La letteratura
romantica contiene spunti preziosi per lo studio dell'inconscio. Lo
testimonia l'interesse di Freud per l'opera di E.T.A. Hoffmann e in particolare per i Racconti notturni.
Giuseppe O. Longo
Hoffmann, il romantico che batte Freud sui sogni
Due secoli fa, nel 1816, uscivano i Racconti notturni di Ernesto Teodoro Amedeo Hoffmann, esponente geniale e bizzarro del romanticismo, scrittore, compositore, pittore e giurista, noto soprattutto per la sua narrativa, il cui tratto più originale è l’introduzione nelle normali situazioni quotidiane di elementi fantastici e soprannaturali: sdoppiamento della coscienza, telepatia, follia, magia e occultismo.
Nei primi decenni
dell’Ottocento questi temi esoterici e inquietanti erano largamente
coltivati: non dimentichiamo che proprio nel 1816 Mary Shelley
concepisce il suo Frankenstein, ovvero il moderno Prometeo e John
Polidori il suo Vampiro. Nei Racconti notturni si assiste
all’angosciosa disgregazione della realtà, che trapassa in un
mondo assurdo e grottesco. Come dice Ladislao Mittner, in Hoffmann
«il rapporto tra l’entusiasmo e la follia, fra il sogno e la
smorfia, più che poetico, cioè spontaneo, è deliberatamente
provocato; provocato con grandissima abilità. L’alternarsi
capriccioso, rapidissimo, spesso quasi inavvertibile, del sogno e
della realtà distrugge questa e quello; conseguenza ne è il vuoto,
unico vero esito artistico dell’opera hoffmanniana».
I Racconti notturni
furono preceduti e seguiti da molte altre opere, in cui l’autore
diede libero sfogo alla sua fervida e tumultuosa fantasia, che
tuttavia era ancorata a profonde intuizioni psicologiche. Italo
Calvino scrisse che la scoperta dell’inconscio avvenne «nella
letteratura romantica fantastica, quasi cent’anni prima che ne
fosse data una definizione teorica». A Hoffmann si ispirarono molti
scrittori, da Stevenson a Poe, da Dostoevskij a Gogol. Anche la
musica, passione straripante del nostro, gli deve molto: non solo per
le sue composizioni, ma anche per l’influenza esercitata su altri
musicisti, in particolare su Jacques Offenbach.
Hoffmann nacque nel 1776
a Königsberg, nella Prussia orientale, e morì ancora piuttosto
giovane a Berlino nel 1822. Aveva ereditato dal padre, pastore
luterano e giurista, una forte attitudine artistica e dalla madre,
ipersensibile e soggetta a depressioni, un carattere incline al
fantastico e al visionario. Dopo la precoce separazione dei genitori,
visse con la soffocante famiglia materna, in un clima cupo e bigotto
che lascerà nel bambino un’impronta indelebile. Conseguita la
laurea in legge, intraprese una carriera di funzionario in Germania e
poi a Varsavia. Irrequieto e sognatore, fervido lettore, s’interessò
di disegno e di medicina, e, in modo professionale, di musica. Nel
1809 pubblicò il suo primo racconto fantastico ( Il cavalier Gluck),
seguito da molti altri in cui si riflettono i traumi psichici della
sua infanzia ( Racconti fantastici alla maniera di Callot) e il suo
interesse per l’occultismo e l’ipnotismo ( Gli elisir del
diavolo).
Perseguitato dal timore
di diventare pazzo, Hoffmann approfondì l’argomento della follia
studiando i ricoverati nel manicomio di Bamberga e le persone che
incontrava grazie al suo lavoro di consigliere giudiziario a Berlino.
Sempre sull’orlo dello squilibrio, in lui si dissolveva di continuo
il confine tra sogno e realtà: tipico in questo senso è L’uomo
della sabbia, il più famoso dei Racconti notturni, nel quale il
giovane Nataniele, anch’egli come lo scrittore segnato precocemente
da incubi e terrori infantili, s’innamora perdutamente di Olimpia.
Ma Olimpia è una bambola meccanica di cui Nataniele non riesce a
scorgere la vera natura, nonostante le tante prove che agli occhi
degli altri sono evidenti. Fin dalle prime righe si respira
un’atmosfera orrorifica, fomentata dagli aggettivi (spaventoso,
orribile, minaccioso) disposti in un crescendo magistrale che allude
alla pazzia, alla magia, agli spettri e che prelude alla tragedia:
quando scopre la verità, Nataniele si ammala e poi, in una crisi di
follia, si precipita da una torre.
Già questi pochi cenni
possono spiegare il grande interesse che L’uomo della sabbia
suscitò in due studiosi vissuti cent’anni dopo. Nel 1906 lo
psichiatra tedesco Ernst Jentsch (18671919) pubblicò il saggio Sulla
psicologia del perturbante, in cui afferma che il minaccioso,
l’angoscioso, il perturbante ( Unheimlich), scaturisce
dall’incertezza che si prova di fronte a certe entità o in certe
situazioni. Secondo Jentsch, tra tutte le incertezze che possono
generare un senso di perturbante, ve n’è una in grado di produrre
«un effetto regolare, potente e generale, cioè il dubbio se un
essere apparentemente vivo sia davvero animato e, viceversa, il
dubbio se un oggetto che sembra privo di vita possa in realtà essere
animato ». Jentsch indica in Hoffmann un narratore che ha impiegato
questo artificio psicologico con notevole abilità, in particolare
nell’Uomo della sabbia, dove il lettore viene tenuto sapientemente
in uno stato di indecisione sulla vera natura dell’automa Olimpia.
Anche il fondatore della psicoanalisi, Sigmund Freud (1856-1939),
s’interessò a questo racconto.
Nel saggio del 1919 Das
Unheimliche, Freud si richiama esplicitamente al lavoro di Jentsch,
ma trova limitata la sua interpretazione del perturbante fondata
sull’incertezza, e preferisce la definizione del filosofo Friedrich
Schelling (1775-1854): si dice heimlich ciò che dovrebbe restar
nascosto e che invece è affiorato. C’è dunque un chiaro legame
tra il perturbante, il sinistro, l’angoscioso e il meccanismo
psicoanalitico della rimozione.
Il perturbante si manifesta quando il confine tra fantasia e realtà si intorbida e quando ciò che era considerato fantastico si presenta nella realtà: ciò accade nelle pratiche magiche, ma anche in quell’oscuro reame della meccanica onirica in cui vivevano gli automi descritti da Hoffmann, automi a quell’epoca realmente costruiti da abilissimi artigiani e che, già molto prima dell’avvento dei robot moderni, incarnavano, con esiti goffi e vagamente minacciosi, l’antico sogno di costruire l’uomo artificiale, tentando di imitare l’opera creatrice di Dio.
Avvenire.it – 15 giugno
2016
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