ESSERE STREGHE. ANCORA, PER NOI TUTTE
di Nicoletta Vallorani
“Perciò, in qualità di sorella Strega, ti chiedo di parlare alle mie
percezioni”. È la conclusione di una lettera che Audre Lorde aveva mandato Mary
Daly (1928-2010) – filosofa e teologa, femminista radicale, lesbica, bianca –
dopo la pubblicazione di Gyn/Ecology: the Metaethics of Radical
Feminism (1978). Non aveva ricevuto risposta, perciò la lettera era
diventata una interpellazione aperta. Oggi la si può leggere in Sister
outsider. Essays and Speeches (1984), pubblicato in Italia come Sorella
outsider. Scritti politici (2014), per la cura del Gruppo Ippolita.
Nel testo, Lorde rende esplicita la differenza tra femminismo bianco e nero, e
contestualmente fa un punto importante: nel ragionamento sulla pratiche di
pressione che caratterizzano i miti cristiani e nella conseguente
rivendicazione dell’esistenza di una dea in luogo del dio padre, Daly esclude
interamente il pantheon africano. Non ci sono “Afrekete, Yemanje, Oyoe,
Mavulisa”, che Lorde cita esplicitamente, e le innumerevoli figurazioni
femminili la cui assenza di fatto azzera l’eredità culturale e storica delle
donne nere.
Eppure Daly resta una “sorella Strega”.
In inglese il termine usato è “hag”, che è diverso da “witch”. Esso
accentua la non conformità attiva, include la furia, abbraccia la femminilità
assertiva che tanto spaventa, ieri come ora. E ieri è anche l’8 marzo del 1972,
quando a Campo de’ Fiori si radunano più di ventimila donne, e gridano,
appunto, “Tremate, tremate, le streghe son tornate”. Il posto non è un caso: è
la piazza dove l’inquisizione ha arso al rogo lo spirito ribelle Giordano
Bruno, e mi pare che sia anche l’unica di Roma dove non c’è una chiesa.
Dunque, quel giorno, succede che le donne si (ri)scoprano sorelle, e si
approprino di quella che fino a quel momento è stata una maledizione tutta
femminile. Essere streghe. Tornare come streghe. Porsi cioè consapevolmente
come corpi non conformi che si comportano in modo inopportuno,
autodesignandosi, secondo il pensiero comune, come vittime designate. Le donne
della mia generazione se lo ricordano, anche se la rivolta è sfumata pian
piano, senza che ce ne accorgessimo troppo: come Atwood fa dire alla sua protagonista
in The Handmaid’s Tale (1985), “I was asleep. That’s how I let
it happen”. Dormivamo e abbiamo permesso che accadesse: la rivalsa del
patriarcato, la riproposta delle donne come creature che “invitano” lo stupro,
l’abuso, l’omicidio e quella morte lenta che è la cancellazione delle
opportunità.
Ora invece succede che dormire non è più possibile. Il filo del tempo si
riavvolge, includendo tutte le differenze di tempi e luoghi, ma anche
riconoscendo le tragiche analogie che ancora segnano il destino delle donne. Lo
pensavo il 26 febbraio scorso, alla prima uscita pubblica di #Unite. Azione
letteraria, l’idea partita da Giulia Caminito e Annalisa Camilli dopo
l’assassinio di Giulia Cecchettin. Quel femminicidio è stato uno spartiacque in
molti modi, nonostante l’eterno ripetersi del medesimo, inaccettabile rituale.
Che cosa ha fatto la differenza? Ci riflettevo mentre, il 26 febbraio,
#Unite, cercavamo di dar forma a una mobilitazione condivisa tra donne di
generazioni diverse – Daria Bignardi e io, e poi le altre più giovani:
Francesca Coin, Irene graziosi, Marta Perego, Ilaria Rossetti, Raffaella
Silvestri, Irene Soave – raccogliendo il bandolo della matassa di
considerazioni che Caminito e Camilli hanno cominciato ad avvolgere intorno e
tra noi, in una tessitura di contiguità capaci di conservare preziose differenze.
Credo che siano state le parole di Elena Cecchettin a ridisegnare il
quadro. “Bruciate tutto”: è una dichiarazione potente e rischiosa. Non so se
fosse una chiamata all’azione. Per me, per certo, lo è stata. Si è
tradotta, subito, nel rifiuto del minuto di silenzio che sempre si dedica ai
morti, per poi sentirsi assolti, accantonare il fatto e le cause, non fare
nulla. Da donne, in questo essere definite vittime designate, accoglienti
per definizione e subalterne per natura, a volte si diventa fataliste. E,
scrive Paul Gilroy riferendosi ad altre morti inaccettabili, “i fatalisti
accettano che non si possa far nulla per cambiare il futuro, perciò non fanno
nulla” (“Antiracism. Blue Humanism and the Black Mediterranean”, 2021).
Invece Elena Cecchettin non è stata fatalista; al contrario, ha richiamato
l’azione e spezzato il silenzio. È stata attaccata da molte e molti per questo.
Si è comportata in modo non conforme, non adeguato, inatteso e pertanto
inaccettabile. Ha fatto cioè quello che facevano le streghe: non tacevano.
Silvia Federici le racconta come creature nate per essere bruciate (Calibano
e la strega, 2016), per poi ragionare su come si debba reagire a questa
nuova ondata di violenza che ci definisce oggi (Caccia alle streghe, guerra
alle donne, 2020). Le streghe sono da sempre creature inafferrabili, di
fuoco e d’acqua. Un’ordalia antica prevedeva che la donna sospettata di essere
un’entità malevola venisse legata a una sedia e buttata in un fiume.
Se rimaneva a galla, era una strega, e quindi veniva bruciata a morte.
Se affondava, era innocente, e da innocente moriva.
Fuoco e acqua erano le coordinate della pena, mortale comunque, e scritta
nel corredo genetico delle donne ribelli. Credo che quello che sta prendendo
forma in alcuni femminismi di oggi, e quello che è il tempo giusto per fare,
sia un movimento di riappropriazione, una rinascita che si avvia a partire
dagli strumenti della punizione: il fuoco e l’acqua.
Nell’album elettronico The Quest (1997), i Drexciya – duo
di musica elettronica americano dalle intuizioni brevi e folgoranti – tornano
al mare come luogo di una forma di resistenza acquatica nato dal “più grande
olocausto della storia”. Nelle note di copertina si legge la visionaria ipotesi
che le donne africane gravide gettate in mare durante il travaglio perché
fastidiose abbiano dato alla luce bambini3 acquatic3, una nuova specie capace
di sopravvivere anche all’annegamento. Alexis Paulin Gumbs, nel testo di poesia
straziante e consolatoria che è Undrowned (2020), riprende il
filo di questo ragionamento e rivendica la necessità di un respiro collettivo,
in grado di attraversare il tempo e impegnare le donne nere di oggi a
riprendersi quello che hanno perduto in un annegamento di massa mai finito,
“nel quale la distanza dell’oceano significava che le persone potevano
diventare proprietà, che la vita poteva essere messa in vendita”. Corpi non
conformi anche oggi, le donne – e le donne nere in particolare – sono sempre
costrette a respirare contro, a procurarsi aria quando essa viene
negata. Parlano risparmiando il fiato, ma non si rassegnano a tacere.
Non tace neanche Elena Cecchettin. Parla, non flirta per il dolore e con
l’oppressione, richiama l’azione. Fa lo stesso Audre Lorde quando, nel suo
intervento al convegno dell’MLA lesbiche e letteratura (1977), reclama
“la trasformazine del silenzio in linguaggio e azione”.
Questo conferisce senso al nostro ritrovarci, come donne e diverse in un
territorio condiviso, dentro un’azione – letteraria e non – che renda visibili
il nostro non uniformarci a un sistema di aspettative per lo più mortificanti,
sanzionatorie, vittimizzanti in pratica e simbolicamente.
In verità vi è poco di simbolico nell’ennesima morte che si verifica il
giorno stesso del nostro incontro per #Unite. Maria Battista Ferreira viene
uccisa dall’ex compagno nel pomeriggio inoltrato del 26 febbraio del 2024
mentre noi parliamo di violenza contro le donne. E il 27 febbraio la stessa
sorte tocca a Sara Buratin.
Per questo, sempre riprendendo le parole di Lorde, “Il nostro lavoro è
diventato/ più importante/ del nostro silenzio” (1978). E l’atto stesso di
respirare insieme è una pratica di presenza. Perciò siamo qui, respiriamo
insieme, parliamo.
E non abbiamo intenzione di andarcene.
Articolo ripreso da https://www.leparoleelecose.it/?p=48850 8 marzo 2024
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