Riflessioni su amore, caos e spirito nazionale nel poema di Ariosto che compie 500 anni
ALBERTO ASOR ROSA
Noi italiani siamo folli come Orlando
Nelle scorse settimane è comparsa più volte, sui giornali e nei media,
la data del 22 aprile 1616. Per forza: si tratta del giorno in cui sono
scomparsi, pressoché contemporaneamente, William Shakespeare e Miguel de
Cervantes, due dei più grandi scrittori europei dell’età moderna. Ma
esattamente un secolo prima (coincidenze prodigiose della storia), — e
dunque il 22 aprile 1516, — appariva, presso un modesto stampatore della
provincia ferrarese (forse in 1300, forse 2000 copie), la prima
edizione dell’”Orlando furioso” di Ludovico Ariosto, un altro dei
capisaldi della letteratura europea moderna. Mi pare che poco (o
niente?) se ne sia parlato. La stampa
del ’16, sepolta da un semisecolare oblio, si può leggere nella bella
edizione critica a cura di Marco Dorigatti (Olschki, 2006). È in
quaranta canti, tutti in ottave, secondo la tradizione del poema
cavalleresco italiano. L’ultima, quella del 1532, è invece in
quarantasei canti, e si può leggere nell’edizione in due volumi a cura
di Lanfranco Caretti, e con una Presentazione di Italo Calvino (Einaudi,
1992). Per avere un’idea di cosa stiamo parlando, si pensi che la
stampa maggiore (quella del ‘32) è composta da 4822 ottave; i versi sono
38.576: la Commedia di Dante, ne aveva, diciamo così, appena 14.233. La
stampa del ’16 si distingue da quella del ’32, oltre che per la diversa
estensione, per molti altri aspetti, — cosa che ha spinto alcuni degli
interpreti più recenti a parlarne come di un’opera in sé, diversa da
quella finale. Non abbiamo il tempo né lo spazio per soffermaci su
queste particolarità. Vorrei invece attirare l’attenzione su questioni
più generali.
L’Orlando furioso è una delle dieci grandi opere in cui si rispecchia di
più l’identità nazionale italiana. Nasce nel cuore pulsante del
cosiddetto Rinascimento italiano. Narra, seguendo le orme di una ormai
lunga tradizione, le gesta di cavalieri e paladini cristiani per
difendere Parigi e la Francia dall’aborrita invasione degli Arabi e dei
musulmani. Però piega l’ispirazione iniziale e tradizionale a una nuova
visione del mondo, nella quale ha un posto centrale l’amore (antecedente
immediato ne è, appunto, l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo).
Ma questo non è sufficiente alla poderosa spinta innovativa del
cavaliere (anche lui) e cortigiano Ludovico Ariosto. Per cui la carica
amorosa prodigiosa del protagonista Orlando, nel momento in cui sia
tradita e disillusa, si scarica a un certo punto in follia, altrettanto
prodigiosa ed estrema. All’immaginario dei creatori letterari europei
non basta dunque il primo Orlando, eccezionale guerriero e simbolo della
difesa della cristianità (Chanson de Roland, fine del secolo XI). Non
basta l’Orlando “innamorato”. Sorge sulla scena letteraria l’Orlando
“furioso”, ed è tappa di cui pochi, dopo potranno fare a meno.
Non è sufficiente, per render conto di un processo che attraversa
l’intera Europa e arriva fino a noi, il grande esempio del “cavaliere
dalla trista figura”, del paladino fuori tempo e fuori norma “Don
Quijote de la Mancha”? Del resto, che non si tratti di un’invenzione
dello storico-critico qui sproloquiante, lo dimostra il riconoscimento
che lo stesso Cervantes tributa al suo più illustre predecessore. Quando
il curato e il barbiere penetrano nella biblioteca di Don Quijote e
gettano dalla finestra affinché siano bruciati i più di cento libri di
cavalleria, alla cui lettura si deve la follia dell’”hidalgo”, il curato
risparmia, insieme a pochi altri, il “romanzo” di Ariosto, con parole
che non lasciano dubbi sull’alta considerazione che Cervantes nutriva
per lui: «Ludovico Ariosto, al quale, se lo trovo che parla in un’altra
lingua che la sua, non porterò rispetto alcuno, ma, se parla nel suo
idioma, me lo metterò sopra il capo» (come una vera e propria
onorificenza). Allora: l’illimitato amore di Orlando per Angelica,
figura femminile centrale ma sfuggente; il suo uscir di senno, quando il
paladino scopre che la sua amata si è congiunta carnalmente con un
inaspettato antagonista, Medoro, che per giunta è un soldato semplice,
“un povero fante”;
la salita di Astolfo alla luna, per recuperare a Orlando la ragione perduta, e scoprire così che lì di senno umano “se ne trova una gran quantità”, mentre di pazzia ovviamente non c’è traccia, perché essa “sta qua giù, e non se ne parte mai” (considerazioni che forse potrebbero valere anche per i nostri casi): tutto questo, e le innumerevoli altre storie di amore, disperazione, tragedia e follia, che costituiscono la trama oltre ogni immaginazione multiforme del poema, convergono a costruire la descrizione di un sistema contraddistinto della non unitarietà e non armonicità del cosmo, sia umano sia naturale.
la salita di Astolfo alla luna, per recuperare a Orlando la ragione perduta, e scoprire così che lì di senno umano “se ne trova una gran quantità”, mentre di pazzia ovviamente non c’è traccia, perché essa “sta qua giù, e non se ne parte mai” (considerazioni che forse potrebbero valere anche per i nostri casi): tutto questo, e le innumerevoli altre storie di amore, disperazione, tragedia e follia, che costituiscono la trama oltre ogni immaginazione multiforme del poema, convergono a costruire la descrizione di un sistema contraddistinto della non unitarietà e non armonicità del cosmo, sia umano sia naturale.
Ha già ragionato Massimo Cacciari su queste colonne (il 5 maggio scorso)
del ruolo giocato da follia e infrazione nella prospettiva umanistica
italiana ed europea, un tempo interpretata e valutata sui binari di una
rigorosità razionalistica senza cedimenti. L’Elogio della follia (ovvero
Encomium moriae) di Erasmo da Rotterdam fu tradotto e pubblicato in
Italia dai Giunti di Firenze tra il 1518 e il 1519. Credo di aver
dimostrato qualche anno or sono la presenza di motivi erasmiani in
Guicciardini, tradizionalmente ancorato a interpretazioni tutte
politicistiche e strettamente pragmatiche. Non esiste motivo per credere
che la stessa cosa sia accaduta all’Ariosto, il quale, intorno al
1506-07, aveva raggiunto un livello molto avanzato di composizione del
suo poema.
Ma questo rende ancor più significativo il suo contributo alla
gigantesca traslazione della cultura europea verso i nuovi lidi. Con
questa ulteriore specificazione: e cioè che Ariosto agisce, con sovrana
genialità, sul terreno non del pensiero ma dell’immaginazione e della
poesia. L’Orlando furioso non è un trattato filosofico, come potrebbe
finire per apparire se insistessimo troppo sulle sue «tematiche» e sui
suoi «contenuti». È una prodigiosa «storia cantata», la quale, soltanto
perché è tale, può permettersi di debordare oltre i confini della
tradizione, mantenendo tuttavia intatta, e anzi moltiplicandola, l’unità
dell’insieme. Se si prova a leggere le sue ottave una dietro l’altra
d’un fiato e ad alta voce, — come quando doveva leggerle Ariosto ai suoi
Sovrani e alle sue Signore, — si può capire più facilmente cosa intendo
dire.
Per il resto, basti dire che tra gli ammiratori più «sfegatati»
dell’Orlando furioso ne troviamo anche qui uno imprevedibile (e
imprevisto) come Niccolò Machiavelli: «Et veramente il poema è bello
tutto, et in molti luoghi è mirabile»; e poi Galileo Galilei, che nelle
Postille all’Ariosto ne esalta il mirabile talento inventivo e
fantastico, contrapponendolo alla smunta programmaticità ideologica e
religiosa (secondo lui) di Torquato Tasso; e Italo Calvino, che, come
spesso gli accade, rimette insieme le cose sparse, utilizzando le sue
immense letture e capacità d’interpretazione: «Possiamo segnare una
linea Ariosto-Galileo-Leopardi come una delle più importanti linee di
forza della nostra letteratura ». Chi altri fra i nostri classici e
scrittori, passati e presenti, italiani ed europei, potrebbe vantare tre
estimatori come questi?
La Repubblica, 21 giugno 2016
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