21 giugno 2016

L' INQUISIZIONE A PALERMO

Uno dei graffiti dello Steri di Palermo

Centinaia di graffiti nelle celle dell’Inquisizione nel complesso monumentale dell’Università di Palermo raccontano le pene di chi si convertiva per forza o per calcolo all’islam.

Laura Anello

Nelle segrete di Palermo le vite spezzate dei rinnegati

È il carcere segreto dell’Inquisizione spagnola, con le pareti delle celle ricoperte di graffiti, dipinti, preghiere dei prigionieri. Il testimone di una gigantesca macchina di malagiustizia che - dal Cinquecento alla fine del Settecento, tempi in cui la Sicilia faceva parte del Regno di Spagna - stritolò almeno 6500 uomini e donne. Tra loro, centinaiadi rinnegati, cioè cristiani passati dall’altra parte della barricata, nel mondo musulmano: un esercito di uomini che giuravano fedeltà ad Allah dopo essere stati presi in schiavitù dai corsari «barbareschi» o in perfetta libertà.

Un popolo sospeso tra due mondi, rimpallato da una sponda all’altra del Mediterraneo - la Sicilia e la costa africana - e costretto a cambiare religione due, tre, anche dieci volte nella vita. Bastava, da cristiani, diventare schiavi dei «turchi» per proclamarsi musulmani recitando la formula rituale e accettando la circoncisione. Ma bastava riapprodare sulle sponde dell’odierna Europa per finire nelle grinfie del Tribunale dell’Inquisizione di Palermo, accusati di eresia.

Tra Allah e Gesù Cristo

Un ping pong continuo tra cristianità e islam. C’erano vite che in cinquant’anni si dividevano a metà tra abluzioni rituali e preghiere a Gesù Cristo, tra divieto di bere vino e rispetto cattolico dell’astinenza dal mangiar carne il venerdì. Di che religione erano? Difficile rispondere. E la domanda è tanto più inquietante adesso, in tempo di estremismi e rigide contrapposizioni.

Gli ultimi studi considerano che nel XVI secolo, il «periodo d’oro» dei rinnegati, oltre trecentomila cristiani saltarono il fosso, tanto che ad Algeri arrivarono a costituire quasi la maggioranza della popolazione. Appena tre secoli fa era il mondo musulmano a offrire riconoscimenti e opportunità di crescita sociale ed economica, quel mondo a dare - si direbbe oggi - più possibilità di carriera. E così si proclamava fedeltà a Maometto non soltanto per costrizione.

Il carcere è riemerso nel 2004 nel complesso monumentale di Palazzo Chiaromonte Steri e ancora adesso è un palinsesto tutto da decifrare. Racconta storie straordinarie, come quella di fra Diego La Matina, l’eroe «di tenace concetto» protagonista di Morte dell’inquisitore di Leonardo Sciascia, il prigioniero che il 24 marzo 1657 riuscì a ferire a morte l’inquisitore che lo interrogava. Nel carcere è stato ritrovato il luogo del delitto.

Su una parete intera spicca il disegno di un prigioniero, Francesco Mannarino, catturato a tredici anni mentre pescava sulla costa di Palermo. Un dipinto tracciato con il colore rosso che i prigionieri ricavavano grattando il cotto del pavimento delle carceri. Il suo processo è stato ritrovato negli archivi della Reale Inquisizione di Madrid: a Palermo i documenti furono tutti bruciati, quando nel 1782 il viceré Caracciolo - amico degli Illuministi - decise di abolire il Tribunale liberando le ultime tre donne accusate di stregoneria. Un prezzo politico da pagare, quel rogo, per cancellare i nomi di tutti coloro - spie, delatori, collaboratori - che sul carro dell’Inquisizione erano saliti per averne benefici, prebende e garanzie di impunità.
Lo Steri

Una storia emblematica

Ebbene, Francesco Mannarino ha una storia emblematica. Il giovane, rientrato a Palermo, si presenta spontaneamente al Tribunale con il padre: racconta di essere rimasto in cuor suo sempre fedele alla religione cattolica e di essere riuscito a liberarsi dopo aver ucciso il ràis di una feluca barbaresca. È il solito ritornello per evitare l’incriminazione. Ma tre testimoni lo accusano di raccontare il falso. Due sostengono di avergli sentito dire in Berberìa (l’attuale Maghreb) che lì la vita era migliore, e un altro rivela addirittura che Mannarino era fuggito volontariamente dall’altra parte del Mediterraneo. Il ragazzo viene quindi catturato, ma si difende denunciando a sua volta due dei testimoni, che lo accuserebbero per vendetta. Viene creduto e assolto. Come lui altre migliaia.

In senso opposto le conversioni erano molto rare. Pochi, pochissimi musulmani diventarono cristiani. L’unica clamorosa conversione - come racconta Lucetta Scaraffia nel suo Rinnegati - fu nel 1646 quella del principe tunisino Ahmed Khodja, fuggito in Sicilia, battezzato con una cerimonia pubblica e accolto con tutti gli onori. Peccato che qualche anno dopo, incapace di inserirsi nel nuovo mondo, abbia deciso di tornare in patria e alla sua religione. E che più tardi sia stato di nuovo tentato di fuggire nel mondo cristiano, sempre sospeso, sempre inquieto. Vittima, o prigioniero, di due mondi lontani e vicinissimi.

La Stampa – 3 giugno 2016

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