“POESIA E VERITÀ – 1942” DI PAUL ÉLUARD, UN VIAGGIO NEL TEMPO E NELLO SPAZIO
Poesia e storia
“Fate fogli di poesia, poeti!” predicava Antonio Leonardo Verri in un manifesto poetico di metà Novecento, creato per riaccendere le coscienze assopite. Eppure, certa poesia, nel tempo, ha militato con lo stesso coraggio e la stessa audacia di altre forme di azione apparentemente più concrete.
La ripubblicazione, in Italia, di Poesia e verità – 1942 di Paul Éluard (pseudonimo di Paul-Eugene Grindel), a cura di Fabio Scotto per Passigli (2023), in un momento storico-politico internazionale così difficile e doloroso è, probabilmente, anch’essa un messaggio pregno di significati.
Rileggere un autore incisivo come Éluard consente, come spiega Scotto, di ripercorrere e rielaborare ciò che è stata la prima metà del Novecento europeo tra i conflitti mondiali, le avanguardie e le loro aree di ricerca che si protraggono fino noi e, naturalmente, il Surrealismo che non ci ha mai del tutto abbandonati, quanto meno nei suoi echi fondanti e più immediati.
Già dall’inizio della storia di scrittura di Éluard appare la poesia ciclostilata, forma che ha rappresentato varie tipologie di rivendicazioni (come quella operaia, anche in Italia), ma sarà con Poésie et vérité 1942 (il cui titolo riprende l’autobiografia di Goethe) che il poeta francese, una volta costretto alla clandestinità, assisterà alla diffusione a livello mondiale della sua opera in edizioni anonime.
Sarà la R.A.F. a lanciare dall’aereo i volantini ciclostilati con le sue poesie, una pioggia di poesie libertarie sui Paesi occupati, poesie di Resistenza. Che un poeta fosse così politicamente schierato, proprio attraverso la sua opera letteraria e fino a rischiare la vita, appare oggi eccezionale e, forse, anche incredibile.
Surrealtà nella realtà
Ai tempi di Poesia e verità 1942, Éluard aveva interrotto, sia per motivi politici che per ragioni ideologico-artistiche, la sua adesione al Surrealismo (termine già adoperato da Guillaume Apollinaire, anche se in accezione parzialmente diversa da quella del suo fondatore) e ai Manifesti di Breton, pur non tralasciando mai quel suo tipico abbandono al libero “dettato del pensiero”. D’altronde, come ha scritto Guido Neri nel 1966 nella prefazione ai Manifesti del Surrealismo di André Breton riguardo all’omonima esperienza culturale francese, “il rischio, oggi, più ancora che di relegarla tra i valori scontati in una storicizzazione sommaria, sia quello di lasciarci prendere di sorpresa dalla sua aderenza alle preoccupazioni culturali del momento che viviamo, in una parola, della sua attualità[1]”.
L’immaginazione, per questo movimento, viene riabilitata alla sua dignità di libera creatrice di forme e contenuti, avallando l’indagine di Freud sui sogni e parificando arti e scienze come vie egualitarie di scoperchiamento delle “profondità del nostro spirito”.
Breton credeva nella possibilità di soluzione della dicotomia tra realtà e sogno, proprio attraverso la “surrealtà”, una sorta di combaciamento dei due piani dell’esistenza e della loro percezione, nonché della loro narrazione: “Per oggi, penso a un castello che non è necessariamente mezzo diroccato: quel castello mi appartiene, lo vedo in un sito campestre, poco lontano da Parigi. Le sue adiacenze non finiscono mai, e quanto all’interno, è stato terribilmente restaurato, in modo da non lasciar niente da desiderare dal punto di vista del comfort. Davanti alla porta, nascosta dall’ombra degli alberi, stanno ferme delle macchine. Alcuni miei amici hanno preso dimora; ecco Louis Aragon che se ne va; ha appena il tempo di salutarvi; Philippe Soupault s’alza con le stelle e Paul Éluard, il nostro grande Éluard, non è ancora rientrato”. Questa immagine pensata da Breton, però, è precedente al loro allontanamento, e al periodo in cui Éluard scrive Poesia e verità, benché, come già detto, la pratica dell’immersione assoluta nella propria forza psichica tradotta in linguaggio abbia continuato a caratterizzare le sue opere.
Poesia come forma della politica
Chiaro e dichiarato era lo scopo della poesia di e per Éluard: “ritrovare, per nuocere all’occupante, la libertà d’espressione. E ovunque in Francia si rispondano voci che cantano per coprire il greve mormorio della bestia, perché i vivi trionfino, perché scompaia la vergogna”.
L’incalzante tensione anaforica della prima poesia, Libertà, delinea un climax in cui l’io autoriale dimostra la sua capacità di diventare plurale, estensibile, riuscendo ad unire in senso circolatorio il mordente civile e l’afflato pur sempre intimistico, umano: “Sui miei rifugi distrutti/Sui miei fari crollati/Sui muri della mia noia/Io scrivo il tuo nome”.
Le immagini prorompenti e, insieme, delicatamente argute, gli slittamenti semantici, le metafore e le allegorie spiazzanti, le seppur rarefatte somiglianze con l’haiku giapponese di alcuni testi, l’assenza di punteggiatura, la presenza di qualche rima che rimarca il verso, la fascinazione per l’anafora e l’asindeto che rendono le poesie insistenti, persistenti e profondamente resistenti sono soluzioni letterarie non solo formali.
L’eleganza degli accostamenti di soggetti, situazioni e cose produce nel lettore, all’interno della coerenza del climax, uno stupore sempre diverso da cui talvolta si sprigiona il senso della speranza, talaltra quello della tragedia. Nella maggior parte dei casi, alla fine delle poesie di Éluard è proprio il senso più profondo del dramma che dà luogo a una luce sbieca, trasversale.
Il conflitto del momento amoroso-privato si compenetra con quello esterno, pubblico e violento, il nemico è un nemico perpetuo perfino quando si riesce a identificarlo e, quindi, è un nemico storico, atavico, certamente esterno ma anche interiore.
“Quasi nessuno fra i poeti del Novecento, con l’eccezione di Majakovski, mostra però, ancora oggi, tanta duplicità sotto un’apparenza tanto unitaria”, scrive Franco Fortini nella prefazione a Poesie di Éluard per Mondadori (1970).
Poesia militante, contemporaneamente civile e amorosa: “Non a tutti è dato conoscere la verità sempre latente dell’amore e provarsi che in questo tipo di rapporto con un altro essere sta adombrato, come venuto a noi da età precedenti la storia, un rapporto con qualsiasi altro essere; verità che nella storia a noi nota si farà sempre più evidente quanto più proprio quella storia comincerà a deperire. (…) Éluard ha cercato di chiamare la rivoluzione con il nome del suo amore”.
Poesia, amore, eros, sogno e politica
I titoli scelti in Poesia e verità hanno un valore parzialmente didascalico che serve a orientare chi legge all’interno di scenari non sempre identificabili, e sembrano accennare anche a una radice di ironia oscura.
Si possono rintracciare varie misure del verso, e una sorta di scansione epigrammatica all’interno delle strofe che riproduce un ritmo serrato, con il fiato alto. L’explicit finale dei testi, spesso, sembra invertire il contesto, parlare d’amore in campo di battaglia o di guerra (o caccia, tra predatori e prede tra loro interscambiabili) nell’intimità della passione.
Ciascun ambiente semantico-concettuale viene spinto fino al suo estremo ed esonda in altro, i simboli si rincorrono tra di loro scambiandosi i profili di riconoscibilità (da qui, si evincono le derivazioni dal simbolismo). D’altronde, così avviene nei sogni: le sovrastrutture coscienti si sgretolano, e molte cose impossibili diventano possibili e spaventose.
L’accenno ai dettagli, agli elementi minimali e semplici, così come alle piccole e alle grandi cose, presentati in profili eterei e volutamente evanescenti, diventano robusti e vivaci, materici perfino nell’assurdità dei contesti suggeriti: “Una rosa scorticata illividisce”. E l’assenza di punteggiatura nella scrittura in versi (la punteggiatura era già invisa a Breton in quanto creatrice di interruzioni razionali alla continuità del flusso psichico da cui si sprigionano libere associazioni di idee), lascia intravedere una corrente di espressione pura, magmatica, a volte anche pacificatoria del contrasto: “voi siete al servizio delle forze inventate”.
La memoria, il ricordo, la storia sono perennemente presenti e convocati assieme a esperienze reali, personali tanto da essere credibili ma collettive abbastanza da poter appartenere a chiunque.
E il poeta lo afferma chiaramente: “parlo ad alta voce vedo chiaro e ardo”, così da riuscire a scrivere perle di rara lucentezza e, insieme, di grande durezza, il cui valore si può cogliere d’istinto, a prescindere da qualsiasi interpretazione razionale: “Sento lo spazio abolirsi/E il tempo crescere in tutti i sensi”.
E i poeti, oggi?
E se secondo Éluard e la sua utopia irrealizzabile, “La solitudine dei poeti, oggi, si cancella. Ecco che sono uomini tra gli uomini, ecco che sono fratelli[2]”, oggi che di poeti ce ne sono tantissimi ma il poeta non è mai stato così solo (“Nessuno ha nome né impero”), rimane forse un’ultima lezione éluardiana a illuminare la volontà di continuare a scrivere e, cioè, quella possibilità che la poesia possa ancora far coincidere lo spazio politico con quello linguistico e quello esistenziale nell’attimo di un respiro lungo tutta la storia.
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[1] André Breton, Manifesti del Surrealismo, introduzione di Guido Neri, Einaudi 2003.
[2] Paul Éluard, L’évidence poètique.
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