Riprendo dal n. 432/ 2022 della rivista SEGNO mensile questa straordinaria recensione del libro di Santo Lombino di cui abbiamo tanto parlato in questo blog. (fv)
La libertà del romanzo
Maurizio Padovano
Bisogna inventare un luogo letterario per riuscire a raccontarne uno reale e profondamente radicato nella Storia, nella singolarità di un territorio, nell’esistenza irripetibile di uomini e donne. Dalla Yoknapatawpha Country di Faulkner alla Macondo di Marquez gli esempi non mancano di certo. Nè luna né santi, romanzo magro di Santo Lombino, riesce ancora una volta nel delizioso artificio di rendere comprensibile l’ampio spettro del mondo attraverso l’immaginazione romanzesca: essere “saggista nel racconto narratore nel saggio”, come Sciascia ci ha insegnato, è la migliore testimonianza a favore della libertà costitutiva e irrinunciabile della forma-romanzo.
Come Chagall vorrei cogliere questa terra/ dentro l’immobile occhio del bue./ Non un lento carosello di immagini/ una raggiera di nostalgia…/ Un miope specchio di pena/un greve destino di pioggia…
Questi versi di Leonardo Sciascia mi sono tornati più volte alla mente mentre procedevo nella lettura di Né luna né santi di Santo Lombino (Navarra editore, 2021, Palermo). Il romanzo di Lombino infatti, come i versi del primo Sciascia, coglie la Sicilia e le sue vicende al di là degli stereotipi della luce che scende fatale e vorace su uomini e cose, o delle incorreggibili storture che si incistano nella Storia con la forza ancestrale dei miti. Inanellando, capitolo dopo capitolo, fotogramma dopo fotogramma (la narrazione si snoda sicura e fluida con le qualità di una sceneggiatura in nuce) il senso esatto del cambiamento profondo, tellurico, che ha attraversato gli ultimi cento anni di storia – e fa della Sicilia, del mondo intero, ciò che adesso è – Lombino riesce bene in quello che solo i romanzieri sanno fare: raccontare il proprio villaggio per dirci del mondo intero.
Un villaggio
Il villaggio è Torrebruna, ovvero Santa Maria dell’Ogliastro poi Bolognetta, dove il prete del paese, Innocenzo Misseri, meglio noto come padre Nuccenzio, viene ucciso a colpi di fucile davanti a casa sua, una sera della primavera del 1920. Da subito è chiaro al lettore che sarà difficile venire a capo della natura del delitto, stabilire se è omicidio d’impeto, vendetta personale o un gesto criminale più raffinato, funzionale a un nuovo e preciso progetto di dominio politico ed economico sulla vita del piccolo borgo. Quell’omicidio genererà un scia di altre morti violente e sconvolgimenti di varia portata, in un territorio dominato dal latifondo, in cui la proprietà e il potere sono appannaggio di pochi notabili e dei loro cacicchi: ma nel quale si sono innescati, ancora indiscernibili sullo sfondo, i medesimi epocali cambiamenti che stanno divampando dovunque.
Torrebruna, per il ferroviere Francesco Marretta, voce narrante in forma diaristica, è sì l’immobile occhio di bue di cui Sciascia, ma dentro quella pupilla immota scorre un carosello di immagini che lascia intravedere, allusivamente o con puntuali riferimenti documentari, ciò che sul principio del Secolo breve ovunque comincia a mutare. Immagini che si ricompongono in quel piccolo teatro mobile costituito dal treno a scartamento ridotto Palermo-Corleone, che accorcia ogni giorno di più la distanza tra il mondo di prima e il mondo di domani.
Si potrebbe sinteticamente dire: lo sfondo del racconto è quello della epocale crisi, poco prima della sua scomparsa, della tradizionale civiltà contadina, che Lombino sa evocare puntualmente, per bozzetti esemplari, con piglio da etnologo. Ma sarebbe formula facile e di insufficiente portata. L’assassinio di padre Nuccenzio va collocato su uno sfondo più ampio nel quale conflagrano l’ondata migratoria che segue alla fine della Grande guerra (le spartenze che Lombino così bene conosce e altrettanto bene ha documentato) e la delusione che colpisce i reduci per le mancate promesse del Governo in merito alla ricompensa per il loro sacrificio; nonché la metamorfosi novecentesca del fenomeno mafioso, il suo inurbarsi ed emanciparsi da feudi e latifondo.
Un diario epico
Le scelte linguistiche dell’autore risultano perfettamente funzionali ai diversi livelli della narrazione: Lombino adagia il proprio racconto su di una lingua apparentemente disadorna, essenziale ma di luminosa chiarezza, di cristallina trasparenza. Il lessico è minuziosamente selezionato e sempre attento a far affiorare la terra dimezzo che si stende fra il nostro italiano neo-standard e il dialetto che è il vero mondo semiotico, simbolico, dentro cui questa storia va collocata: e in questa terra di mezzo le lingua si ammanta di un lirismo che ben si attaglia agli aspetti onirici, i più importanti, del racconto. Anche la forma diaristica (di cui Santo Lombino è attento studioso) non è assunta in maniera scolastica: dietro lo sguardo apparentemente ingenuo che rievoca un mondo e, nominandolo, lo ricrea nella pagina – la preparazione dell’aia, l’essiccazione delle foglie di sommacco o il racconto delle fiabesche travature – è ben percepibile l’autore e il suo complesso, stratificato, profilo intellettuale. Un profilo che nella narrazione si trasfigura nello sguardo infantile che si pone domande primigenie sul mondo: a quelle domande nel racconto si risponde in maniera ostensiva, con l’illustrazione, per bozzetti esemplari, della vita comunitaria contadina, dei suoi riti, dei suoi canti. Del resto, come voleva Roland Barthes, il primo passo verso la letteratura non è altro che interrogare se stessi. In Né luna né santi succede che l’Io interrogandosi intercetti un Noi, e che appunto questo renda il romanzo lirico ed epico insieme: quelle domande infatti, apparentemente individuali, esprimono il senso del luogo di una comunità. È in esse che affiora l’epos, cioè il canto corale di una intera civiltà: e in tale flusso epico i bozzetti etnografici sulla vita contadina appaiono ecfrastici, oltre che didascalici nella stessa maniera in cui nell’Iliade le manovre di ingresso e di attracco nei porti delle navi achee costituiscono anche un manuale di navigazione, un’enciclopedia dei saperi della polis. Si sente la Storia in quei bozzetti, quella di lunga durata che soltanto la letteratura può raccontare e rendere comprensibile a tutti. Perché, come ci ha insegnato Danilo Kis, la letteratura offre all’astrattezza della Storia, alla possanza greggia dei dati, il dono del concreto e del veritiero, la traccia e la sostanza delle persone reali, con le loro passioni e le loro idee. Insomma il romanziere, attraverso i documenti da cui lo storico e l’antropologo prendono le mosse, ci offre, come solo la letteratura sa fare, il dorso delle cose: e in questa storia della comunità affiora anche l’eco della migliore tradizione narrativa isolana, dal Verga di Guerra dei santi alla Saladino di Terre di rapina.
Il dorso delle cose
La capacità di cogliere la realtà contropelo in Né luna né santi– dietro l’apparente linearità discorsiva, frutto di un realismo di marca analitica e quasi neorealistica – affiora in forma onirica. Ogni scarto narrativo davvero significativo è infatti marcato da un sogno della voce narrante. Sono cioè i sogni del ferroviere Marretta a trasporre la concretezza delle relazioni umane al di là della stereotipia del mondo da svegli: se il realismo, da Verga in poi, si manifesta con lo strappo nella tela, con il particolare inatteso che fanno entrare in crisi il nostro sistema di attese e mettono a nudo ciò che Nabokov definiva rozzo compromesso dei sensi – il realismo di Lombino invece ci rivela la verità attraverso il racconto di sogni misteriosamente divinatori. Ed è la controluce onirica a renderci evidenti le tre corde tese su cui il racconto contemporaneamente corre. Corde pirandelliane e sciasciane insieme. La corda civile: coincide con lo sguardo sul mondo del giovane Marretta, sostanziato da ciò che su quel mondo si dice, che tenta di mettere in un ordine, fatalmente opaco, i fatti osservati e la fatalità che governa vicende ed esistenze. La corda seria: le rivendicazioni dei reduci della Grande guerra sullo sfondo di un mondo che, ad onta dell’apparente bovina immobilità, corre veloce, anche se è velocità di scartamento ridotto, verso una destabilizzante modernità nella quale la nuova mafia avrà gran parte. La corda pazza: quella del processo come farsa ben congegnata, nella quale nuove consorterie mettono in scena il loro potere di collusione e la sua capacità di controllo dei fatti e delle carte che provano a raccontarli. Un processo che ci appare congiura ordita alla luce del sole e per questo implacabile, inafferrabile: se alla fine non si scoprirà l’assassino di padre Nuccezio, è perché la colpa di quella morte, come delle altre che ne son seguite, è collettiva. È trama, sistema di relazioni, articolazione funzionale del nuovo Potere, nelle sue danze macabre così simile al Potere di sempre.
L’ultimo sogno
Non è un caso, perciò, che il capitolo conclusivo del romanzo sia il racconto di un sogno di mezza estate: il sogno più rivelatore, quello che squarcia il velo di mistero che ammanta le morti violente verificatesi a Torrebruna; un sogno che davvero conduce il concreto della letteratura, il puro evenemenziale, dentro l’astratto della Storia ufficiale, quella scritta negli atti del processo. Un finale onirico che ci induce, di buona lena, a ricominciare daccapo la lettura e a riconsiderare i segni disseminati nel racconto. Mai la verità appare così svelata come in sogno. È un finale pessimistico? Moravia definiva Sciascia un illuminista all’incontrario: uno che partiva da un mistero per approdare, dopo averlo investigato, a un mistero ancora più grande. Il delitto oniricamente rivelato che chiude Né luna né santi rimarrà forse un mistero insoluto nelle carte processuali, nella versione di comodo della storia ufficiale: ma non rimarrà certo tale nel racconto che ne ha fatto Santo Lombino. E Santo, uomo e intellettuale ribollente di passione politica, sa bene, però, che tale passione, raccontando, non deve mai indurre a puntare il dito. Per questo fa suo il motto simenoniano del comprendre, ne pas judger: che è insieme rispetto dell’intelligenza del lettore e della verità romanzesca. Lombino, in questo che Tomasi definirebbe un romanzo magro più che breve – per l’asciuttezza e l’icasticità con cui ci lascia intravedere l’ostinata struttura di un sistema sociale e culturale – è riuscito in ciò in cui, secondo Kis, soltanto gli autentici scrittori brillano: convincerci che sa più degli altri e che, malgrado ciò, dubita più di tutti.
Maurizio Padovano
Bagheria, 31 gennaio 2022
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