31 marzo 2022

G. PEREC, ELLIS ISLAND. Storie di erranze e di speranze

 


perché raccontiamo queste storie?


che siamo venuti a cercare qui?


che siamo venuti a chiedere?


lontano da noi nel tempo e nello spazio, questo luogo

per noi fa parte di una memoria potenziale,

di un’autobiografia probabile.

i nostri genitori o i nostri nonni avrebbero potuto

trovarcisi

il caso, il più delle volte, li ha fatti restare

o no in Polonia, o li ha fatti fermare,

lungo il cammino in Germania,

in Austria, in Inghilterra o in Francia.


questo destino comune

non ha preso per ciascuno di noi la stessa forma:


quel che io, Georges Perec, sono venuto a interrogare qui,

è l’erranza, la dispersione, la diaspora.

Ellis Island è per me il luogo stesso dell’esilio,

vale a dire

il luogo dell’assenza di luogo, il non luogo, il da nessuna parte.

è in questo senso che queste immagini mi riguardano,

mi affascinano, mi implicano,

come se la ricerca della mia identità

passasse per l’appropriazione di questo luogo-discarica

dove funzionari sfiancati battezzavano

americani a palate.

quel che per me si trova qui

non sono affatto segnali, radici o tracce,

ma il contrario: qualcosa d’informe, al

limite del dicibile,

qualcosa che potrei chiamare reclusione o scissione,

o frattura,

e che è per me molto intimamente e molto confusamente

legato al fatto stesso di essere ebreo


non so con precisione in che consista

l’essere ebreo

che cosa mi comporti l’essere ebreo

è un’evidenza, se si vuole, ma un’evidenza

mediocre, che non mi ricollega a niente;

non è un segno di appartenenza,

non è legato a una credenza, a una religione,

a una pratica, a un folklore, a una lingua;

si tratta piuttosto di un silenzio, un’assenza,

una domanda, una messa in questione, un’incertezza,

un’inquietudine:


una certezza inquieta,

dietro la quale si profila un’altra certezza,

astratta, pesante, insopportabile:

quella di essere stato designato come ebreo,

e poiché ebreo vittima,

e di dovere la vita soltanto al caso e all’esilio


sarei potuto nascere, come i cugini vicini o lontani,

a Haifa, a Baltimora, a Vancouver

sarei potuto essere argentino, australiano, inglese o svedese

ma nel ventaglio pressoché illimitato di queste

possibilità,

una sola cosa mi era espressamente vietata:

quella di nascere nel paese dei miei antenati,

a Lubartow o a Varsavia,

e di crescervi nella continuità di una tradizione,

d’una lingua, d’una comunità.


Da qualche parte, io sono straniero a qualcosa di me stesso;

da qualche parte, io sono “diverso”, ma non diverso dagli altri, diversi dai “miei”: non parlo la lingua parlata dai miei genitori, non condivido nessuno dei ricordi che erano i loro, qualcosa che apparteneva a loro, che faceva sì che fossero proprio loro, la loro storia, la loro cultura, la loro speranza, non mi è stato trasmesso.


Il mio sentimento non è quello di aver dimenticato,

ma quello di non aver mai potuto apprendere


Georges Perec


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