perché raccontiamo queste storie?
che siamo venuti a cercare qui?
che siamo venuti a chiedere?
lontano da noi nel tempo e nello spazio, questo luogo
per noi fa parte di una memoria potenziale,
di un’autobiografia probabile.
i nostri genitori o i nostri nonni avrebbero potuto
trovarcisi
il caso, il più delle volte, li ha fatti restare
o no in Polonia, o li ha fatti fermare,
lungo il cammino in Germania,
in Austria, in Inghilterra o in Francia.
questo destino comune
non ha preso per ciascuno di noi la stessa forma:
quel che io, Georges Perec, sono venuto a interrogare qui,
è l’erranza, la dispersione, la diaspora.
Ellis Island è per me il luogo stesso dell’esilio,
vale a dire
il luogo dell’assenza di luogo, il non luogo, il da nessuna parte.
è in questo senso che queste immagini mi riguardano,
mi affascinano, mi implicano,
come se la ricerca della mia identità
passasse per l’appropriazione di questo luogo-discarica
dove funzionari sfiancati battezzavano
americani a palate.
quel che per me si trova qui
non sono affatto segnali, radici o tracce,
ma il contrario: qualcosa d’informe, al
limite del dicibile,
qualcosa che potrei chiamare reclusione o scissione,
o frattura,
e che è per me molto intimamente e molto confusamente
legato al fatto stesso di essere ebreo
non so con precisione in che consista
l’essere ebreo
che cosa mi comporti l’essere ebreo
è un’evidenza, se si vuole, ma un’evidenza
mediocre, che non mi ricollega a niente;
non è un segno di appartenenza,
non è legato a una credenza, a una religione,
a una pratica, a un folklore, a una lingua;
si tratta piuttosto di un silenzio, un’assenza,
una domanda, una messa in questione, un’incertezza,
un’inquietudine:
una certezza inquieta,
dietro la quale si profila un’altra certezza,
astratta, pesante, insopportabile:
quella di essere stato designato come ebreo,
e poiché ebreo vittima,
e di dovere la vita soltanto al caso e all’esilio
sarei potuto nascere, come i cugini vicini o lontani,
a Haifa, a Baltimora, a Vancouver
sarei potuto essere argentino, australiano, inglese o svedese
ma nel ventaglio pressoché illimitato di queste
possibilità,
una sola cosa mi era espressamente vietata:
quella di nascere nel paese dei miei antenati,
a Lubartow o a Varsavia,
e di crescervi nella continuità di una tradizione,
d’una lingua, d’una comunità.
Da qualche parte, io sono straniero a qualcosa di me stesso;
da qualche parte, io sono “diverso”, ma non diverso dagli altri, diversi dai “miei”: non parlo la lingua parlata dai miei genitori, non condivido nessuno dei ricordi che erano i loro, qualcosa che apparteneva a loro, che faceva sì che fossero proprio loro, la loro storia, la loro cultura, la loro speranza, non mi è stato trasmesso.
Il mio sentimento non è quello di aver dimenticato,
ma quello di non aver mai potuto apprendere
Georges Perec
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