“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
05 giugno 2016
G. BARBERA SULL' INCENDIO DI PANTELLERIA
Giuseppe Barbera
L' isola "infernale e verde". L'incendio di Pantelleria.
La natura mediterranea si confronta da sempre con il fuoco. I testi di ecologia ricordano che è uno dei principali fattori determinanti la sua biodiversità, le sue forme, l’originaria possibilità data all’uomo di vivere con essa. Addirittura, Prometeo l’ha dovuto rubare agli dei per potere illuminare e riscaldare le notti, cuocere il cibo e soprattutto dare spazio all’agricoltura. La natura mediterranea non ha quindi paura degli incendi, li utilizza per rinnovarsi e, in pochi anni, si ricompone a far rivivere terre che appaiono colpite a morte. Il più grande incendio che si ricordi ha profondamente ferito Pantelleria, ma l’isola, i suoi boschi e i suoi uomini sono forti, pronti a riprendersi. L’isola è oltraggiata nella sua bellezza (settecento ettari di fiamme) ma ne mantiene cento volte di più di boschi e macchia intatta, di viti, olivi e capperi, di coste selvagge e di dammusi in armonia con le terrazze. Da questo riparte e dalla considerazione che nella sua lunga storia – più vicina all’Africa, riferimento geografico irrinunciabile per le prime navigazioni- ne ha viste di ogni tipo, ed è sempre rinata. Caos vulcanico apparentemente indomabile, ancora oggi vivo, addomesticato dall’uomo pietra su pietra “facendo delle montagne pianure”, oggetto di razzie che periodicamente ne azzeravano la popolazione, preda di pirati fino a centocinquant’anni fa, feudo dimenticato e dissanguato, oggetto di ridicoli sogni guerreschi di chi, ancora nell’ultima guerra, la voleva “baluardo insormontabile della patria e portaerei del Mediterraneo”. Nei secoli, dopo i tempi antichissimi dell’ossidiana, i boschi sono stati la risorsa principale: con il legno si accendevano fuochi che di notte orientavano i viaggi in mare, i tronchi venivano venduti e se ne faceva carbone, anche le ghiande erano oggetto di esportazione a Malta. Poi nella prima metà dell’Ottocento, la terra finalmente fu in mano ai contadini che con “amore e sudore” costruirono un paesaggio di pietra a secco di straordinario fascino ed efficienza agronomica. Lo fecero a spese del bosco, ma sempre rispettandolo, mai disboscando, per ingordigia colturale, oltre i limiti concessi all’agricoltura, sapendo che da esso deriva la sicurezza idrogeologica delle terre coltivate e, consapevoli di essa, la bellezza della loro isola. Fino alla metà del secolo scorso, diecimila ettari erano coltivati a zibibbo, che poi lentamente si sono ridotti a poco più di mille e il bosco ha ripreso il posto che gli era stato sottratto. Ma questa volta, da alcuni, odiato, perché non consentiva nuove edificazioni, non garantiva quei posti di lavoro forestale che erano stati promessi. Quanto l’odio di pochi possa essere profondo è emerso con questo incendio: quattro focolai appiccati in tempi diversi, nel tardo pomeriggio quando gli aerei antincendio non possono più volare, in un giorno in cui il vento di scirocco è pronto a girare verso il più temibile maestrale. Sono bruciate le quercete della Montagna Grande, i pini marittimi e di Aleppo che costituiscono una eccezionalità genetica assoluta, la macchia di lentisco, fillirea, mirto e rosmarino fin dove i vigneti di zibibbo ben coltivato hanno respinto le fiamme. Ma il bosco di Pantelleria è forte: i lecci e le piante della macchia hanno ancora vive le radici e presto ricacceranno polloni a riformare nuovi alberi; i pini non hanno la capacità di farlo, ma i semi delle loro pigne non aspettavano altro per germinare e ricoprire le superfici ancora nere di cenere di migliaia di giovani piante. E’ il meccanismo che i selvicoltori dicono “auto successione”: un bosco sano ritorna naturalmente alla struttura originale. L’uomo deve assecondarlo con tecniche selvicolturali ben eseguite, evitando interventi affrettati, in modo che presto e bene si riformi. La comunità scientifica dei selvicoltori si è subito offerta a fornire un “piano di gestione” che detti, per lo specifico pantesco, le regole per un corretto intervento, il Dipartimento regionale forestale che bene ha operato è pronto alla piena collaborazione, l’amministrazione pantesca, i cittadini e i tanti turisti, che non hanno bisogno di essere vip per amare l’isola come fosse casa propria, hanno subito dato dimostrazioni di piena e pronta consapevolezza. Il bosco di Montagna Grande, della Serraglia e della Balata dei Turchi, si riprenderà. Certo più velocemente e prevenendo nuovi e, allora sì, disastrosi incendi, se arriverà in fretta una nuova legge forestale che programmi meglio tempo e risorse: di fronte a quello che è successo è paradossale che oggi gli interventi antincendio, in Sicilia, si dividano tra due Assessorati e le squadre dell’Ambiente non possano intervenire (per inaccettabili ragioni normative) prima della metà di giugno e che gli operai forestali siano perennemente precari mal qualificati. A tutti insomma tocca prendersi cura dei boschi. L’ultima cosa da fare è, però, accusare i panteschi di scarso amore per la loro terra e per gli alberi: tolto un pugno di criminali, stupidi al punto da non capire che le prime vittime del loro misfatto sono i loro figli, bisogna ricordarsi che nessuno al mondo mostra tanto amore per gli alberi. Solo a Pantelleria si costruiscono per alcuni di essi alte torri di pietra: tanta fatica e tanto amore per jardini dove cresce un albero solo.
Da Repubblica, Palermo del 5 giugno 2016
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