Leonardo #Sciascia “L'affaire Moro” Sellerio editore, 1978, p.14.
Aldo #Moro e Pier Paolo #Pasolini durante la proiezione del film “Edipo re” nella XXVIII edizione della Mostra di Venezia, settembre 1967Graziano Arici/Archivio Arici/Tutti i diritti riservati
Pezzo ripreso da CITTA' PASOLINI
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2. Un mio articolo dell'anno scorso
Rileggere “L’Affaire Moro” di Leonardo Sciascia
«Lo Stato italiano è resuscitato. Lo Stato è vivo, forte, sicuro e duro. Da un secolo, da più che un secolo, convive con la mafia siciliana, con la camorra napoletana, col banditismo sardo. Da trent’anni coltiva la corruzione e l’incompetenza disperde il denaro pubblico in fiumi e rivoli di impunite malversazioni e frodi» [1] (L. Sciascia, L’affaire Moro, Sellerio 1978: 63).
L’affaire Moro di Leonardo Sciascia viene pubblicato nell’autunno del 1978, qualche mese dopo l’orribile strage della scorta di Aldo Moro, del suo sequestro e successivo assassinio. Il libro viene letto distrattamente da tanti (me compreso) e stroncato da due grandi giornalisti [2]. Apparve frutto di una mente delirante dopo che stampa e tv erano riuscite a convincere l’opinione pubblica che le lettere di Moro non erano state scritte da Moro.
Rileggerlo dopo 44 anni scuote più di quanto non riuscì a fare nel momento in cui vide la luce. Adesso che si sa molto di più sull’accaduto, dopo diversi processi penali, inchieste parlamentari e tanti libri [3] pubblicati sul tema, appare ancora più straordinaria questa singolare opera di Sciascia. Anche se non tutto convince, come vedremo più avanti, impressiona ancora oggi l’acuta e originale analisi delle lettere di Moro compiuta dallo scrittore siciliano [4], in assoluta solitudine, quando tanti preferirono chiudere occhi e cervello.
Sciascia finisce di scriverlo, come si evince dalla data del dattiloscritto, il 24 agosto del 1978. Convinto di avere una bomba in mano, arriva persino a dubitare di poterlo stampare in Italia. Per questa ragione, prima ancora di parlarne con l’editore palermitano Sellerio, si reca a Parigi per accertare che l’editore Grasset sia disponibile a stamparlo in lingua francese.
Appare utile, per meglio comprendere L’affaire Moro, tenere presente il contesto che lo prepara: nel maggio 1977, presso la Corte di Assise di Torino, inizia il processo contro Renato Curcio e alcuni presunti capi storici delle Brigate rosse. Nell’occasione alcuni membri della giuria popolare rinunciano al mandato di giudicare gli imputati. Pochi giorni dopo, in un’intervista, Eugenio Montale ne giustifica il comportamento condividendo il sentimento di insicurezza dominante in quel periodo in Italia. Si avvia così un’aspra polemica giornalistica circa il coraggio e la viltà degli intellettuali che avrà in L. Sciascia e in G. Amendola i contendenti maggiori [5].
Qualche mese prima, esattamente nel febbraio 1977, all’Università di Roma viene contestato il leader sindacale Luciano Lama; nel mese successivo, dopo un violento scontro tra studenti e polizia nel centro di Bologna, viene ucciso il militante di Lotta Continua Francesco Lorusso. Sono questi, sommariamente, gli esiti più drammatici del cosiddetto Movimento del ‘77 che, tra strette repressive della magistratura inquirente, chiusura di radio sospette di fomentare l’illegalità, si protrarrà per almeno un biennio. Di un tale clima è frutto l’Appello degli intellettuali francesi del luglio 1977, in cui si chiede la «liberazione immediata di tutti i militanti arrestati, la fine della persecuzione e della campagna di diffamazione contro il movimento e la sua attività culturale». L’Appello – predisposto da Maria Antonietta Macciocchi già direttrice del periodico comunista degli anni sessanta Vie Nuove, dove Pasolini scrisse alcuni dei suoi pezzi più belli – viene sottoscritto, tra gli altri, da J. P. Sartre, M. Foucault, R. Barthes, G. Deleuze e F. Guattari.
In questo contesto Sciascia scrive il libro che arriva in tutte le librerie italiane e francesi nell’ottobre del 1978. Oggi sarebbe stato considerato un instant book perché il suo contenuto riguarda quanto accaduto in Italia nei 55 giorni del sequestro Moro, dopo la strage della scorta, avvenuta a Roma il 16 marzo 1978.
A prima vista siamo di fronte ad un pamphlet, il cui titolo richiama immediatamente alla memoria il celebre libretto di Emile Zola che tanto clamore suscitò alla fine dell’Ottocento. Ma basta leggerne le prime righe per capire che si tratta di ben altro. I primi due capitoli, i più letterari dell’opera, sono dominati e illuminati da due scrittori particolarmente amati dallo scrittore siciliano: Pasolini e Borges.
Come ha ben visto Massimo Onofri siamo di fronte a un libro profondamente sciasciano: in esso convergono «quella contro-storia d’Italia tracciata dalle Parrocchie in poi» e il dialogo con la tradizione letteraria universale (Borges, Manzoni, Tolstoj, Stendhal, per citare solo alcuni dei nomi a lui più cari), intesa come «sistema trascendentale, repertorio di possibilità, della verità» [6]. Acuta ci appare anche la lettura che ne ha fatto il critico più amato dall’autore, Claude Ambroise, secondo cui il libro è un vero e proprio saggio sulla tragedia e sugli equivoci generati dal linguaggio e dalla comunicazione umana [7]. D’altra parte, in quasi tutti i libri di Sciascia, si sono sempre intrecciati generi diversi. Ma in questo lo stile saggistico prevale nettamente su quello narrativo.
Il prologo pasoliniano
Nelle prime sei pagine de L’affaire Moro Sciascia riprende letteralmente brani interi del famoso articolo Il vuoto di potere in Italia, pubblicato da Pasolini sul Corriere della Sera il 1° febbraio 1975, raccolto successivamente nei suoi Scritti corsari col titolo L’articolo delle lucciole. E sembra che sia stata proprio una lucciola intravista nella crepa del muro della sua casa di campagna, alla Noce di Racalmuto, a fargli tornare alla mente Pasolini:
«Era proprio una lucciola […]. Ne ebbi una gioia immensa. E come doppia. [...]. La gioia di un tempo ritrovato – l’infanzia, i ricordi, […] – e di un tempo da trovare, da inventare. Con Pasolini. Per Pasolini. Pasolini ormai fuori del tempo ma non ancora, in questo terribile paese che l’Italia è diventato, mutato in se stesso […]. Fraterno e lontano, Pasolini per me. Di una fraternità senza confidenza, schermata di pudori e, credo, di reciproche insofferenze» [8].
L’amicizia tra Pasolini e Sciascia nasce nei primi anni cinquanta del secolo scorso. Un’amicizia scaturita dal comune interesse per le diverse forme della poesia popolare e dialettale nazionale. Non a caso sarà proprio Pasolini a introdurre uno dei primi libri dello scrittore siciliano dedicato alla poesia romanesca e quest’ultimo ad ospitarlo nella rivista nissena “Galleria” nei primi anni cinquanta. L’intesa e la reciproca collaborazione tra i due scrittori si allenta negli anni sessanta per riaccendersi nel decennio successivo, fino agli ultimi giorni di vita di Pasolini. Da qui deriva il rammarico espresso da Sciascia di non aver fatto abbastanza per mostrare all’amico quanto egli si sentisse vicino al suo modo di pensare [9].
Le lucciole conducono Sciascia a ripensare all’altra famosa metafora pasoliniana: il Palazzo. Pasolini voleva processare il Palazzo, ossia la classe dirigente democristiana, responsabile ai suoi occhi di aver manipolato il denaro pubblico, di aver trafficato con la mafia, di avere distrutto il paesaggio e di aver fatto un uso illecito dei Servizi Segreti, coprendo i responsabili delle stragi di Milano, Brescia. Pasolini arriverà a chiedere un vero e proprio «processo penale» contro i dirigenti nazionali della DC [10].
Potete continuare a leggere il mio articolo che, come hanno detto tanti, è un piccolo saggio sulla rivista on line, accessibile da tutti gratuitamente, DIALOGHI MEDITERRANEI
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