CONTRO CHI SEMINA MORTE
Diceva Danilo Dolci: "è disonesto usare i soldi dello Stato, che sono anche miei, per seminare morte." (Banditi a Partinico, Laterza 1955, Prefazione di Norberto Bobbio)
E, secondo
Danilo, non erano tanto i “banditi “ a seminare morte quanto lo Stato. (fv)
Alla luce di un recente fatto di cronaca secondo il quale la maggioranza degli studenti di una scuola di Partinico ha respinto la proposta di intestare la stessa Scuola a Peppino Impastato, mi sembrano tornate attuali le parole che ho usato, qualche lustro fa, in occasione della riedizione di un gran libro di DANILO DOLCI: BANDITI A PARTINICO
Banditi a Partinico, ieri e oggi
di Francesco
Virga
E’ stato finalmente ristampato dall’ Editore Sellerio di Palermo un libro
di Danilo Dolci degli anni cinquanta, difficile da trovare perfino nelle
maggiori biblioteche.
Il libro “scritto dalle cose e da tutti”, come Danilo amava definire i suoi
libri-inchiesta, si articola in due parti. La prima, corredata anche da sommari
dati statistici, ha il carattere dell’analisi sociologica che documenta lo
stato di miseria e di abbandono in cui viveva gran parte della popolazione tra
Partinico e Trappeto in quegli anni. La seconda, più descrittiva ed
emotivamente coinvolgente, raccoglie alcune esemplari storie di vita di persone
residenti nella zona che raccontano, con il loro povero ma espressivo
linguaggio, le loro amare esperienze ( alcune di queste storie saranno
successivamente riprese in Racconti siciliani).
Ci pare utile riproporre dei passi della Prefazione di Norberto Bobbio alla
prima edizione che aiutano a capire la forza d’impatto che ebbe il libro:
“Vorrei
che queste pagine fossero lette da tutti coloro che, in Italia, hanno una
cattedra o un pulpito, e se ne servono per esaltare glorie nazionali magari
remote o per flagellare terribilmente i vizi dei cattivi cristiani. Sono pagine
che scuotono sia la pigra sicurezza dei ripetitori compiaciuti di formule
patriottiche sia il sussiego moralistico degli accusatori secondo le leggi
stabilite. (…) Quante volte ciascuno di noi ha rimuginato un lungo e complicato
discorso sulla situazione della nostra società e delle nostra cultura, e sui
rapporti tra questa società e questa cultura, quali si sono rivelati in modo
drammatico negli anni dopo la caduta del fascismo. Queste pagine di Danilo
Dolci lo abbreviano singolarmente, portandoci in mezzo alle cose, a quelle cose
che non conoscevamo o volevamo non conoscere o fingevamo di non conoscere. E
sono, da un lato, la miseria, la fame, la follia, la disperazione di un piccolo
quartiere di una cittadina della Sicilia; dall’altro, l’indifferenza,
l’incuria, il cinismo, la prepotenza di coloro, grandi e piccoli, che reggono
le sorti dello Stato. Sono due facce della stessa medaglia .”
Le belle ed appassionate parole di Bobbio, oltre a fornire la chiave per
leggere nel modo migliore l’opera dell’anomalo sociologo triestino, sono
preziose anche per ricostruire il dibattito culturale di quel tempo:
“Per molti di noi il crollo del fascismo e la guerra di liberazione sono stati
l’occasione per la scoperta di un’Italia segreta e nascosta, dell’Italia non
ufficiale, di cui la cultura dominante, tutta affaccendata in polemiche
filosofiche o ideologiche o di scuola ( contro il positivismo, contro il
pragmatismo, contro l’irrazionalismo, contro l’attivismo e via con mille altri
nomi astratti) ci aveva poco o nulla parlato, e di cui la politica dei politici
aveva spudoratamente negato l’esistenza. Si cominciò a guardare l’Italia non
più dall’alto in basso, ma di sotto in su, dal punto di vista dei poveri, dei
diseredati, degli oppressi, di coloro che non erano mai stati protagonisti di
storia etico-politica, (…) per la semplice ragione che le loro gesta o non
valevano la pena di essere narrate o se venivano tramandate non era attraverso
quel segno dell’individuazione che è il nome proprio, ma attraverso nomi
collettivi come contadini, braccianti, plebe, massa, soldati, banditi. Proprio
per questa scoperta il Cristo si è fermato a Eboli ebbe quella risonanza e
quell’influsso che ognuno oggi è disposto a riconoscergli, ed ha un’importanza
non soltanto letteraria ma storico-culturale o politica (…).”
Certamente tanta acqua è passata sotto i ponti da allora. Partinico e la
Sicilia non sono più quelli descritti da Danilo Dolci mezzo secolo fa. Non
esiste più la fame e la miseria di allora. Persistono, comunque, tante altre
forme di miseria e, soprattutto, insieme all’immarcescibile sistema di potere
clientelare-mafioso, di cui un illustre storico aveva incredibilmente
annunciato la fine solo qualche anno fa, sopravvive una classe dirigente (e non
mi riferisco solo alla classe politica) parassitaria, arrogante e insipiente
che mostra ogni giorno di più di non essere all’altezza del suo compito.
Danilo Dolci, triestino, si trasferì in Sicilia agli inizi degli anni
Cinquanta. Voleva partecipare in prima persona alla rinascita del Meridione.
Partì, solo, per Trappeto e Partinico, scoprì una miseria impensabile, una
desolazione, un abbrutimento, una ignoranza che facevano dubitare di stare in
Italia. Stava in mezzo alla gente, la intervistava, la coinvolgeva: fu il primo
in Italia a praticare il digiuno per richiamare l'attenzione dell'opinione
pubblica e inventò "lo sciopero alla rovescia", che consisteva nel
lavorare volontariamente là dove lo Stato era inerte. Così venne riattivata una
strada comunale abbandonata. Ma le autorità ritennero che in tale comportamento
si configurasse un reato, quello di invasione di proprietà altrui. Per questo
Dolci fu arrestato e detenuto per 50 giorni, condotto in manette al processo, e
condannato. Per lui si mobilitarono intellettuali come Carlo Levi, Elio
Vittorini, Ignazio Silone, Aldo Capitini, Giulio Einaudi e a difenderlo in
tribunale fu Piero Calamandrei. In carcere Dolci fu a stretto contatto con
tanti poveracci e fu fra i primi a comprendere che la propensione alle attività
criminali proprio in quei tenitori che erano dominati dalla mafia, non poteva
essere vinta puntando esclusivamente sulla repressione. Bisognava invece creare
opportunità di lavoro. Con questo libro Dolci voleva far conoscere a tutti le
condizioni in cui versava la popolazione di quella terra di banditi, cioè di
esclusi dalla società.
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