Un uomo [parte III]
Kyra GriecoChe rapporto esiste tra genere e violenza? Per rispondere a questa domanda il primo passo è imparare a riconoscere la violenza nelle sue diverse forme (psicologica, economica, fisica, sessuale), il secondo è avere ben chiara la differenza tra una relazione conflittuale e una relazione violenta. Questi i temi dell’atteso terzo articolo (qui il primo, qui il secondo) di Kyra Grieco su come disimparare alcuni gesti per rendere questo mondo più vivibile per tutti ma soprattutto per tutte. Non mancano tre esercizi essenziali, a cominciare da quello dedicato ai casi in cui un uomo è irritato dal comportamento di una donna ma deve imparare ad esprimerlo senza tirare in ballo la sua sessualità, le sue origini, la sua confessione religiosa, il suo stato civile o riproduttivo, la sua forma fisica… (“Cosa rimane? Un sacco di cose! Vedrete, la lingua italiana vi stupirà per la sua ricchezza…”). Nei prossimi giorni altri due articoli sempre sul rapporto tra genere e violenza
WARNING! In questo testo sono trattate situazioni di violenza verbale e fisica che possono turbare chi legge. |
Che rapporto c’è tra genere e violenza?
- Riconoscere la violenza
Questo terzo articolo, ci ho messo del tempo a buttarlo giù. Un po’ per la complessità del tema, su cui è stato scritto e detto tanto, che da un articolo sono diventati tre : a) riconoscere la violenza 2) accogliere la parola di chi la subisce e c) le radici della violenza maschile1. Un po’ perché è un argomento sul quale è difficile scrivere con leggerezza e proporre esercizi divertenti. Un po’ perché parlare del genere maschile, a maggior ragione quando si è donna, espone sempre al rischio di un richiamo all’ordine più o meno violento.
Nel miglior caso questo può prendere la forma di un paternalismo bonario che ti ricorda che non sei legittima a parlare di queste cose, una sorta di “pat-pat” sulla testa (sottinteso: dai brava, stai buona lì). Molto più spesso, prende la forma di “spiegoni” non richiesti tipo: 1) a casa con i figli sono rimasto io, quando mia moglie è tornata a lavorare; 2) sai io sono umanista, tratto uomini e donne nello stesso modo oppure 3) ho un lato molto femminile o 4) un grande rispetto per le donne perché sono stato cresciuto da una madre sola (e così via). Tutti questi (commenti realmente letti e uditi) servono fondamentalmente a de-responsabilizzarsi e a distinguersi (in quanto migliore) da tutti quegli uomini “altri” per classe, origini o cultura, a cui questa serie di articoli si rivolgerebbe (vedi Un Uomo [parte II]).
Esercizio [9] per tutt*: Quando qualcuno vi parla delle disuguaglianze di qualsiasi tipo, cercate di evitare due reazioni paradigmatiche: la ricerca dell’eccezione (che, vi ricordo, non fa che confermare la regola) e la personalizzazione della questione. Spiegare che nella vostra vita, casa, coppia, famiglia o luogo di lavoro non è così, non cambia assolutamente niente alla disuguaglianza di genere in quanto fenomeno sociale. È come negare la crisi climatica perché si fa il compost. Per carità, fate bene, continuate così! Ma non ci venite a tirare fuori delle eccezioni per ridurre la gravità del fenomeno che si sta denunciando. Questo non fa altro che spostare l’attenzione da un problema generale a una pratica individuale, che equivale a negare la dimensione sistemica della questione. Per intenderci, è tutto l’opposto de “il personale è politico” femminista, che parte dall’esperienza individuale delle donne per identificare delle forme di oppressione comuni, e visibilizzarle. Cercare l’eccezione serve invece a depoliticizzare delle esperienze collettive alla luce di un vissuto personale. Se ne siete coscienti state attivamente sabotando la lotta per la parità, se invece non ne avete coscienza state semplicemente facendo ostruzionismo. In nessuno dei due casi vi si può considerare degli alleati. Non prendetela sul personale: checché ne pensiate il mondo non gira intorno alle nostre pratiche individuali, per quanto lodevoli esse siano. Anche se a casa vostra gli uomini facessero tutto dalla A alla Z (e ancora, sarei curiosa di sapere cosa ne pensano le donne), questo non cambia niente all’esistenza del patriarcato in quanto sistema che favorisce gli uomini dalla casa all’ufficio, passando per i media, la politica, la cultura, e via dicendo. Riconoscere questo semplice fatto è il primo, indispensabile passo per cambiare qualcosa. Questo non vuol dire che è colpa vostra, ma che ne siamo tutti responsabili.
La negazione della parola femminile può assumere anche forme più perentorie, come quelle analizzata da Michela Murgia in “Stai zitta! E altre nove frasi che non vogliamo sentire più”. Frasi quali “non fare la maestrina” o “vuoi sempre avere ragione” sono solo due dei numerosi modi possibili di ridurre al silenzio una donna che sostiene un contraddittorio. L’inverso, cioè il “non fare il maestrino”, non esiste, e questo già dovrebbe farci riflettere sul fatto che la norma consiste nel fatto che gli uomini spieghino le cose, e le donne se le facciano spiegare (non l’inverso). Il “vuoi sempre avere ragione” (ma chi argomenta per avere torto?) è invece una frase passe-partout da tirare fuori in assenza di argomenti validi con i quali difendere la propria posizione. Insomma è la trincea della comunicazione, che sposta l’attenzione dal tema in oggetto alla persona che è in disaccordo.
Nel peggiore dei casi, i richiami all’ordine di genere prendono forme violente. Tra questi figurano gli attacchi alla persona, che mirano a svalutare la parola sulla base di scelte o situazioni di vita individuali. Di me in quanto donna single e senza figli, si può per esempio svalutare il pensiero suggerendo che sarei sessualmente o emotivamente frustrata e quindi ce l’avrei con tutti gli uomini (scusate ma la logica di questo ragionamento mi è sempre sfuggita, ho amiche in coppie eterosessuali con figli ben più incazzate di me). Ci sono poi gli insulti sessisti “classici”, che rinviano esplicitamente alle devianza dalle norme di genere: troia, puttana (sessualità troppo attiva) oppure frigida, frustrata (sessualità non abbastanza attiva), isterica, stronza (manifestare sentimenti proibiti come la rabbia, non essere sempre gentile e servizievole), oca (bella ma stupida) o cesso (intelligente ma brutta), cicciona o stecco (non conforme a una norma fisica decisa non si sa da chi) e sicuramente tanti altri che adesso non mi vengono neanche in mente. Finalmente, ci sono le minacce di violenza fisica (bisognerebbe prenderti a schiaffi), di stupro (avresti bisogno di una bella ripassata) e di femminicidio (bisognerebbe ammazzarti). Preciso che sto riportando le formulazioni più “innocue” possibili, perché quello che in realtà molte donne si sentono dire o che si vedono scrivere sui social è di una violenza che fa accapponare la pelle e mi fa male anche solo leggerlo, quindi non mi va di scriverlo qua. Per chi volesse approfondire la questione, Carlotta Vagnoli fa un’ottima analisi di questo linguaggio dell’odio (hate speech), che l’anonimato della rete contribuisce a sguinzagliare, nel suo Maldetta sfortuna. Vedere, riconoscere e rifiutare la violenza di genere. E prima ancora che a qualcuno venga in mente di sminuire il fenomeno con un “sono solo ragazzate”, suggerisco di buttare un occhio allo studio di Amnesty international Barometro dell’odio : sessismo da tastiera e alla sua guida Hate speech: conoscerlo e contrastarlo.
Esercizio [10]: La prossima volta che ce l’avete con una donna per qualsivoglia ragione (la vostra capa vi chiede di fare straordinari non pagati, un’automobilista col velo vi taglia la strada, una commerciante un po’ in carne vi vende un prodotto di scarsa qualità, etc.) provate a trovare un modo di esprimerlo che non faccia in nessun modo uso di insulti e stereotipi sessisti, razzisti, grossofobi, etc. Insomma provate a non tirare in ballo la sua sessualità, le sue origini o la sua confessione religiosa, il suo stato civile o riproduttivo, la sua forma fisica. Cosa rimane? Un sacco di cose! Vedrete, la lingua italiana vi stupirà per la sua ricchezza. Potrete per esempio dire che la vostra capa è una sfruttatrice, che l’automobilista è pericolosa o irresponsabile, e che la commerciante è un’imbrogliona, una lestofante o una truffatrice. Ci guadagnerete in più modi: 1) identificherete meglio il problema (perché la sessualità della vostra capa poco ha a che fare con il fatto che vi sfrutta, forse invece di insultarla vi conviene contattare un sindacato); 2) eviterete di riprodurre (in)consapevolmente e quindi di normalizzare stereotipi sessisti, razzisti, omofobi, etc.; 3) se intorno a voi ci sono altre persone, adulte o bambine, starete facendo anche pedagogia, dimostrando che ne volete a qualcuno per quello che fa, e non per chi è.
Insomma, mentre scrivevo questo articolo, ammetto di aver sentito quella morsa alla stomaco che tant* riconosceranno come quella che ci accompagna ogni volta che osiamo valicare i confini di quello che ci é stato insegnato essere il nostro posto. Quando alziamo la voce, quando osiamo contraddire, denunciare o chiedere cose che non ci sono state destinate. Paura delle conseguenze che possono essere tutt’altro che banali. Non è un caso infatti se un gran numero di uomini condannati per violenza domestica, sessuale o femminicidio affermino di aver agito “per tapparle la bocca”, “perché non la smetteva più di parlare”, come racconta la psicoterapeuta e psicoanalista Marina Valcareghi – che con questi uomini ha lavorato a lungo dentro e fuori dal carcere – nel film documentario di Yuri Ancarani, Il popolo delle donne. L’accrescersi negli ultimi anni della violenza maschile sulle donne non si produce a dispetto delle molte conquiste in materia di uguaglianza formale, ma proprio a causa di queste. Si tratta, in altre parole, di una forma violenta di richiamo all’ordine, di fronte ai profondi cambiamenti in atto nella nostra società: un modo di “rimettere in riga” le donne che provano ad uscire dai ruoli assegnati loro. Questo perché la trasgressione delle norme di genere costituisce una minaccia all’ordine costituito, in altre parole al predominio maschile.
Il termine di femminicidio – è sempre utile ricordarlo – non sta a indicare il sesso della vittima, ma la ragione per cui è stata uccisa. Riprendo un esempio fatto da Irene Facheris in Parità in pillole: se domani mi uccidono perché sono una testimone scomoda in un processo, sarebbe un omicidio, non un femminicidio. Sarei stata uccisa in quanto testimone, per quello che sapevo, non in quanto donna, per quello che sono. Ma se vengo uccisa dal mio ex perché l’ho lasciato e lui non riesce ad accettarlo (la stragrande maggioranza dei femminicidi appartiene infatti a questa categoria, non a quella “uccisa perché rifiuta matrimonio combinato”) allora si tratta di femminicidio. Perché muoio in quanto donna, per non essere stata alle sue regole, nel modo in cui lui riteneva giusto.
Se il femminicidio è l’espressione più tragica – perché definitiva e irrevocabile – della violenza di genere, le ricerche mostrano che questo fenomeno si inserisce in un continuum che inizia da gesti e parole apparentemente innocue, banalizzate tanto da chi li adotta che da chi le subisce e dalle persone che sono loro vicine (Patrizia Romito et al. Pensare la violenza contro le donne). Per sensibilizzare a questo aspetto nel 2009 in Messico è stato sviluppato il violentometro, uno strumento per “misurare” il livello di violenza di una relazione attraverso una serie di comportamenti psicologicamente e fisicamente violenti. Ancora relativamente poco diffuso in Italia, il violentometro permette di identificare come violenti tutta una serie di comportamenti che tendiamo a sottovalutare: la gelosia, il controllo, l’umiliazione, il ricatto, la colpevolizzazione, le minacce, l’isolamento da familiari e amici, la distruzione di oggetti, etc. Certo, mi direte, messe in fila così, come si fa a non vedere arrivare il peggio? Come si fa a non scappare subito, a gambe levate? Magari fosse così semplice. Proprio perché la violenza è un continuum, questi comportamenti non avvengono mai tutti insieme, né in maniera progressiva e ordinata. Noterete che non sto parlando di persone violente, ma di comportamenti violenti o maltrattanti, che in quanto tali possono – una volta identificati – essere modificati.
Esercizio [11], Auto-test: Quali dei seguenti comportamenti vi è capitato di agire o di subire, nella vostra relazione attuale o nelle vostre relazioni passate?
▢ Silenzi punitivi (interrompere la comunicazione per un tempo indeterminato senza dare spiegazioni)
▢ Esplosioni di rabbia improvvise
▢ Attacchi di gelosia (accuse o interrogatori) o gelosia permanente (vedi “controllo”)
▢ Controllo delle attività o della socialità altrui (dove sei stata, che hai fatto, con chi eri?)
▢ Controllo via telefonate o messaggi ripetuti (dove sei? Che fai?)
▢ Controllo del telefono, dei messaggi o dei social media
▢ Controllo dell’abbigliamento, del corpo o dell’alimentazione (copriti/scopriti, mangia/non mangiare tal cosa)
▢ Controllo delle finanze (limitazione dell’accesso ai fondi personali o comuni)
▢ Rimproveri (hai/non hai fatto questo o quello) e paragoni sminuenti (non sei come …)
▢ Interpretazioni prescrittive dei comportamenti dell’altro (se fai X vuol dire che non ti importa di me)
▢ Limitazione o ingerenza nei rapporti (amicali, familiari, professionali) dell’altra persona
▢ Ricatti emotivi (del tipo “se mi vuoi bene/altrimenti ti lascio” o “se vuoi bene al bambino/altrimenti non lo vedi più”) riguardo a scelte lavorative, relazionali, sessuali o riproduttive
▢ Svalutazioni delle opinioni (non capisci niente, esageri sempre) e dei progetti altrui (ma cosa pensi di fare? non ci riuscirai mai)
▢ Svalutazione della persona come individuo o in relazione a ruoli specifici (sei una pessima madre/compagna/figlia, non sai neanche fare il tuo lavoro/non é un lavoro quello che fai)
▢ Negazione del discernimento: “stupida”, “pazza”, “malata” “fuori di testa” (si chiama gaslighting)
▢ Umiliazioni in pubblico (svalutazioni davanti a terze persone)
▢ Negazione dei sentimenti (sei una bugiarda, fai la vittima)
▢ Responsabilizzazione dell’altra persona per i propri comportamenti (mi succede solo con te/sei tu che mi fai agire così)
▢ Gesti violenti contro cose (mobili, muri, oggetti)
▢ Insulti, urla, parole scurrili
▢ Insistere, colpevolizzare o ricattare per avere rapporti sessuali (spoiler: si chiama stupro)
▢ Privazione temporanea della libertà (come chiudere in casa o rifiutarsi di fermare la macchina)
▢ Minacce di violenza fisica verso l’altra persona (ti ci vorrebbero due schiaffi), sé stessi (mi butto dalla finestra) o terzi (tra cui i figli)
L’obiettivo di questo esercizio è di prendere coscienza di quanto alcuni comportamenti prevaricanti siano diffusi e normalizzati, particolarmente nelle relazioni di coppia. Se siamo onest* con noi stess*, tutt* adottiamo o abbiamo adottato alcuni di questi comportamenti in maniera puntuale, particolarmente nelle situazioni di conflitto con partner o familiari. Questo non fa necessariamente di noi una persona maltrattante: è infatti la ciclicità di questi comportamenti e l’asimmetria tra le parti che contraddistingue la violenza.
Cosa differenzia quindi una relazione conflittuale da una relazione violenta? Nelle relazioni conflittuali qualsiasi delle due parti può dare inizio a una lite, a cui l’altra può decidere di sottrarsi o di partecipare (in altre parole c’è consenso) senza gravi conseguenze. Il conflitto poi può avere una serie di esiti possibili: una persona può prevalere, le due possono venirsi incontro a metà strada, decidere di lasciar perdere, di riprendere il discorso più tardi, di prendersi del tempo per pensare o addirittura di lasciarsi perché il divario è troppo grande (in altre parole c’è parità tra i due). Nelle relazioni maltrattanti, invece, le liti assumono sempre lo stesso pattern: non c’è parità, perché è sempre la stessa persona a decidere quando inizia e finisce una una lite, senza che l’altra abbia facoltà di sottrarsi o di mettervi fine. I conflitti si concludono peraltro sempre nello stesso modo: con la sottomissione o l’umiliazione di una persona da parte dell’altra.
Saper riconoscere la violenza nelle sue diverse forme (psicologica, economica, fisica, sessuale) è il primo passo per poterla non solo combattere ma anche prevenire. Imparare a distinguere i comportamenti violenti – i nostri come quelli altrui – più ordinari e normalizzati permette infatti una presa di coscienza e di responsabilità collettiva del fenomeno, invece di continuare ad attribuire la violenza unicamente a pochi “mostri” che immaginiamo essere diversi da noi.
Nella seconda parte, vedremo come gli stessi uomini maltrattanti tendono a negare la violenza dei loro comportamenti, e l’importanza che ne deriva di saper accogliere la parola di chi li subisce.
1 Ringrazio le compagne e sorelle che mi hanno riletto e consigliato durante la stesura di questo testo, arricchendolo con le loro competenze pratiche e teoriche in materia. Grazie anche a tutte quelle che negli anni hanno condiviso con me le loro storie e che hanno saputo accogliere la mia. La responsabilità di quanto scritto qua rimane della sottoscritta.
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