SULLA LUNA NON C’È NIENTE: BIANCIARDI IN MOSTRA
Pezzo ripreso da https://www.minimaetmoralia.it/wp/fotografia/sulla-luna-non-ce-niente-bianciardi-in-mostra/
Raccontare Luciano Bianciardi, per chi
lo ha letto, per chi ha provato a capirlo, per chi si è sentito precario e
insofferente dentro le sue pagine, può essere un’operazione complessa. E
mastodontica. Come osserva giustamente Gian Paolo Serino in Luciano
Bianciardi. Il precario esistenziale (ed. Clichy, 2015), “Il vero
dramma di Luciano Bianciardi è di essere più commentato che letto. Ancora
oggi molti conoscono La vita agra, ma ben pochi l’hanno letto
davvero”. Eppure oggi, una lettura che supera il commento, l’esegesi, la
citazione è possibile grazie all’operazione più che riuscita di una mostra
fotografica intenta proprio a raccontare – a leggere – la vita di
Bianciardi. Il lavoro preziosissimo e dettagliato, potremo dire
archivistico, di chi ha voluto e messo in piedi l’esposizione fotografica Sulla
luna non c’è niente, ha superato di fatto quella presunta inafferrabilità
legata all’icona del sempiterno rivoluzionario. Un percorso illustrativo che
ha visto l’organizzazione coesa della Fondazione Luciano Bianciardi e
del Comitato nazionale per il centenario della nascita di Bianciardi, in
collaborazione con Fondazione Grosseto Cultura – Polo culturale Le Clarisse,
con il supporto di Fondazione CR Firenze e il patrocinio del Comune di
Grosseto.
Come si racconta una vita? Se lo è
chiesto Lucia Matergi, direttrice scientifica della Fondazione Luciano
Bianciardi, che nel bellissimo catalogo della mostra, curato da Sergio
Oriente, Michele Gandolfi e Michele Guerrini (Effigi edizioni), scrive quanto
il dato biografico di Bianciardi invada la sua scrittura, influenzando ogni
racconto, ogni scritto, confondendo la sua esistenza con quella immaginata
altrove, senza interessarsi minimamente – e senza mai far interessare il
lettore – a dividere ciò che è vero da ciò che non lo è. Dunque la fotografia
sembra prestarsi perfettamente all’indagine della vita dello scrittore
grossetano, una vita che scappa a gambe levate da qualsivoglia tentativo
documentaristico, anteponendo l’interpretazione all’oggettività. Tenere a bada
la natura conflittuale e ostinata di Bianciardi rende affannosamente romantica
anche l’idea di labor limae su quella che è stata la sua
vita impressa su pellicola, negli stessi anni in cui ancora doveva capire se
far saltare il sistema o esserne parte integrante.
Sulla luna non c’è niente, che segna l’ultimo atto delle
celebrazioni del centenario della nascita, racchiude in sé una serie di
registri fotografici che dettano al meglio il caleidoscopico vortice che è
stata la vita – purtroppo breve – dello scrittore e giornalista. Chiunque sia
appassionato del racconto di come l’Italia e l’Europa siano mutate dal
dopoguerra al boom economico, può scovare nella narrazione micro e macroscopica
dell’intellettuale toscano una lente per poter osservare al meglio una società che
si stava imponendo come consumistica abbandonando per sempre le proprie radici
contadine, obbligandosi a un falso bisogno di beni superflui fino a diventare
schiava delle necessità. Leggere la mostra fotografica attraverso la lente
degli scritti di Bianciardi è bellissimo, doloroso e divertente al tempo
stesso. Ci troviamo di fronte a un uomo che è un gomitolo di conflitti, e che
sperimenta su di sé tutti quelli del proprio tempo.
Nel percorso espositivo è possibile
scoprire la Maremma natia, dei minatori e dei braccianti, ma anche la Milano
calvinista dell’industria culturale, gli intellettuali ragionieri che parlano
con formule sempre uguali e sempre vuote. Il conflitto tra una mente libertaria
e gli istinti possessivi, la mania per l’eros autentico e il terrore di una
sessualità alienata, il mestiere culturale a cottimo (Bianciardi ha tradotto di
tutto) per pagare le bollette. Un’esistenza che oltre a toccare i vertici della
letteratura, ha potuto sondare i mari della traduzione, portando in Italia
autori come Kerouac, Miller, Behan – le prime edizioni di Sotterranei, Tropico
del Cancro, ragazzo del Borstal – sono esposte come cimeli
di una fortuna che abbiamo avuto e di cui troppo spesso ci siamo dimenticati.
Lo sguardo della mostra cattura tanto il Bianciardi privato – splendidi gli
scatti cittadini che lo ritraggono a passeggio con l’immancabile cappotto
scuro, foto che arrivano in larga parte dalla collezione Sergio Oriente–Enrica
Piscolla – quanto i luoghi fisici e culturali del suo tempo: dalla miniera di
Ribolla e i suoi morti all’invasione della pubblicità nella vita casalinga
delle famiglia, le fotografie esposte contribuiscono al racconto di un
mondo altro da Bianciardi ma che è il mondo
in cui Bianciardi stava diventando lo scrittore che tutti conosciamo.
La mostra si sviluppa in quattro sezioni
che, sfruttando la cronologia degli eventi, attraversa la vita dello scrittore
e in parallelo quella del Paese: se nella prima sala – che titola L’engagé
di Kansas city – si indaga il periodo grossetano della
formazione e dell’impegno civile del Nostro, dal diario di guerra alle
riviste culturali fino al reportage della tragedia di Ribolla assieme a Carlo
Cassola, è nella seconda – Il rivoluzionario dis-integrato –
che la geografia ci porta a Milano. Il progetto dello scrittore rivive
negli scatti dei simboli del potere a cui sia il Bianciardi sia il Bianchi
de La Vita Agra sognano di dare assalto, lo stesso
potere che disegna una città velocissima, preda di nuove necessità, di nuovi
linguaggi e che vede il Nostro passeggiare per le vie grigie di una metropoli
avida e vibratile. Bianciardi è spesso solo nelle foto, gli occhi scrutano il
momento, le dita affusolate si lasciano sempre accompagnare da una sigaretta.
Bianciardi cammina, Bianciardi legge nel suoi studio, Bianciardi scrive a
macchina. La vita agra è davanti ai nostri occhi in tutta la
sua drammatica potenza e, grazie al restauro attuato sul materiale
fotografico, permette all’osservatore di scovare una nuova luce, nel quadro
armonico che si crea tra immagine e parola. Questo senso del recupero legato
tanto al documento quanto alla figura dell’intellettuale assume una valenza di
rinascita, suggerendo come una rilettura profonda dell’opera omnia di un autore
non sia mai sufficiente per rintracciare tutti i punti cardinali di
un’esistenza in preda al furore.
La galleria dal titolo Disseminare,
dissipare offre un biglietto solo andata per il tour interstellare
nella sua multiforme produzione artistica: articoli di costume, focus sulla
mafia, analisi sulla televisione, scritti disincantati sul calcio – Bianciardi
rinunciò all’offerta di scrivere per Il Corriere della Sera preferendogli Il
Guerin Sportivo -, racconti brevi di stampo erotico, e poi il cinema
con Lizzani che trasporta le avventura di Luciano Bianchi sul grande schermo
con la straordinaria interpretazione di Ugo Tognazzi . Traduzioni, giornalismo
culturale, Bianciardi ha scritto di tutto indagando tutto con la stessa dignità
culturale che non ritiene un genere minore di un altro ma anzi tende al
recupero etico di spazi considerati più scadenti dalla intellighenzia del
tempo.
Uno dei primi
oggetti presenti all’interno della galleria è un numero della
rivista New Kent (“mensile per gli uomini”) del marzo 1969,
in cui Bianciardi – inviato spaziale -, pubblica l’articolo La luna è
lontana, sull’allunaggio ad opera degli americani, conquista che non
lo rallegra affatto. Ravvicinata, smitizzata, calpestata, ormai conquistata,
pure lei, Signora Luna, dallo strapotere USA: svanisce così lo spazio
onirico, il mistero che ispira poeti e che illumina i baci degli
innamorati. Luciano desidera un’altra luna, idealizzando una società
egualitaria, democratica, libertaria perché non può esserci progresso senza una
dimensione etica che lo indirizzi al bene collettivo. Ed è proprio l’idea –
utopica! – di una rivoluzione popolare a smuovere, con tenera commozione, la
narrazione conclusiva: Aprire il fuoco è una commovente
dichiarazione d’amore e guerra allo spirito contraddittorio di Bianciardi, alle
sue tribolazioni che faranno da fondamenta alla scrittura del suo ultimo
romanzo pubblicato nel 1969. Le istanze collettive si sono disintegrate di
fronte agli scontri violenti, agli attacchi terroristici, a Piazza
Fontana, alla morti accidentali degli anarchici (toccante il telegramma
inviato a Camilla Cederna che nel 1971 scrisse Pinelli. Una finestra
sulla strage, una raccolta di inchieste sulla morte dell’anarchico, “per
Pinelli sarò sempre con voi”). Si interroga sulle rivoluzioni possibili,
lui che voleva far saltare il palazzone della Montecatini per vendicatori i
minatori morti a Ribolla. Ma si sa, soltanto quando è finita ci si accorge che
una rivoluzione c’è stata, soltanto allora si capisce quando è scoppiata, come
si è svolta, chi ne sono stati i protagonisti, nel pensiero e nell’azione. Per
giunta, chi fa la rivoluzione non si rende ben conto che la sta facendo. E così
nemmeno Luciano deve aver pienamente realizzato lo squarcio che ha disegnato
nel panorama culturale italiano, un taglio così profondo e perfetto, senza
indecisioni, a mano ferma, che ancora oggi si fatica a trovare risposte più
lucide di quelle che ci ha dato nei suoi scritti. L’approdo, il porto sicuro di
quell’avventura durata solo quarantanove anni, diventa il Risorgimento, amato
da bambino, approfondito nuovamente durante l’esilio ligure a Rapallo, con
l’ultimo slancio, quello di aprire ancora una volta il fuoco. Non ci sono foto
di Bianciardi a Sant’Anna, dove aveva comprato casa con Maria e Marcellino, ma
sembra comunque di vederlo, solitario, curvo, con il maglione scuro, la
tosse, la Nazionale sempre accesa, deteriorato in quella solitudine, senza
schianti.
Ogni scatto, ogni pagina, ogni copertina
si trasforma nello sberleffo, nel gioco, nel divertimento ironico che la
spuntano sulle dinamiche disoneste e disumanizzanti della società
contemporanea. Cosa avrebbe detto, cosa avrebbe scritto oggi Bianciardi? Anarchico,
dissacrante, schivo, autodistruttivo, comico, insofferente, un bastian
contrario integrale che ha condensato per tutta la vita la scomodità di ciò che
si dice con la scomodità di come si è. Forse oggi Bianciardi parlerebbe
poco, preferendo dare voce alle aree silenziose delle persone e delle città.
Lo splendido catalogo della mostra
permette di portarsi a casa un po’ di quelle visioni, di quelli scatti nervosi
e nicotinici che incastonano il profilo svelto di un avventuriero della vita
nella memoria collettiva. Tra le molte fotografie che conoscevo e amavo ne ho
scoperto una inedita: è quella che chiude la mostra, è un saluto, forse, che
ritrae Luciano sul bastione Garibaldi a Grosseto. Indossa un un trench chiaro,
è uno scatto sfocato, misterioso che non ci permette di vedere davvero, di
capire cosa tiene in mano Bianciardi, forse una macchina fotografica, forse è
solo l’ombra della propria mano. C’è un sorriso in quel volto? Il braccio semi
alzato accenna un saluto o vuole nascondere quell’identità inaccessibile e
solitaria? Fisso la foto ancora qualche minuto prima che l’aria fredda della
città mi riporti dentro e contro il mondo. Nell’incertezza capisco che qualcosa
non è finito, il vento inizia ad alzarsi, a muovere la silhouette filiforme
degli alberi, eppure si sente ancora un fuoco dentro, un fuoco che brucia ma
che illumina tutto.
Luciano Bianciardi. Sulla luna non c’è niente.
Polo espositivo Le Clarisse – Grosseto
Visitabile fino al 3 marzo 2024 (ingresso 2 euro)
https://clarissegrosseto.it/
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