“Nuotare e godere nel forse”. Intervista a Laura Betti (Roberto Chiesi)
Roma, 5 giugno 2004
Se André Breton ha
scritto di lei, tra l’altro, che è “una leonessa che si oppone
alla miseria specifica del nostro tempo rispondendogli con la
provocazione e la sfida”, le più belle parole su Laura Betti
appartengono probabilmente a Pier Paolo Pasolini: “A trionfare è
una ragazza bionda, (…), infante, asessuale e provocante; che è
evidentemente fuori dal gioco letterario e politico (è un’attrice,
mettiamo), e quindi interviene in quel gioco con la più sfrenata
libertà, una libertà addirittura blasfema, scatologica, offensiva,
ma intelligente”.
Pasolini l’ha
assimilata al suo universo ritraendola come personaggio in alcune
sceneggiature non realizzate, scrivendo canzoni e teatro per lei,
dirigendola in cinque film e nell’unica sua regia scenica, Orgia.
Ma esiste anche una Laura Betti attrice di Fellini, Bellocchio,
Téchiné, Taviani, Jancsó, Bertolucci, Amelio, Scola,
Straub-Huillet, Breillat. Se la sua lunga, generosa e talvolta
impetuosa battaglia per difendere l’opera e la figura di Pasolini
in Italia e diffonderle nel mondo, deve ancora essere conosciuta in
tutta la sua complessità, il talento espressionista e ironico,
aggressivo e dolce, di Laura Betti è visibile nelle immagini che
mostrano le sue splendide interpretazioni dei testi pasoliniani come
nel ventaglio di maschere che ha arricchito di sfumature segrete e
della forza viscerale delle contraddizioni.
Gli attori dotati di
una forte personalità creano quasi inevitabilmente l’identità di
un personaggio che viene identificato con il loro io reale e spesso
si sovrappone prepotentemente ad ogni ruolo che interpretano. Quali
rapporti hai con il “personaggio Laura Betti”, come lo vedi
dall’esterno? Ti corrisponde, è una maschera, oppure è una figura
che t’infastidisce?
M’infastidisce. Adesso
m’infastidisce. Perché è una pura creazione di me stessa. È mia.
Allora l’avevo inventato per non dare al pubblico, alla gente, alla
stampa, niente di mio. Avevo deciso io stessa questa tattica
(sorride) e fu una decisione molto imprudente perché si finisce per
pagarla, in seguito. Infatti sono rimasta condannata da certe
etichette e luoghi comuni che mi rompono l’anima e mi fanno venire
i nervi, e molto. Certe etichette che non mi appartengono, però,
ormai sono entrate a far parte del mio personaggio.
Me le sento tirare in
faccia e ogni tanto mi chiedo: “Ma questo che cosa significa?”.
Ed è successo proprio da parte di persone che dovrebbero essere i
miei comuni amici, ma non sono poi così amici fino in fondo... Chi
lo sapeva molto bene questo, era Pier Paolo. L’aveva capito bene.
Infatti l’ha scritto in quel testo per “Vogue”, Necrologio
su una certa Laura Betti. Io dicevo sempre che non capiva un
cazzo, quindi... Questa è una cosa che adesso mi pesa moltissimo,
anche perché a volte vorrei veramente uscirne fuori. Ma il marchio
si è talmente cristallizzato...
Come la fama di
aggressività...
L’aggressività, sì
anche... ma io, per la verità, per chi mi conosce davvero
profondamente, realmente, sono molto dolce. Scatto spesso, sì, anche
con violenza, ma, in fin dei conti, non ho delle aggressività reali,
è tutto inventato. Non ho mai avuto pause nell’inventare il mio
personaggio, dalla mattina alla sera. Mi sono inventata anche il
vestito. Non avendo i soldi, io non avevo vestiti, però me li sono
inventati, una specie di uniforme e via che andavo: un vestito nero
col colletto bianco, la calzamaglia, il pullover nero per la scena.
Ero tutta costruita, ma da me stessa. Nessuno mi aveva mai messo le
mani addosso per costruirmi. Non è mai stato possibile. Me lo sono
costruita io, da sola.
È un personaggio che
spesso gioca con riferimenti ironici all’infanzia, alla fantasia e
alle disinibizioni dell’infanzia, forse perché è l’età in cui
traspaiono già le prime forme di sessualità, ma non esistono
steccati morali o moralistici...
Forse. La mia infanzia è
stata veramente molto drammatica. Ho sempre avuto la tendenza alla
risata, a ridere sfacciatamente, alla comicità, a far ridere le
persone, ma, anche in quel caso, mentendo. Quando tu fai ridere, c’è
qualcosa che nascondi. Quasi sempre. Sì, è vero che esiste in me
una dominante anarchica (sorride) molto forte, di cui io non mi sono
mai resa veramente conto. Infatti ho perfino ceduto al fanatismo del
pugno alzato, PCI PCI PCI... Macché PCI! (sorride). Sì, è vero
che traspariva una componente di godimento infantile, senza freni...
Insomma, per la verità, c’è sempre stata in me una percentuale di
anarchia enorme, ma queste cose non è che le approfondisci, le passi
al volo, le vivi così, alla giornata... Per questi motivi, forse, mi
è sempre stato così necessario recitare, perché quando reciti,
scopri i momenti di abbandono del personaggio, diventi l’altro ed è
la cosa più comoda... Perché stare sempre a scavare al fondo di se
stessi, a sondare fino in fondo quella che sei, non è facile.
Nel tuo personaggio
esisteva sempre una componente maliziosa molto vivace, la
trasgressione di rovesciare tutti i luoghi comuni del rapporto
uomo-donna...
Sì, il rapporto
uomo-donna l’ho rivoltato e squadernato in lungo e in largo, senza
scrupoli... sarà forse anche per Pier Paolo, perché mi rendevo
conto dell’impossibilità di avere un rapporto normale con
chiunque, finché c’era Pier Paolo. Me ne rendevo conto
perfettamente. Perché non potevo neanche prendere in considerazione
il fatto di avere una reale storia con Pier Paolo, no, mi faceva in
qualche modo orrore. La sua omosessualità mi dava un disagio
interiore che... un senso di grande disagio. Infatti anche quando
andavamo al mare, le nostre corse al mare, io avevo sempre terrore di
queste corse al mare... cercavo di non farle, le facevo, ma
insomma...
Il tuo personaggio era
fuori da ogni schema: non eri una vamp, ma giocavi con alcuni
stereotipi della vamp, univi la seduzione e un’ironia che poteva
essere giocosa e cattiva, una fantasia follemente carnevalesca, ma,
al tempo stesso, rivelavi spesso un temperamento tragico, una
malinconia più nascosta...
Sì, non c’era nessuna
come me (ride). La prima volta che Pier Paolo è venuto a casa mia, è
rimasto allibito, con gli occhi sbarrati dietro gli occhiali neri,
non se ne capacitava...
È stato difficile
essere quel personaggio nella società dello spettacolo di allora? Mi
riferisco all’anomalia che un’attrice fosse anche autrice di se
stessa...
A nessuno era dato
saperlo. A quei tempi veniva dato così, ero così e così dovevo
essere. Anche se non era vero. Di questa doppia immagine, sempre allo
specchio, ne ho un po’ risentito dopo. Avrei voluto, non dico fare
marcia indietro, ma almeno riposarmi dal rischio di essere un’altra
da me stessa, anche perché rischi di perdere il filo. Non voglio
arrivare a Pirandello... ma la domanda “chi sono?” finisce per
imporsi alla mente, prima o poi. Questa è una domanda perturbante,
ma qualche volta viene.
È una domanda che
ritorna spesso nel tuo libro, “Teta veleta”, e in alcune
interviste televisive...
Io non lo so davvero.
Ignoro molte cose di me. Credo che il Fondo Pasolini mi abbia fatto
bene perché mi ha dato un’esperienza di consistenza pratica, mi ha
impegnata in modo molto forte. Ho dovuto fare tante cose che non
avevo mai fatto, per esempio avere a che fare con le istituzioni. A
poco a poco l’asse della mia recitazione si è spostato: dal
recitare me stessa in spettacoli o esibizioni mondane, qua e là, mi
sono trovata a dovere recitare moltissimo con le istituzioni! E credo
di essere stata, in questo senso, bravissima... in Italia, nei primi
anni, le istituzioni non ne volevano sapere di Pier Paolo: io le
aggiravo e le raggiravo grazie ad una sapiente recitazione. Questo
l’ho fatto, mi è tornato anche comodo e mi divertiva molto. E il
buonumore è essenziale in queste cose... Ma io ho sempre avuto un
ottimo umore... è adesso che non ce l’ho più.
Dicevi che il tuo
personaggio è stato segnato dall’incontro con Pasolini, ma
esisteva già, era già delineato nella sua identità ben prima...
Io l’avevo delineato
all’arrivo a Roma (ride). Avevo già capito che i conti non
tornavano. Alcune cose che ho scritto nel mio libro, sono
verissime... (ride) avevo capito che era meglio mettere tutto al
femminile, la “oma” e le “ome”... piombi da un luogo come
Bologna nel centro di Roma dove trovi tutte le frocie d’Italia...
era un caos! Io non ho mai capito niente della mia sessualità, di
quella degli altri, un casino, ma mi sono lasciata andare... niente è
certo, tutto è forse, bisogna nuotare e godere nel forse...
In un mediometraggio
televisivo, parli di Bologna tutta chiusa, protetta, e di Roma
“divaricata, scosciata”...
Tutta aperta, tutta
sfacciata... sì, è bella Roma... come fai a lasciarla? È unica...
Ma mi disgusta dal punto vista politico perché mi pare che la città
non reagisca più.
Le tue prime
esperienze sono state di cantante jazz con Walter Chiari...
Ma anche prima, a
Bologna, ho fatto le jam session, con Nunzio Rotondo, un
artista di Bologna, un jazzista molto bravo, bravissimo. Ero
cresciuta nella cultura jazz, mi piaceva moltissimo, il jazz bianco,
avevo i miei modelli e via che andavo, la Sarah Vaughan... La rivista
con Walter, I Saltimbanchi, fu molto divertente, aveva un
pubblico enorme, enorme, quattro-cinquemila persone come ridere, e mi
impressionava. È stata anche la prima volta che ho cominciato a
cantare davanti ad un pubblico così vasto. Dietro le quinte, andò
malissimo perché io e Aroldo Tieri, ci siamo tirati dei cazzotti in
testa, insomma un putiferio... Però è stato anche molto
divertente. Io ero molto legata a Julie Robinson e siamo rimaste
molto amiche. Stava per sposare Harry Belafonte, era innamorata
pazza. Prima aveva avuto una storia con Marlon Brando. Non lei,
Marlon Brando si era innamorato di Belafonte. Arrivò a Roma per dire
alla Julie che basta, doveva ritornare a New York. Lei non tornò, ma
scappò col mio aiuto e per vari pasticci rischiai di andare in
galera... Marlon rimase in Italia e abbiamo avuto una storia molto
carina, che però non continuò perché di andare a letto con lui e
Christian Marquand non mi andava per nulla! Non è il mio genere. Io
raccontavo un sacco di balle sulle mie avventure, ma, in realtà, una
situazione di sesso a tre, no, neanche per sogno... A pensarci bene,
ero tendenzialmente fredda. Ma io non so nulla di me stessa.
E l’esperienza con
Luchino Visconti, fu importante?
Sì, ma non poi così
tanto, perché ero affascinata e attirata dal canto più che dalla
prosa. Mi attirava il fatto che, secondo me, la canzone fosse più
difficoltosa del teatro, i recital erano molto impegnativi, molto
difficili. Visconti era durissimo, ed era un attore straordinario,
riusciva ad interpretare in maniera sublime tutti i ruoli, tutti i
personaggi. Ma soffriva molto in quel periodo per suoi problemi
sentimentali ed era sempre ubriaco. Mi trattò malissimo, cosa che
non gli perdonai, ma, al tempo stesso, rimanemmo molto amici. Mi
consigliò di cambiare il mio cognome da “Trombetti” in “Betti”
e lo feci.
Nei testi di “Giro a
vuoto”, che ebbe quattro edizioni, si ha l’impressione che, pur
essendo coinvolte personalità così diverse, ci fosse come un filo
unitario...
Sì, perché provenivano
dalla stessa esperienza... Fu un’idea mia quella di cantare testi
degli scrittori che amavo. Cominciai a chiedere loro i testi e a
pensare a questo spettacolo insieme a Filippo Crivelli. È stato il
putiferio perché tutti gli scrittori volevano partecipare. Moravia
non capiva nulla di metrica... Io gli avevo anche regalato un
pallottoliere, niente, non gli veniva. Pier Paolo invece era
bravissimo. Le difficoltà con la metrica di Moravia determinarono il
coinvolgimento di musicisti contemporanei perché, se no, non se ne
sarebbe venuti a capo. Andai alla biennale di Venezia e incontrai
Strawinski che mi regalò alcune pagine di battute musicali. Io non
avevo capito quanto fossero importanti e credo addirittura di averle
perse...
Gli scrittori si
ispiravano alle suggestioni che provenivano dal tuo personaggio e
dalla tua persona: per alcuni diventavi uno strumento contro il
conformismo piccolo -borghese, per altri eri una voce tragica...
Sì, loro si trovavano
bene perché gli davo molto materiale umano mio, che fosse falso o
vero o creato. La formula consisteva anche nel parlare sempre di me,
che invece non ero affatto io... Fortini era stato travolto da me,
collaborai a lungo con Fabio Mauri, che era bravo ed era un amico
profondo... Flaiano era al di fuori di quel gruppo e lo presi io.
Nel caso di Moravia
recitavi un personaggio che discendeva direttamente e ironicamente
dalla sua narrativa...
Sì, è vero. La
mogliettina annoiata che vuole buttarsi di sotto. Esisteva un
rapporto molto preciso con tutti loro. Gli spettacoli di Giro a
vuoto vennero anche tradotti, andai a Parigi e New York. A
Parigi, André Breton aveva perso la testa. Abitava attaccato al
teatro dove recitavo e veniva tutte le sere, facendo schiamazzi
tremendi. Io, che non l’avevo riconosciuto, credevo mi stesse
prendendo in giro, invece si divertiva follemente! Era una persona
deliziosa, me lo ricordo molto bene.
Moravia ti ha definita
un’artista che appartiene “alla tradizione dei grandi solitari,
dei fantasisti più insoliti”... Ti riconosci in queste parole?
Sì, ero sola. Intanto si
è soli perché si è soli e poi ero sola sulle scene. Facemmo un
disco con Bruno Maderna dai Sette vizi capitali di
Weill/Brecht. Lui creò gli arrangiamenti, bellissimi. Mi affascinava
molto il cabaret berlinese e poi le canzoni erano belle, belle. Kurt
Weill era un grande musicista. Vittorio De Sica collaborò a Tango
Balade. Il rapporto con Bruno era meraviglioso. Eravamo molto
amici ed era anche diventato amico di Pier Paolo. Iniziò a scrivere
un balletto per Pier Paolo, Vivo e Coscienza, che purtroppo
rimase lì, non è andato avanti. Bruno lo conoscevo dai tempi di
Milano, era un personaggio molto noto e io andavo da lui di tanto in
tanto alla radio. Stava lavorando ad esperimenti di musica
dodecafonica. Una persona geniale. Beveva come una spugna e non
poteva durare più di quello che è vissuto. Lavorava soltanto di
notte. Non ne voleva sapere di lavorare di giorno. Bruno aveva un
grande ascendente sui musicisti, lo amavano, lo rispettavano tutti e
abbiamo sempre e solo fatto i turni di notte, senza controversie. Il
delirio era che queste partiture dovevano essere copiate in fretta e
furia e distribuite, così io dovevo galoppare per consegnarle. Era
una follia. I musicisti, che erano i migliori sulla piazza, le
ricevevano all’ultimo minuto.
Nel 1964 hai recitato
e cantato in un altro spettacolo che fece scalpore, “Potentissima
signora “...
L’unico difetto di
quello spettacolo fu di essere in anticipo sui tempi e sulle mode.
Era uno spettacolo molto bello e ci siamo divertiti pazzamente.
Avevamo le scene di Lida De Nobili, i pannelli di Schifano, era tutto
fuori dal tempo... Non avevamo una lira e si facevano le collette. È
rimasta storica la mia richiesta di una sovvenzione a Gianni Agnelli.
Gli avevo chiesto, credo, un milione e lui mandò cinquecentomila
lire, con tanti auguri ecc. Io gli mandai un foglio a metà: mi hai
dato metà di quanto ti avevo chiesto, quindi il testo di
ringraziamento è a metà.
Nel teatro di prosa
hai recitato con Luca Ronconi nella sua prima messinscena di Giordano
Bruno...
Ronconi volle che
interpretassi il suo Candelaio e il mio personaggio era molto
bello. Ma gli dissi: essendo uno spettacolo con tanti attori,
ricordati che pretendo molte prove perché non voglio fare la stella
solitaria. L’ho asfissiato, con prove, controprove...
Quando siamo andati in
scena, gli ho detto: “Luca, caro, io non ho capito quel che mi hai
detto. Scusami, abbi pazienza, ma io stasera cerco di fare quello che
posso”. Ho fatto tutt’altra cosa e ho ottenuto un trionfo. Non
potevo proprio fare ciò che voleva, non potevo obbedire ad una regia
molto tradizionale, d’autorità. Nello stesso periodo interpretavo
Orgia perché Pier Paolo diceva che non potevo perdere
Ronconi, e io dicevo ma sì lo perdo, è ovvio, come posso fare,
hanno le stesse date. Andò a finire che mi divisi tra i due
spettacoli.
È vero che, nei primi
anni Sessanta, il cinema non ti attraeva?
A me non piaceva un cazzo
il cinema, anzi, più che altro non mi interessava. Ero molto presa
dal mio teatro, quelle canzoni non erano facili. A me piaceva sempre
la battaglia. Per me, il cinema è cominciato con Teorema e
dopo non ho più fatto altro.
Ci sono stati
tentativi da parte dei registi della commedia italiana di
coinvolgerti nei loro film?
No, perché ero sempre
stata schedata come l’”intellettuale”, e in quell’ambiente
non giocava tanto a favore. Dovevi fare necessariamente ruoli di
comica... ma a me non interessava minimamente. La ricotta mi
piacque perché era una cosa strana, bizzarra, dove nemmeno una come
me poteva ritrovarsi. Però lì ci siamo fermati per anni. Poi sono
arrivati gli episodi di Pier Paolo, La terra vista dalla luna,
Che cosa sono le nuvole?...
Nella “famiglia”
di non attori che appartenevano al cinema di Pasolini come Franco
Citti, Mario Cipriani e altri, tu, oltre ad essere l’unica attrice
professionista, fin dai primi film hai continuamente cambiato
identità e aspetto da una pellicola all’altra. Mentre Ninetto
Davoli è sempre Ninetto, il ragazzo furbetto, allegro e innocente;
il Franco Citti di “Accattone” e “Mamma Roma”, rimane
anch’egli, più o meno, sempre una variante di se stesso, - quando
interpreta un diavolo in Canterbury e un demone nel “Fiore delle
Mille e una notte” si tratta di variazioni di un’unica identità
- e lo stesso discorso vale anche per attori professionisti come
Massimo Girotti - che ha sempre impersonato il padre - e Silvana
Mangano - la madre/Madonna - invece i tuoi personaggi cambiano
continuamente...
È vero, sì, è vero. La
verità è che lui non voleva magari ammetterlo, ma di riffa o di
raffa, la sola attrice per lui ero io. E giù scenate se per caso io
dicevo di no ad una sua proposta. Come è stato per Teorema.
Ogni volta, da parte sua, mi giungeva un’idea diversa, una proposta
differente dall’altra. Ogni volta mi vedeva in un modo, o in un
altro, o in un altro ancora.
Nei testi scritti da
Pasolini per le canzoni di “Giro a vuoto”, troviamo la “Ballata
del suicidio”, dove la voce femminile, l’io femminile è quella
di una “diversa”, è la tragedia della diversità di una donna
che ha deciso di uccidersi. In “Cristo al Mandrione”, interpreti
un’altra voce di morta, la voce d’oltretomba del cadavere nudo,
sporco e abbandonato, di una povera donna; in “Marilyn” sei un io
femminile fragile, sfruttato dalla società dello spettacolo; le due
prostitute di “Valzer della toppa” e “Macrì Teresa detta
Pazzia” potrebbero essere sorelle di “Mamma Roma”: in alcuni
testi, i versi derivano o anticipano altre opere pasoliniane, in
altri si può avvertire una forma di identificazione tra la tua voce
e quella del poeta. Sei d’accordo?
Sì, assolutamente. La
cosa che gli piaceva di più era il fatto che non fossi un’attrice
di birignao. Non lo sopportava. La mia voce e la mia pronuncia
hanno sempre mantenuto delle inflessioni bolognesi, non è che l’ho
perso in omaggio all’accademia... Invece in Italie magique
diventavo il suo strumento di aggressione contro il colonialismo,
il fascismo, Mussolini, Hitler che beffeggiavo in lungo e in largo.
Una sera i fascisti si organizzarono per menarmi: quando scesi in
platea con una coppa di champagne per recitare uno degli ultimi
monologhi, come prevedeva il copione, vidi che mi aspettavano al
varco e corsi come una lepre dietro al sipario per sfuggirli.
Aveva un rapporto
molto complesso con te come attrice...
Io me ne sono accorta in
Teorema. Era molto complesso. Molto denso. Ho anche capito che
non era vero, come io pensavo, che lui non facesse dei veri e propri
scavi all’interno delle persone. Invece li faceva. Aveva capito
come e perché Teorema dovevo farlo soltanto io. Perché c’era
un rapporto molto preciso tra me e la terra, che io ignoravo. Io gli
dissi di no. Siamo andati avanti a litigare quasi un mese. Lui era
incazzato duro. Avrebbe rinunciato al film. Era furioso. Era così
convinto. Non lo potevi schiodare da quell’idea. Poi era molto
riottoso nel dare spiegazioni. Non voleva spiegarmi. Io gli chiedevo
che cazzo c’entrassi con questa serva, con la fronte bassa e le
sopracciglia folte... Esistevano delle idee molto chiare al di sotto,
nitide e profonde. È stata un’esperienza molto strana. Mi ha molto
turbata.
Ad Antonio Bestini,
hai detto che Pasolini prendeva gli attori per la loro natura, per la
loro realtà...
Sì, Pier Paolo non era
affatto un regista. Prova ne sia che in Salò, dove domina un
distacco assoluto dalla materia e dai personaggi, per la prima volta
affrontava la distanza di una regia vera. Non è mai stato un
regista, ma è stato qualcosa di più. Quel di più andava
conosciuto...
Nel libro aggiungi
anche che negli attori professionisti che hanno recitato con
Pasolini, nasceva una forma di resistenza che si traduceva in
qualcosa di stridente...
Sì, c’era questa
resistenza. C’era perché uno non riusciva a capire quello che
voleva. Visto che lui voleva solo ciò che eri dentro, all’interno
di te stesso, non era un’esigenza che venisse compresa. Loro non
riuscivano a capirlo. Invece era così. Era molto affascinante
lavorare con lui, perché si lavorava sull’intelligenza.
In “Teorema” ha
usato la forza del silenzio che può avere il tuo volto e il
personaggio di Laura Betti spariva completamente, come era sparito
nella strana fisionomia del turista de “La terra vista dalla luna”.
Per la donna di Bath de “I racconti di Canterbury”, invece, fece
ricorso ad alcuni elementi del tuo personaggio, come l’aggressività
e il sarcasmo...
Il personaggio de La
terra vista dalla luna nasce dal fatto che io da sempre volevo
recitare il ruolo di un uomo e quella volta me l’ha fatto fare. Mi
piaceva molto fare l’uomo. Non so quante ore di trucco, i peli
della barba da attaccarsi, fu molto faticoso, però mi sono molto
divertita... Il personaggio della donna di Bath era molto carino,
però non c’è più. Peccato. Era talmente bella la parte del
pellegrinaggio, il carrozzone dei pellegrini che viaggiano a
Canterbury e si raccontano le storie, si fanno i dispetti, non puoi
sapere com’era bella, era veramente un film bellissimo... tutto
sparito. Fu Alberto Grimaldi che chiese dei tagli, perché il film
era troppo lungo, più di due ore e mezza. La parte inventata,
selvaggia, barbara, del viaggio con il carrozzone... è andata persa
in un allagamento degli stabilimenti della Technicolor. L’ho fatta
cercare, ho fatto rivoltare la Technicolor... niente. Era la parte
più bella e questo Pier Paolo lo sapeva. Era l’ossatura del film.
A me non piace Canterbury.
Beh, soffre di
discontinuità, ma il tuo racconto è divertente, così cinico, e
alcuni racconti sono molto belli...quelli del frate e
dell’indulgenziere...
Mah, il mio non si può
giudicare, durava un’ora, disseminato dall’inizio alla fine,
un’enormità. Il personaggio era sempre in scena...
Il personaggio di
Hélène Surgère in “Salò” avresti dovuto interpretarlo tu?
Sì, doveva esserci anche
Ninetto, nella parte del soldatino fascista che ha poi avuto Claudio
Troccoli, ma Pier Paolo aveva paura per noi, aveva ricevuto delle
minacce e temeva dei pericoli. Non per se stesso, lui non aveva mai
paura di nulla. Per noi.
Oltre a “Vivo e
Coscienza” esistono altri progetti che non avete potuto realizzare
insieme?
Sì, dovevo fare un ruolo
perfido, malvagio nel film che avrebbe dovuto girare nell’inverno
1975-76, Porno-teo-kolossal. Poi mi diceva sempre che avrebbe
voluto interpretassi Eichmann, vestita da nazista di tutto punto.
Voleva anche che scrivessi il testo. Era ormai diventato un
ritornello scherzoso, questo su Eichmann...
Dopo aver recitato ne
“La dolce vita”, hai dichiarato spesso di non trovarti in
sintonia con il metodo felliniano perché trattava gli attori come
oggetti...
Non mi trovavo. Ci usava
come degli oggetti, mentre con Pier Paolo si era coinvolti in un
processo molto più misterioso. Con Federico, era chiaro che eravamo
degli oggetti e lui manipolava l’attore in tutti i modi, ma io non
mi lasciavo manipolare. Non andavamo d’accordo, non eravamo sulla
stessa lunghezza d’onda. Era carino, a me era anche abbastanza
simpatico, dico “abbastanza”, ma non del tutto... Non mi piaceva
il suo spirito da “Marc’Aurelio”. Non so che cosa non mi
piacesse in lui, c’era qualcosa in lui che non mi piaceva. Forse un
certo tipo di ironia che usava, ma in realtà non era molto ironico.
L’episodio della Dolce vita era nato da un episodio reale,
una litigata spaventosa che facemmo io e Marcello a tavola, sotto gli
occhi di Federico e Pier Paolo, avvenuta in nome di che, non
l’abbiamo mai saputo. Io e Marcello avevamo un ottimo rapporto.
Eravamo amici. Scoppiò questa specie di bomba. E a Fellini quella
scena piacque pazzamente e la ricreò per il film.
Come fu il rapporto
con Rossellini per “Era notte a Roma”?
Rossellini era molto
carino. Giovanna Ralli aveva vietato qualsiasi pubblicità sul mio
nome. Nella sequenza in cui scendevamo dalla camionetta, io feci una
bella mossa: mi sono tirata su tutte le sottane, e così apparvero le
cosce. Mi sono guadagnata un applauso a Cannes. Entrai in un
magazzino, da cui bisognava uscire di corsa. Arrivata davanti alla
porta, Rossellini mi disse: “Laura, prima tu!” La Ralli mi ha
dato uno spintone che ancora un po’ mi caccia per terra, ed è
uscita prima lei, così si è presa subito il primo piano. (ride) E
Sergej Bondarciuk che rideva, rideva. C’è poco da ridere, caro...
Rossellini era un uomo molto dolce. Era un regista, un uomo molto
paziente.
Dopo “Teorema”,
inizia veramente la tua carriera cinematografica. In quello stesso
1968 interpreti “Orgia” e dichiari alla stampa che vuoi lasciare
la canzone...
Sì, perché era
difficile portare avanti le due cose. La canzone era molto
impegnativa. Non ce la facevo. Il teatro non mi interessava tanto, me
l’ha fatto fare quel rompicazzo di Luca [Ronconi], perché io
volevo fare solo cinema. D’altra parte ero piena di proposte per il
cinema, anche perché avevo vinto la Coppa Volpi.
Con Mario Bava hai
recitato in due film dell’orrore...
Eravamo molto amici. Ero
stata io a pescarlo dopo la Coppa Volpi: “Senta caro, io adesso
voglio fare un film con lei”. Lui si è sentito molto lusingato,
bene o male. Mi piaceva molto il genere horror e Bava era un uomo
molto simpatico. In Reazione a catena, io e Pistilli ci
trovavamo nella foresta. Per la verità, della foresta non c’era
manco l’ombra, manco n’albero, eravamo su una spiaggia. Mario
stava con una frasca in mano e l’agitava davanti alla mdp per
simulare, appunto, l’esistenza di una foresta. Noi non riuscivamo a
resistere perché scoppiavamo dal ridere... Lui aveva milletrecento
espedienti, anche nell’altro film, dove interpretavo il ruolo del
fantasma, si era sdraiato per terra, e muoveva la mano velocissima
davanti all’obiettivo così sembrava che volassi...
Hai anche accompagnato
l’esordio di André Téchiné...
Téchiné è venuto a
dormire da me, a Campo de’Fiori, e lì ha finito la sceneggiatura
di Paulina s’en va e voleva che la interpretassi. Io avevo i
miei dubbi - mi sembrava una gran cagata - però ha tanto e tanto
insistito che l’ho interpretata. È stato un insuccesso
travolgente... tant’è che alla fine, dopo la presentazione a
Venezia, mi ero voltata per sparire quatta quatta, ma c’era Ernesto
G. Laura che mi ha impedito di squagliarmela... alla fine della
proiezione, un silenzio, un grande silenzio... arrivano dei fiori,
delle rose rosse per me e Marie-France Pisier. Il pubblico si volta,
ci ha guardato e se n’è andato... Non fu proprio piacevole...
Una forte complicità
ti ha unita, in seguito, a Bellocchio per tre film, uno dei quali è
una delle tue interpretazioni più belle, più complesse, “Il
gabbiano”...
L’incontro con Marco è
stato molto importante, mi corrispondeva anche più di Bernardo...
quest’anima un po’ russa, che mi stava bene addosso... Il
gabbiano è un film bellissimo, ma è stato trattato male da
tutti, da Marco per primo, che aveva il problema dell’uscita in
Televisione sulla RAI e poi al cinema, e l’ha mollato. Ma
senz’altro è uno dei suoi film più belli... il rapporto del mio
personaggio col figlio, quando si sbranano, è il cuore del film...
Bertolucci è l’altro
autore con cui hai un'intensa complicità...
Totalmente opposto. Marco
è un autore che scava dentro, Bernardo ha la necessità di metterti
a tuo agio in uno spazio, in una camera. Quando vede che sei a tuo
agio, allora può iniziare a girare. Non è una tecnica sbagliata, ma
insomma... io mi trovo meglio con Marco, ho più bisogno di andare a
fondo... Mi ha tagliato in una breve apparizione in Ultimo tango a
Parigi, un cammeo molto carino...
In “Allonsanfan”,
i fratelli Taviani hanno valorizzato la dolcezza del tuo
temperamento...
Sì, io ero una tata
affettuosa, ma anche incestuosa... i Taviani sono due persone
squisite. Con Marcello stavo benissimo, mi venivano delle ridarole,
mi ricordo che una volta, ridevamo sgangheratamente... ai Taviani non
interessava e diedero motore ciak azione: Marcello rimase con tutte
le rughe delle risate sulla bocca, tant’è che il truccatore si è
avventato sulla scena e gli ha stiracchiato la faccia per fargliela
ritornare senza le grinze della risata...
Hai sempre avuto,
ancora oggi, un rapporto molto forte con il cinema francese. Per
esempio, Jacques Deray ti ha diretta in due film e ha parlato di te
con grande ammirazione nelle sue memorie...
Era molto simpatico,
abbiamo fatto due film, Un papillon sur l’épaule [titolo
italiano Morti sospette] era bello. Lino Ventura era un
bellissimo attore. Sul set del precedente film che ho fatto con
Jacques, Le Gang, stavo malissimo perché Alain Delon e Deray
litigavano di continuo. Era Delon che aveva voluto quel film, era
Deray che aveva voluto Delon... insomma, una fatica tremenda, c’era
una tensione terribile. Ma con me erano tutti e due molto gentili.
Anche Delon era molto gentile: il caldo, quell’estate, era
asfissiante e lui, che era anche il produttore, sguinzagliò tutte le
sue guardie del corpo per cercare dei ventilatori per la troupe.
Finalmente ne ha trovati uno o due e li ha fatti mettere nella mia
camera d’albergo. Delon è una persona deliziosa. Deray era molto
appassionato di letteratura, leggeva molto, era amico di Flaiano, una
persona gradevole. Peccato che litigassero sempre... e sì che
avevano fatto molti film assieme, ricordo La piscina che era un bel
film...
Hai anche interpretato
due film con Jean-Claude Biette, che era stato collaboratore di
Pasolini...
Era meraviglioso... lo
amavo proprio tanto. Se n’è andato e non capisco proprio... com’ha
fatto a morì non lo so... aveva un rapporto bellissimo con Pier
Paolo che si fidava di lui per le traduzioni francesi e i dialoghi
dei suoi film, ma non sul set: sul set di Edipo re, gli diceva
di spostare una massa di figuranti e Biette, con la sua vocina,
“Messieurs, s'il vous plaît...” Ma come s'il vous plaît,
cacciare un urlo doveva!
Catherine Breillat,
oltre ad averti dato un ruolo breve, ma molto bello, in “A mia
sorella!”, ti rende anche una sorta di omaggio, mostrando nel film
una tua intervista alla televisione...
Catherine è molto brava,
molto furba come narratrice: il tono del film sembra molto piatto, ti
chiedi “ma dove andiamo a finì, ma dove andiamo a finì”, fino a
quando arriva la violenza finale... (ride) Soltanto Catherine può
arrivare a delle rotture di tono simili. Ho visto altri film suoi,
più belli di questo forse, come Parfait amour! magnifico. La
protagonista è un’attrice fantastica.
Due incontri
significativi sono stati anche quelli con Miklós Jancsó e Gianni
Amelio...
Jancsó è un uomo molto
interessante, molto dolce, molto poetico. Lo amavo molto. Lo sentivi
inquieto perché non aveva le sue radici qui in Italia. Non stava
bene. Il piccolo Archimede è davvero bello. Io ho lavorato
molto bene con Gianni, solo che dovevamo salvarlo perché lo volevano
menare. Non era un uomo facile. Il film era prodotto dalla RAI con
una troupe della RAI che per la prima volta usciva fuori dalla sua
routine... Gianni non reggeva: i tecnici della troupe erano tremendi,
facevano sempre le pause-panino... Erano impiegati RAI che non
rappresentano proprio l’ideale per un film... Lui si arrabbiò
violentemente e loro lo volevano menare. Io e un’altra del set
facevamo scudo con il nostro corpo per salvarlo, però i rapporti
rimasero pessimi. E lui aveva torto: sapeva con chi aveva a che fare,
sapeva che razza di troupe fosse... Gli dicevamo di stare tranquillo,
non puoi competere con un’intera troupe...
Durante quel mio primo
piano alla grata della tomba, quando sto lì aggrappata, per girarlo
Gianni aveva bisogno, come me, di una certa concentrazione, e sul più
bello quegli animali hanno gridato: “Pausa per il panino!!”
Nel 2002 hai recitato
in uno spettacolo curioso, “I cosmonauti russi”, un dramma
jazz...
Ah, per quello spettacolo
mi sono proprio divertita... ho fatto un affondo di nuovo nel jazz.
Abbiamo fatto due o tre repliche al Regio di Torino e all’Auditorium
di Roma... una grande orchestra, dei solisti bravissimi... io ero la
“stella cattiva”, che “brilla a vostro danno” e dice agli
astronauti: “il vostro viaggio vi rende saporiti”...
Postilla
Questa intervista è
stata realizzata nella casa di Laura Betti, poco più di un mese
prima che morisse. Era molto indebolita nel corpo, ma aveva una
volontà irriducibile di fare, progettare, preparare, e anche
recitare, che andava oltre le sue condizioni fisiche. Una volontà
che non l'ha mai abbandonata. Laura Betti era una donna estrema in
tutto, negli amori come negli odi. Come tutte le forti personalità,
aveva dei risvolti segreti, preziosi. Era di una dolcezza
sorprendente, aveva una generosità straordinaria, un'ironia
fantasiosa e inesauribile. Nei suoi ultimi mesi, non so per quale
fortuna, io ho potuto conoscere questi aspetti della sua personalità,
che mi mancano molto. [R.C.]
Da “Cineforum”, n.
437, agosto-settembre 2004, ora nel blog di Angela Molteni., donde
l'ho ripreso togliendo le note.
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