaggio
di rendite e profitti e impoverimento del ceto medio nel fuoco delle turbolenze
finanziarie. E qui, ulteriore batteria di dati e una domanda: che succede nel
periodo 1976-2006, secondo l’Ocse? Succede che, nei 15 paesi più ricchi di
quell’area, l’incidenza dei redditi da lavoro sul Pil (compreso il reddito
degli autonomi calcolato come se gli autonomi ricevessero la stessa paga dei
salariati) è calata di dieci punti percentuali, dal 68% al 58%. E in Italia il
calo ha toccato i 15 punti, precipitando al 53%. E se si va a vedere certe
«curve», scopriremo che in Italia alla fine degli anni 80 le entrate fiscali
Irpef da lavoro dipendente erano il 40% del totale, e quelle del lavoro
autonomo erano pari al 38%. Al presente invece quel 40% è diventato 60%, mentre
l’apporto Irpef del lavoro autonomo è sceso al 10%! Il restante delle tasse lo
pagano i pensionati, che per quattro quinti sono ex lavoratori dipendenti.
Quel che è accaduta allora è stata una gigantesca lotta di classe,
dall’alto, che ha impoverito e disgregato il basso, privandolo di ogni capacità
di resistenza. Come? Premiando le rendite e l’evasione. Privatizzando e
riducendo le prestazioni di Welfare. Nutrendo le banche, alle quali tra il
2007 e oggi sono state erogati dagli stati europei tre trilioni di euro, a
premio dei titoli tossici smerciati. E poi: distruggendo le conquiste del
lavoro fino a ridurlo a merce precaria e malpagata. Il tutto in buona coscienza
e all’insegna di un Mantra. Questo: il mercato globale alloca ottimamente
risorse e investimenti, elevando per tutti le opportunità. Al contrario ci
siamo ritrovati con milioni di disoccupati, debiti sovrani accresciuti ed
esportazioni di capitali e lavoro fuori dall’area euro. Con merci poi importate
e create a sottocosto, i due terzi delle quali, nota Gallino, prodotte da
corporation europee e americane. È il Capitale occidentale che fa concorrenza a
se stesso. Altro che il pungolo della concorrenza delle tigri più giovani! Del
resto la metà delle merci importate in Europa è euro-americano e non cinese. Ne
deriva un capitalismo che per un verso abbassa i salari e aumenta la «metrica
del lavoro», schiacciando il corpo e la mente dei precari alla catena molto più
che al tempo fordista. E per l’altro entra in crisi di realizzo e investe in
finanza. Per ristrutturarsi o spuntare alti rendimenti muovendo enormi masse di
denaro. Masse di «fondi» con dentro i risparmi dei lavoratori, trascinati a
investire contro se stessi: contro i loro posti di lavoro. E contro i debiti
sovrani dei loro paesi, oggetti di speculazione e gonfiati da evasione aiuti a
banche e a industrie che delocalizzano. Come invertire la rotta? Con la lotta
di classe, visto che le classi esistono anche se precariato e «flessibilità» le
ha rese «invisibili».
Insomma per Gallino, occorrono sinistra, partiti, corpi intermedi. Per dare
forma non distruttiva al capitalismo e farlo funzionare, con redistribuzioni e
politiche industriali. Dunque: scoraggiare le delocalizzazioni, spingere in
alto i salari in Europa e fuori, tassare le rendite. E colpire magari
l’arbitrio privatistico del «rating». Quello che prima incoraggia le
speculazioni e poi spinge verso alti tassi di interessi, col ricatto del
default. Ma tutto questo per Gallino, va fatto prima che populismo e protesta
si alleino con finanza e tecnici, spingendo i poveri ancora più in basso. E
prima che una crisi distruttiva del capitalismo ci sospinga verso forme
autoritarie. Già, la lotta di classe può salvare il mondo e le anime. Purché
stavolta dal basso contro l’alto.
(Da: L'Unità del 19 giugno 2012)
P.S. :
Raccolgo
l’invito di Grazia a leggere l’articolo di Luciano Gallino, pubblicato ieri su
La Repubblica, che auspica un new deal.
Ma mi pare utile riflettere anche sugli interventi di Alex Zanotelli e di Franco Arminio che sollecitano un cambiamento ancora più radicale.
LUCIANO GALLINO:
Di fronte a un’emergenza
che si riassume in quattro
milioni di disoccupati e altrettanti di precari, con una
marcata tendenza al peggioramento, qualsiasi intervento in tema di occupazione
dovrebbe presentare una serie di caratteristiche quali: creare in breve tempo
il maggior numero di posti di lavoro; dare priorità alle fasce sociali più
colpite, poiché un indicatore negativo che segna il 10 per cento per alcuni può
toccare il doppio o il triplo per altri; privilegiare attività ad alta
intensità di lavoro; indirizzare i nuovi occupati verso settori di pubblica
utilità ed alta priorità, tipo, visto quel che succede, la messa in sicurezza
antisismica degli edifici.
Gli interventi finora
previsti in questo campo dal governo non presentano nessuna di tali
caratteristiche. Dal
lato della spesa si pensa ancora una volta a grandi opere, che
richiedono anni prima di vedere assunto un solo lavoratore, e in ogni caso ne
occupano assai pochi in rapporto al capitale fisso impiegato. Dal lato degli incentivi fiscali,
tipo i 10.000 euro di sgravi promessi alle imprese per ogni giovane che
assumono, si tratta di vetusti incentivi a pioggia: invece di
piantare un albero qui e ora, si irrora un campo sterminato sperando che in
futuro spunti non si sa dove qualcosa di simile a un albero.
Inoltre il governo ha
peggiorato la situazione dell’occupazione, sia nel settore pubblico che nel
privato, con i tagli ai bilanci che ha eseguito o sta predisponendo. Sembra
predominare in esso, per non parlare dei commentatori che ogni giorno lo
spronano in questo senso, l’idea che ogni forma di spesa pubblica sia un costo
da contenere il più possibile. È
un’idea iper-liberale, che i conservatori americani riassumono nella battuta
“bisogna far morire di fame la bestia”, cioè lo Stato. Fermo
restando che ogni genere di spreco nella PA va combattuto, bisognerebbe
recuperare la ovvia verità che gli stipendi pagati dallo stato, nonché gli
acquisti di beni e servizi che effettua, sono tutti soldi che entrano nel circuito
dell’economia al pari di ogni altra spesa, trasformandosi in domanda e
occupazione. Per cui i tagli alla spesa pubblica sono in ultimo efficaci
contributi alla crescita non del Pil, bensì della disoccupazione.
A fronte del predominio di
questa idea nel governo e nei partiti che lo sostengono, ripetere che lo stato dovrebbe finalmente
decidersi a operare come datore di lavoro di ultima istanza –
come chi scrive prova a dire da tempo muovendo proprio dalle realizzazioni del
New Deal rooseveltiano – sembra davvero una causa persa. Con un piccolo segno
in controtendenza. Il ministro dell’Istruzione Profumo ha annunciato che il suo
ministero intende avviare entro il 2012 le procedure per l’assunzione di 25.000
insegnanti, metà per concorso e il resto attingendo dalle graduatorie dei
precari della scuola. Non
è esattamente il New Deal, quando con il programma Federal
Emergency Relief Act fu ridato un lavoro a 100.000 insegnanti disoccupati e al
tempo stesso furono aiutati nel proseguire gli studi 2 milioni di studenti
delle scuole superiori e dell’università. Ma è quanto meno un segno che in un
settore vitale come l’istruzione, dove la spesa pubblica è assolutamente
insostituibile, pena l’esclusione da esso di milioni di giovani, l’idea di
tagliarla ancora perché i costi della macchina statale vanno sempre e comunque
ridotti, è stata riposta nel cassetto. Dove si può sperare sia raggiunta presto
da altre idee controproduttive intorno allo stesso tema.
Tratto da La Repubblica del 21 giugno 2012
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Alex Zanotelli da Rio de Janeiro :
19 giugno
2012, Rio de Janeiro- “Benvenuti a Rio+20”. Con questa scritta a caratteri
cubitali siamo stati accolti all’aeroporto di Rio per il vertice sul pianeta
Terra convocato dall’Onu (20-22 giugno). Come missionari comboniani abbiamo
deciso di ritrovarci insieme nel contesto del Vertice per riflettere sul tema
pianeta Terra, che ci tocca direttamente. La Terra infatti non sopporta più l’homo
sapiens, il cosiddetto sviluppo e questo sistema economico finanziario che
vive depredando il pianeta e rendendo i poveri sempre più poveri.
Sono
arrivato la notte del 18 giugno nella Baixada fluminense, uno dei
quartieri più violenti di Rio, dove vive e opera una comunità comboniana. Così
ho avuto subito il sentore di che cos’è “l’altra Rio”. Una sensazione diventata
ancora più netta il mattino seguente, attraversando in autobus la città. Mi
sono parse chiare due città, spesso una di fronte all’altra: la Rio degli
impoveriti e la Rio dell’opulenza. Va notato che il vertice Onu dei capi di
stato si tiene a Barra de Tigiuca, la parte bene di Rio. Io invece mi sono
recato subito a Aterro de Flamengo per partecipare alla Cupola dos Povos che ha
trovato spazio nel lungomare Bahia da Gloria.
Due vertici.
La Cupola dos Povos fatta di indigeni, di poveri, di cittadini, di
associazioni. Mentre la “Cupola dos Ricos” è collocata nel cuore della
ricchezza di Rio. Una vera e propria apartheid.
“Loro sono
al centro, a Tigiuca”, ha detto il prof. Bonaventura de Souza. “Il circo
del’Onu”, li ha definiti il prof. Martinez-Alier, che non decide mai nulla!”.
Infatti l’impressione che abbiamo ora è che il Vertice della Terra rischia di
essere un altro fallimento. Fra l’altro non hanno partecipato né Obama né la
Merkel.
Ma la
speranza non viene da lì, viene invece dai poveri, dagli indigeni, dalla
cittadinanza attiva. E’ stato incredibile per me trovare Aterro de Flamengo
così tanta vivacità, dibattiti, reti, campagne… Un’immensa fiera dell’inventiva
umana, di culture, di associazioni…
E’ la stessa
impressione che ho avuto quella stessa mattina partecipando ad un dibattito,
promosso da Rigas (Rete italiana per la giustizia sociale e ambientale), sui
nuovi paradigmi necessari per rispondere alle sfide della giustizia non solo
distributiva ma anche ambientale. Vi hanno partecipato il teologo brasiliano
Leonardo Boff, lo spagnolo prof. J. Martinez-Alier, l’economista portoghese
Bonaventura de Souza, il coordinatore di Rigas Giuseppe de Marzo. Lavori
presieduti da Marica de Pierri, dell’associazione “A Sud”, nella sala
strapiena del Musero di arte moderna.
“Il Pil non
può più essere l’indicatore per l’economia, ha detto il noto economista
Martinez, dobbiamo andare verso la prosperità senza crescita, secondo quanto
teorizzato dall’economista Usa Tim Jakson”. Martinez ha avuto parole di elogio
e di sostegno per le due esperienza latinoamericane diEcuador e Bolivia.
Boff è
partito citando Einstien: “Non si può pensare che chi ha creato la crisi trovi
anche la soluzione”. Né si può accertate come principio etico quello del nostro
vivere bene occidentale perché “questo ha significato vivere male per miliardi
di persosne”. Per uscire dall’attuale crisi, Boff ha elencato 4 principi
fondamentali: a) ogni essere ha un valore intrinseco che deve essere
rispettato; b) il dovere di prendersi cura di ciò che ci circonda; c) una
responsabilità planetaria; d) cooperazione e solidarietà universali. Ha
sottolineato che non si può produrre per accumulare ma solo per condividere.
Giuseppe de
Marzo ha ribadito che l’attuale crisi nasce dal non aver riconosciuto la natura
e i diritti della Madre Terra. Ha urlato: “Noi siamo la terra. Basta con la
crescita”.
Personalmente
ho portato a conoscenza dell’assemblea le lotte popolari italiane sull’acqua
con il referendum e sui rifiuti con la resistenza alle megadiscariche e agli
inceneritori, per muoverci invece verso il riciclaggio totale.
Infine il
prof. De Souza ha definito la green economy “il cavallo di Troia del capitalismo
mondiale” e ha messo tutti in guardia tutti che “bisogna cambiare il potere
prima di prenderlo”.
Questa di
Rio è stata una tavola rotonda molto valida che prelude a tanti incontri.
Provocazioni queste importanti anche per noi comboniani, a Rio siamo una
trentina, che dobbiamo riuscire ad includere pienamente queste tematiche nel
nostro fare missione.
Tratto da http://www.democraziakmzero.org
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FRANCO ARMINIO: LA POLITICA CHE NON C'E'
Si parla della crisi senza il coraggio di dire cos’è in crisi. I partiti
vogliono uscire dalla crisi con la crescita. Sembra una cosa ovvia e invece è
una scelta molto complicata. Bisogna crescere per mantenere un certo tenore di
vita. I governi ragionano come se fossero individui. La politica si sta
riducendo sempre più alla manutenzione dell’egoismo. Ho molti amici di sinistra
a cui parlare della necessità di inumare il capitalismo pare una follia.
Quello che una volta era il conflitto di classe adesso è diventata la guerra
delle vanità contrapposte: si preferisce contestare il vicino di casa, si
preferisce parlare male delle persone che abbiamo intorno, piuttosto che
organizzare la lotta ai padroni del mondo. Questi padroni a volte vanno in
disgrazia, vedi Berlusconi, e la sinistra non sa approfittarne per provare a
costruire una democrazia senza padroni.
Il capitalismo è intimamente morto, ma prima di morire ha stordito anche la
sinistra. E allora ci troviamo in una stagione con gli occhi chiusi. E
l’occidente sta diventando una macchina della decomposizione. Una macchina che
mostrando ogni giorno i suo effetti ha il potere di far pensare che non c’è
spazio per nient’altro. E invece bisogna dire ogni giorno che la felicità e il
capitalismo sono forze antitetiche. I mercati finanziari non contano più dei
mercati rionali; un ragazzo che si iscrive all’università dovrebbe prima
frequentare una bottega per imparare a fare qualcosa con le mani; ci vorrebbe
un reddito di cittadinanza garantito per tutti, ma più alto per chi vive nei
paesi poveri; i giovani che ne fanno richiesta dovrebbero poter disporre di un
pezzo di terra. Alle prossime elezioni ci vorrebbe un partito che facesse
proposte di questo tipo. Un partito che candidi non chi sa parlare, ma chi sa
guardare. Un partito che consideri le elezioni e il governo solo un aspetto
della sua azione. Un partito che lavori sui concetti, sulle proposte, sulle
tecnologie del buon governo, ma che lavori anche per stimolare un pensiero
poetico collettivo. È il sogno che si sposa alla ragione. Dove sta scritto che
la politica deve essere unicamente estenuante mediazione per comporre interessi
diversi? Questo è sicuramente un ferro del mestiere, un ferro insufficiente
senza un lavoro radicale proteso a costruire uomini che siano fuori dalla
logica sviluppista, dalla visione del mondo come una cava da sfruttare. C’è
sempre il rischio di agitare vaghezze e misticismi e narrazioni inconcludenti,
ma una politica che non sa correre rischi è completamente inutile e non a caso
è tutta sottomessa ai poteri economici.
È ora di rivedere questa storia che il potere corrompe e che uno scrittore
dovrebbe stare lontano da ogni forma di potere. Nell’Italia dell’autismo corale
non è la passione civile il cuore della faccenda, ma le passioni incivili.
Alcuni stanno molte ore al giorno davanti al computer e al telefonino e non si
sognerebbero mai di entrare in una sezione di partito: la politica viene fatta
con qualche mi piace su facebook, c’è un interesse molto superficiale alla vita
pubblica. Sicuramente nei prossimi mesi ci sarà più partecipazione, ma senza
impeti rivoluzionari non succede niente, non solo nella vita politica, anche in
quella personale. Ecco la novità della nostra epoca: l’estremismo e il rigore
non sono una scelta tra le tante, sono l’unica scelta possibile.
La rivoluzione non è una cosa per conquistare un palazzo. Più semplicemente
è il modo migliore di consumare il tempo che passa. Allora o si è rivoluzionari
o non si è niente. Non ci sono vie di mezzo, non ci sono indugi tollerabili.
Bisogna fare tutto e subito, bisogna cercare l’impossibile e quando lo abbiamo
trovato cercarlo ancora. Alle prossime elezioni sarebbe bello se ci fosse un
partito che avesse la rivoluzione nel suo nome. E se non c’è, nulla è perduto.
Cercatevi qualche amico, qualche luogo dove la rivoluzione si lascia fare
comunque. È assurdo davanti a una prospettiva come questa disquisire tra i
partiti esistenti e quelli che stanno arrivando. Bisogna immaginare che possa
esistere questo ed altro. La politica che c’è ha bisogno di una sola cosa: la
politica che non c’è.
Da il manifesto del 21 giugno 2012