Paul M. Cobb, nel suo
"La conquista del Paradiso" traccia una panoramica delle
Crociate e del mondo arabo tra l’XI e il XV secolo, rivelando come
già allora il jihad fosse soprattutto una carta a disposizione della
politica.
Vermondo Brugnatelli
Giochi di alleanze tra
Islam e Cristiani
All’epoca del feroce
Saladino, quando Riccardo Cuor di Leone ottenne il permesso per i
cristiani di circolare liberamente a Gerusalemme, i due eserciti –
stabilita la tregua – «fraternizzarono, forse durante un
banchetto». Lo si apprende, insieme a molti altri fatti d’arme,
scenari geopolitici e aneddoti interessanti, dalla vivida descrizione
di Paul M. Cobb nel suo volume La conquista del Paradiso Una
storia islamica delle Crociate (traduzione di Chiara Veltri,
Einaudi, pp. 367, euro 32,00), che disegna un vasto panorama di
storia del mondo arabo nel medioevo, prendendo in considerazione un
buon mezzo millennio di storia, dall’XI° al XV° secolo.
Per Cobb, che non si
limita a tracciare una semplice «storia delle crociate», è
importante partire dal contesto generale del confronto-scontro in
atto per molti secoli tra il mondo islamico e quello cristiano, fin
dalla prima espansione araba nel VII° secolo. Dopo la fase iniziale
che vide un ampliamento quasi travolgente dei territori della «Casa
dell’Islam», le conquiste musulmane presero a rallentare, a
segnare il passo, e fu proprio intorno al mille che cominciò, su più
fronti, una lenta ma sensibile «riconquista» delle posizioni
perdute da parte del mondo cristiano, sia nella penisola iberica
(al-Andalus), sia in Sicila, sia, infine, nelle regioni prossime
all’Anatolia che un tempo era stata bizantina. Le «crociate» vere
e proprie, dal punto di vista del mondo islamico, non furono che una
fase di questa offensiva generale su più fronti da parte dei sovrani
cristiani.
È una storia molto
dettagliata e basata su un saldo impianto di fonti di prima mano
quella che l’autore tratteggia nei nove capitoli del suo lavoro,
permettendo di apprendere un gran numero di informazioni sulle
dinamiche interne al fronte musulmano che, lungi dal costituire
un’entità compatta vedeva invece interagire numerosi attori,
divisi per stirpe, lingua, fazione religiosa, alleanze
politico-militari. Le conquiste e le perdite di territori, appaiono
così inquadrate in una prospettiva ben più approfondita di quanto
apparirebbe dalla sola elencazione delle battaglie e dei nomi dei
guerrieri che vi parteciparono. Dal punto di vista
etnico-linguistico, accanto agli arabi – ormai in netto declino,
col tramonto del califfato iniziato ben prima del sacco di Baghdad
del 1258 – compaiono sullo scacchiere popolazioni e dinastie turche
di varia origine (selgiuchidi, turcomanni, kipcapi, ottomani), ma
anche curdi, iranici, corasmi, georgiani, armeni, berberi, mongoli…
Mentre dal punto di vista religioso si sovrapponeva il frazionamento
tra sunnismo, sciismo, le diverse sette sciite, nonché i cristiani
di varia obbedienza.
Lo sviluppo degli eventi
era dettato principalmente da un gioco di alleanze che ben poco
avevano a che vedere con una guerra di religione. Seguendo il filo
della storia colpisce come fosse tutt’altro che raro il caso di
alleanze tra cristiani e musulmani di una fazione contro i musulmani
di un’altra. Così pure erano frequenti i cambi di fronte
repentini, come quello del selgiuchide Ridwan di Aleppo che per
qualche tempo fece invocare nelle moschee i nomi dei califfi fatimidi
(sciiti), salvo poi tornare, dopo poche settimane, a invocare il nome
del califfo abbaside (sunnita) e del suo sultano Barkiyaruq.
Chi oggi non si capacita
di come la diplomazia e le pressioni internazionali non riescano a
venire a capo del ginepraio siriano potrebbe trarre da questo libro
alcune lezioni interessanti su come, nel complesso, da secoli a
questa parte, questi territori siano al centro di contese tra un
incredibile numero di attori, piccoli e medi potentati locali, non di
rado mossi da forze esterne alla regione. Anche allora, infatti,
sullo sfondo agivano, come ispiratrici o a volte con interventi
diretti, potenze ai margini della frontiera: non solo i cristiani
d’Europa, Bizantini o Franchi, ma anche, per esempio, la terribile
setta sciita dei nizariti (i famosi «assassini»), che agivano in
Siria e in Mesopotamia, ricevendo direttive dalla fortezza iranica di
Alamut, o l’impero mongolo, entrato di prepotenza nella regione e
fermato solo dai mamelucchi di Baybars.
Paul M. Cobb non si
limita ai dati evenemenziali delle guerre e delle paci, ma indaga e
espone con chiarezza anche i molti aspetti economici e commerciali
che sottostavano alle politiche dei vari governanti, obbedienti
soprattutto a queste logiche, facendo uso della giustificazione
religiosa solo saltuariamente e perlopiù in chiave opportunistica,
quando occorreva rinsaldare le proprie forze con alleanze altrimenti
labili o problematiche; ma avendo sempre presente l’opportunità di
mantenere per quanto possibile rapporti di buon vicinato con tutti,
indipendentemente dalla fede religiosa dei governanti.
Già allora il jihad era
più una carta a disposizione della politica che un reale impegno
morale. Dei tre grandi condottieri passati alla storia per avere
fermato e respinto i regni crociati, Nur ad-Din, Saladino e Baybars,
il secondo è forse il più noto per aver legato la sua fama alla
guerra ai cristiani, ma dalla ricostruzione di Cobb si ricava come la
maggior parte del suo sforzo bellico sia stata profusa nel combattere
rivali del campo islamico, e come il suo jihad contro i cristiani sia
stato più che altro frutto di un tentativo di rifarsi un’immagine
di buon governante musulmano dopo le spietate campagne fratricide con
cui si era assicurato il potere.
Lo stile del racconto di
Cobb invoglia il lettore a seguire con interesse le vicende che
descrive, nonostante non sia sempre facile districarsi nella loro
complessità. Appartiene a questo stile anche il ricorso a alcune
allusioni che, pensate per un pubblico di cultura anglofona, possono
risultare poco perspicue per il lettore italiano. Per esempio,
parlando degli eventi del 1066 nel corso della conquista normanna
della Sicilia, l’autore lascia cadere, di passaggio «mentre i
familiari di Ruggero e Roberto in Normandia erano occupati ad
invadere un altro regno insulare…»: per quanto scolpita nelle
menti di qualunque scolaro del mondo anglosassone, la battaglia di
Hastings che sanzionò la conquista normanna dell’Inghilterra a
opera di Guglielmo il Conquistatore è una nozione decisamente meno
presente a quelli del nostro paese.
Alla traduzione, nel
complesso molto buona, nuocciono purtroppo un certo numero di
scivoloni, malapropismi e rese poco felici del senso originale, che
sono statisticamente quasi inevitabili in un lavoro di tale mole, ma
quando compaiono, qua e là, possono rendere problematica la
comprensione. Il lettore si domanderà, ad esempio per quale motivo
gli Almoravidi, in arabo al-Murâbitûn, avrebbero dovuto chiamarsi
«trattatevi con pazienza tra di voi», mentre il senso del termine,
reso in inglese con «those who fight together», è «coloro che
combattono strettamente uniti». Un merito notevole del libro,
rivendicato con fierezza dall’autore, è l’ampio ricorso alle
fonti arabe, spesso ignorate dagli storici occidentali o conosciute
solo tramite traduzioni invecchiate e non sempre affidabili.
Da questo punto di vista, giova ricordare che il pubblico italiano gode di un enorme vantaggio avendo a disposizione, fin dagli anni cinquanta, eccellenti traduzioni di numerosi fonti islamiche sulle crociate da parte di un arabista della statura di Francesco Gabrieli. Il suo volume Storici arabi delle Crociate è un classico, tuttora reperibile grazie a continue ristampe, e la sua lettura arricchirebbe, con la vivacità delle descrizioni di prima mano degli autori arabi, molti dettagli del panorama tracciato con precisione accademica dall’autore statunitense.
«I lettori moderni
potrebbero trarre altre lezioni da una storia islamica delle
crociate»: questa affermazione racchiusa nell’ «epilogo» del
libro non è una frase di circostanza. La sua lettura infatti, oltre
a far conoscere le vicende passate di queste terre martoriate,
permette di scoprire come le stesse vicende venivano vissute dagli
appartenenti ai due campi rivali, e consente di meditare sulle
sconcertanti analogie che molti fatti di allora presentano con la
cronaca odierna, individuando alcune costanti tuttora presenti nella
realtà geopolitica e nella mentalità generale. Molti schemi e
preconcetti diffusi presso chi ignora questa storia si
ridimensionerebbero o sparirebbero. Historia magistra vitae dicevano
gli antichi. Forse non avevano tutti i torti.
Il manifesto – 19
giugno 2016
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