KAFKA NON ERA KAFKIANO
Giorgio
Fontana
“Kafkiano”.
In genere, sotto questo aggettivo si raggruppa una famiglia di sensazioni che
evocano un autore sinistro, cupo, angosciante, terribile, ossessionato dalla
burocrazia, pesante, faticoso, pessimista, i cui personaggi sono assoggettati a
un ordine oscuro e superiore. Nonostante decenni di buona critica e tentativi
di liberalizzazione, il nome Kafka resta sempre e comunque legato a evocazioni
del genere.
Ora, è ben
vero che molte delle storie di Kafka siano permeate da sentimenti simili, e che
la condanna resti un elemento cruciale. Ma non c’è niente di sottomesso nella
sua prosa e nella sua figura autoriale: anzi, tutto l’opposto.
Il dramma
dell’opera kafkiana è che quasi impossibile leggerla senza essere preceduti da
una qualsiasi interpretazione. Ciò può valere anche per Dante o Dostoevskij, ma
entrambi sono scrittori più vasti e sanguigni — la loro forza ricaccia indietro
l’ermeneutica, ci concede una seconda verginità. L’arte di Kafka è invece molto
più fragile. Più sottile, per nulla sanguigna. In questo senso è una preda
ideale per gli esegeti.
Quindi?
Quindi, come dice Kundera ne I testamenti traditi, “C’è solo un metodo
per comprendere i romanzi di Kafka. Leggerli come leggiamo dei romanzi”. Cioè,
cercando di non farsi anticipare dalla loro interpretazione. Riconoscendolo
nella sua enorme complessità, e soprattutto smettendola di farne innanzitutto
un’esegesi, ma godendo della sua lettura. (Personalmente, sogno un lettore di
Kafka non kafkizzato: chissà quali meraviglie leggerebbe!)
Il mio punto
è semplice: Kafka non era un kafkiano, cioè un individuo che assoggetta la
propria arte a un’idea preconcetta o a una figura biografica, o un teologo
mascherato o un cupo pensatore: era innanzitutto uno scrittore immenso — cioè
un individuo che sapeva creare dei mondi indimenticabili con l’uso della
parola. E vorrei portare due esempi a supporto di questa immagine.
Immagino
tutti conosciate l’inizio della Metamorfosi: “Gregorio Samsa, svegliandosi una
mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme
insetto immondo. Riposava sulla schiena, dura come una corazza, e sollevando un
poco il capo vedeva il suo ventre arcuato, bruno e diviso in tanti segmenti
ricurvi, in cima a cui la coperta da letto, vicina a scivolar giù tutta, si manteneva
a fatica. Le gambe, numerose e sottili da far pietà, rispetto alla sua
corporatura normale, tremolavano senza tregua in un confuso luccichio dinanzi
ai suoi occhi. Cosa m’è avvenuto? Pensò. Non era un sogno”.
Il grande
critico Giuliano Baioni ha fatto notare che questo è l’unico strappo in una
narrazione che, per il resto, procede in modo assolutamente piano — in modo
naturale. L’assurdo viene messo in scena nella prima riga. Il resto segue
inesorabile, come da un postulato. Questo è l’esempio più noto ed evidente
dell’inserimento dell’assurdo in una situazione naturale da parte di Kafka.
Ma perché
tutti quei dettagli? Perché è reale. La storia ci sta domandando di credere che
stia accadendo davvero — e come diceva Lawrence, non dovremmo fidarci mai di
chi racconta, solo della storia.
Di nuovo,
qui si svela la grandezza di Kafka. Un surrealista avrebbe proposto la
trasformazione in insetto come un dato puramente onirico. Un kafkiano ci
direbbe che è una metafora dell’individuo soppresso da un potere più grande
eccetera.
No, Kafka
invece è brutale: toglie di mezzo la similitudine: non sei come una blatta, sei
una blatta. Ci obbliga invece a considerare la metamorfosi come qualcosa di
reale: non è un’allegoria, non è un simbolo — è una condizione. Sei innocente e
ti ritrovi un insetto. Non ti puoi difendere, e non lo puoi fare davvero: sei
un insetto vero, calato in una dimensione iperrealistica e altamente connotata
dal punto di vista sociale.
Ecco il
punto. È questo il segreto di dolore della Metamorfosi: ogni
trasformazione non riguarda solo il soggetto cui è diretta, ma anche chi gli
sta attorno. Se Gregor diventa blatta, la sua famiglia diventa la famiglia di
una blatta.
La forza del
racconto non sta nella banale equivalenza fra un uomo e uno scarafaggio —
questo è un gioco da ragazzi. La forza terribile del racconto sta in tutto il
resto: nella capacità di Kafka di descrivere quanto può diventare grande e
tempestivo l’odio verso chi amavamo, quando cambia e diventa altro. Una persona
gravemente malata, ad esempio. Qualcuno che pesa sulle nostre spalle, e che non
può darci nulla in cambio, nemmeno linguisticamente: lui è solo, e noi siamo
soli.
Se proviamo
a leggere la Metamorfosi interamente dal punto di vista della famiglia
di Gregor Samsa — con quel finale agghiacciante — allora lo troveremo non come
un il “capolavoro del kafkismo”, ma come un racconto di famiglia, uno dei più
grandi racconti di famiglia mai scritti — ancor prima di una metafora sulla
distruzione di un individuo.
Ed ecco che
Kafka, trascinato fuori dal cerchio asfissiante del “kafkismo”, diventa
improvvisamente un parente stretto di Cechov. O di Tolstoj.
Un altro
esempio che trovo illuminante (e che a mio avviso è stato molto sottovalutato,
finora) è l’importanza delle descrizioni in tutti i lavori dello scrittore
boemo. Ecco un brano tratto da America, forse il più romanzesco dei suoi
romanzi: “Davanti alla sua stanza, e per tutta la lunghezza di questa, correva
uno stretto balcone. Ma quel sesto piano, che nella città natale di Karl sarebbe
stato il più alto, qui consentiva di dominare con lo sguardo una sola strada
che correva diritta fra due file di case letteralmente spaccate per lungo e si
perdeva lontano ove, in mezzo a una grande nebbia, si alzavano le forme
mostruose di una cattedrale. E mattina e sera, e nei sogni della notte, in
questa strada si svolgeva un traffico continuo che visto dall’alto
rappresentava un turbine, che si riformava ininterrottamente, di figure umane
contorte e veicoli d’ogni genere; da questa confusione si levava un nuovo
turbine più complicato e più sconvolto, formato di rumori, polvere e odori, e
tutto questo era incalzato e compenetrato da una luce potente, che di continuo
era come dispersa e portata via dalla massa degli oggetti e poi in fretta
nuovamente raccolta, sicché all’occhio confuso appariva addirittura corporea
come se sopra alla strada venisse ogni momento spezzata con tutta la forza una
lastra di vetro che ricopriva ogni cosa”.
Sembra un
quadro di Paolo Uccello. O di Boccioni. Ma perché mi attardo sulle descrizioni?
Perché a un “kafkiano” non interessano. Il kafkiano ritiene il mondo già
giudicato, del tutto insignificante: è importante la visione, la filosofia, il
pensiero che si ritiene sotteso all’opera.
Invece
guardate con quanta dedizione, con quale stupore e pietà Kafka descrive le cose
— neanche le persone, proprio le cose, i paesaggi, i dettagli, i gesti: i suoi
personaggi ancora non sanno di essere perduti, e si attardano sul mondo come se
potessero ancora salvarlo. Ha un profondissimo interesse per gli oggetti, che
renderà persino personaggi animati — penso a Odradek o alle palle di
celluloide “viventi” del racconto Blumenfeld, uno scapolo anzianotto.
Gli oggetti esercitano su Kafka una magia straordinaria: sono ancora del tutto
carichi di quell’aura che Walter Benjamin avrebbe sentenziato in progressiva
scomparsa un decennio o due dopo.
E poco
importa che poi trascinino i suoi personaggi nell’abisso, rendendoli sempre più
simili a cose essi stessi. Non c’è alcun cinismo, in Kafka: è forse lo
scrittore più assolutamente privo di cinismo che sia mai esistito. Nonostante
la sua metafisica certamente terribile e spietata, è uno scrittore ricolmo di
stupore e sete di bellezza.
E allora,
ricapitolando: perché Kafka non era un kafkiano? In una frase: perché la sua
opera non si lascia ridurre a niente di così unilaterale e semplificato. Il
breve racconto La partenza si chiude con questo dialogo fra un cavaliere
che incomincia un lungo vagabondaggio e il suo servitore: “«Non hai provviste
con te» disse. «Non ne ho bisogno» risposi. «Il viaggio è così lungo che dovrò
morir di fame se non trovo nulla per via. Nessuna provvista mi può salvare. Per
fortuna è un viaggio veramente straordinario.»”
Bene, io
credo sia il caso di ripensare con attenzione al viaggio straordinario che è la
scrittura di Kafka, nonostante i suoi epiloghi inevitabilmente terribili. Kafka
era un uomo che più di ogni altro considerava la necessità dell’esattezza della
parola e la sua importanza, e insieme fu un grande narratore. Raccontava al
giovane Janouch che “un danno arrecato alla lingua colpisce anche i sentimenti
e la ragione, è un oscuramento del mondo, una glaciazione”: nelle parole c’è la
responsabilità, perché sono ciò che abbiamo e dobbiamo prenderne massima cura.
Heidegger
diceva di Kant: è un filosofo che non bara. Lo stesso potremmo dire di Kafka: i
misteri e le contraddizioni ce li offre sempre con spietata chiarezza,
veicolati da una lingua cristallina, incapace di mentire: una lingua
volutamente “minore”, come spiegavano Deleuze e Guattari, e per questo ancora
più potente: “La formula del suo antilirismo e antiestetismo è appunto
“afferrare il mondo” piuttosto che estrarne delle impressioni, lavorare sugli
oggetti, le persone e gli eventi, nel vivo del reale, e non sulle impressioni.
Uccidere la metafora.” Proprio come dicevamo sopra. Kafka svela la menzogna
dell’esistenza meglio di chiunque altro, ma non mente mai: fa parte di quella
piccola famiglia di scrittori assolutamente incapaci di trucchi, che pagano con
la sofferenza la loro purezza.
A ventun
anni scriveva con ardore giovanile all’amico Oskar Pollak: “Bisognerebbe
leggere, credo, soltanto i libri che mordono e pungono. Se il libro che
leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo? Affinché
ci renda felici, come scrivi tu? Dio mio, felici saremmo anche se non avessimo
libri, e i libri che ci rendono felici potremmo eventualmente scriverli noi. Ma
noi abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci
fa molto male, come la morte di uno che ci era più caro di noi stessi, come se
fossimo respinti nei boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio, un
libro dev’essere la scure per il mare gelato dentro di noi. Questo credo”.
Questo
credeva, e questo inseguì per tutta la vita. Per Kafka era una lotta senza
quartiere e che, se egli era consapevole sarebbe finita male, non abbandonò
mai: grazie all’amore che aveva per la parola ci regalò qualcosa di stupendo,
un’opera che sì, senz’altro è piena di dolore e angoscia, e senz’altro fa della
condanna il proprio asse portante: ma è anche piena di coraggio e di una strana
forma di consolazione — come se tutta la bellezza espressa dimostri che ci sia
sempre spazio per la luce, e il buio cui inevitabilmente siamo destinati non è
una giustificazione per negarla: “se sono condannato a morire”, scrive nei
Diari, “lo sono anche a difendermi fino alla fine”.
E questa è
la disperata, vivissima, meravigliosa resistenza che Franz Kafka, il mio
scrittore preferito, operò di fronte al dolore e alla crudeltà della vita.
In
“minima&moralia”, venerdì, 14 settembre 2012
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