All’origine del
fenomeno la massiccia cementificazione e la scarsa redditività
Aranci, limoni e mandarini. La Sicilia non profuma più
Laura Anello
Sono il manifesto
estetico della Sicilia, il profumo sensuale vagheggiato da poeti e
viaggiatori, il luccichio tra i rami evocato da pittori e romanzieri,
il vanto dei sollazzi arabi. Fecondi, gravidi di succo, luminosi. Gli
agrumi. «Le arance dell’Isola sono simili a fiamme brillanti tra
rami di smeraldo, e i limoni riflettono il pallore di un amante che
ha trascorso la notte in lacrime per il dolore della lontananza»,
scrive nel 1160 il poeta siculo-arabo Abd ar-Rahman. «Splendon tra
le brune foglie arance d’oro», gli fa eco sette secoli dopo
Goethe, uno che si era innamorato dell’aria di quaggiù tanto da
dire che l’Italia, senza la Sicilia, «non lascia alcuna immagine
nell’anima».
Peccato che le distese di
alberi fitti stiano scomparendo drammaticamente. Secondo i dati
Istat, ripresi da Coldiretti, negli ultimi 15 anni si è
volatilizzato il 50% dei limoni, il 31 % degli aranci e il 18 % dei
mandarini. In totale, un terzo dei terreni. Al posto degli agrumeti,
distese di cemento, parchi eolici o fotovoltaici, o alberi
abbandonati dai contadini che hanno gettato la zappa alle ortiche.
Strangolati da compensi da fame: nel 2016, annus horribilis
delle arance (colpevole anche il clima asciutto che ha ridotto le
dimensioni dei frutti e il tristeza virus che ha attaccato le
piante), le industrie di trasformazione hanno pagato ai coltivatori
solo dieci centesimi al chilo. Chi ha comprato il prodotto fresco,
per lo più catene della grande distribuzione, non è andato sopra i
30 centesimi, 40 al massimo.
Allarme allora. Allarme
rosso. Tanto da convincere il Fai a dedicare a questo tema parte
della quinta edizione della manifestazione AgruMi che si svolge oggi
e domani a Milano, a Villa Necchi, con la consulenza scientifica di
Giuseppe Barbera, docente dell’Università di Palermo e studioso
del paesaggio mediterraneo. Già, l’Sos parte dal Nord. Da quel
Nord che paga un bicchiere di spremuta anche 5 euro - la stessa che
per un coltivatore siciliano vale 3 centesimi - da quel Nord che vede
negli agrumi siciliani un miraggio del caldo, dorato, vitaminico,
mediterraneo Sud. «Si incontreranno le Università siciliane -
spiega Barbera - i centri di ricerca, il distretto agrumicolo che
riunisce le principali imprese della filiera regionale, i
responsabili dei grandi mercati del Nord Italia. Bisogna comprendere
che gli agrumi non producono solo frutti ma che costituiscono l’anima
del paesaggio siciliano».
Un’anima minacciata
dall’avanzata del cemento, da politiche comunitarie più vocate al
sussidio che all’intervento strutturale, ma soprattutto dalla
concorrenza estera: alla Spagna, pure patria storica degli agrumi, si
aggiungono oggi Tunisia, Marocco, Turchia, forti di costi di
produzione bassissima. Allora addio. Addio alle lumìe di Pirandello,
ai limoni dipinti da Renato Guttuso, allo stupore di Stendhal, la cui
sindrome per la bellezza sembrava arrivare anche dagli agrumeti.
«Esiste davvero un Paese dove alberi così meravigliosi crescono in
piena terra?», si chiedeva, lui abituato a vederli d’inverno
dentro una serra.
L’unica risposta
possibile sembra la qualità. Che fa rima con tipicità. «Stiamo
lavorando per collegare sempre più strettamente le produzioni ai
nostri territori - spiega Federica Argentati, presidente del
distretto Agrumi di Sicilia, che raccoglie i produttori -
valorizzando le produzioni di eccellenza, cioè i prodotti Igp,
quelli Dop, le coltivazioni biologiche che rappresentano ormai il 40%
del totale. Vogliamo puntare sul brand degli agrumi di Sicilia. C’è
l’arancia rossa, quella di Ribera, il limone di Siracusa, il limone
Interdonato di Messina, il mandarino tardivo di Ciaculli, il limone
dell’Etna. Ogni frutto una storia, una peculiarità, un metodo di
coltivazione, un paesaggio». Strada in salita, ma almeno in buona
compagnia se c’è chi - come Pinella Costa, presidente
dell’Associazione Gusto di Campagna - lavora su agricoltura e
turismo proponendo itinerari che hanno come tappe consorzi,
ristoratori, artigiani.
Di sicuro chi oggi a
Palermo cerca la mitica Conca d’oro si vedrà indicare un centro
commerciale. Della distesa di arance intorno alla città è rimasto
solo il nome.
La Stampa 02/04/2016
Nessun commento:
Posta un commento