29 novembre 2024

CONTRO TUTTE LE GUERRE E CONTRO IL MUTISMO

 


"La Bomba in testa e il mutismo dei colti"



Le inquietanti dichiarazioni di questi giorni di Vladimir Putin che alludono esplicitamente all’uso delle armi nucleari contro l’Ucraina e i Paesi che la sostengono non vanno per nulla sottovalutate né derubricate a mera retorica propagandistica. Affermazioni come “Gli Stati Uniti ci spingono a un conflitto mondiale” e “siamo pronti per un altro scenario” segnano un salto di qualità senza precedenti nella guerra russo-ucraina. L’autorizzazione di Biden a colpire i territori russi con il lancio di missili americani di lunga gittata e l’uso del micidiale ordigno di distruzione, l’”Oreschnik”, testato dai russi a Dnipro, costituiscono una tappa ulteriore di avvicinamento verso la rilegittimazione, dopo Hiroshima e Nagasaki nel 1945, del ricorso alla bomba atomica come soluzione delle controversie internazionali. Nonostante le rassicurazioni mendaci, circa il loro potenziale distruttivo, da cui vengono avvolte le nuove armi nucleari cosiddette tattiche, ciò che importa sottolineare è che si registra oggi il tentativo di normalizzare la guerra come strumento di riconoscimento del ruolo degli Stati nel sistema delle relazioni internazionali. Eppure, se la “terza guerra mondiale a pezzi”, come la chiama papa Francesco, diventasse malauguratamente “conflitto mondiale” tout court, allora al rischio dell’autodistruzione dell’umanità non potremmo più sottrarci. A fronte di questa situazione drammatica, che pone interrogativi ancora più angosciosi rispetto a quelli suscitati nell’età della Guerra Fredda da un possibile scontro tra Stati Uniti e Unione Sovietica, ciò che colpisce è il silenzio degli intellettuali. Almeno nello spazio pubblico e mediatico, gli intellettuali – nella declinazione plurale di questo concetto (dagli scienziati in senso stretto agli esperti dei vari saperi) – sembrano arroccati nelle loro professioni, quasi timorosi di dare voce a una presa di posizione ammonitrice o a un grido d’allarme rivolto a scuotere l’opinione pubblica e i governi. L’impressione è che i ceti colti del XXI secolo si siano assuefatti all’idea hobbesiana che la guerra è una procedura fisiologica nella regolazione dei conflitti internazionali e perfino nei rapporti con l’altro, cioè con chi è distante dal nostro modo di vivere e di pensare. Al contrario, dopo Hiroshima e Nagasaki, negli anni Sessanta e Settanta fiorì una vasta letteratura sulla nuova condizione dell’umanità nell’era atomica e sulla responsabilità che incombeva sui decisori politici, mentre si moltiplicavano gli appelli di scienziati, filosofi e giuristi affinché l’opinione pubblica internazionale sollecitasse i rispettivi governi a trovare un “modus vivendi” tra gli opposti regimi politici e le rispettive sfere d’influenza (il comunismo sovietico e la democrazia euro-atlantica egemonizzata dagli USA). Basti pensare, per fare solo qualche esempio, a filosofi come Karl Jaspers, autore di “La bomba atomica e il destino dell’uomo” (1960), e a Günther Anders, che nel 1964 nel “Discorso sulle tre guerre mondiali” metteva in guardia che una guerra nucleare “potrebbe liquidare l’intera umanità”. Alcuni anni prima, nel 1955, Albert Einstein e Bertrand Russell avevano promosso un manifesto in favore del disarmo antinucleare e della scelta pacifista, sottoscritto dai più influenti scienziati e intellettuali dell’epoca. Il manifesto sollevava “un problema grave, terrificante, da cui non si può sfuggire: metteremo fine al genere umano, o l’umanità saprà rinunciare alla guerra?” Come ci ricorda lo psicoanalista Diego Miscioscia nel suo bel libro, “La guerra è finita. Psicopatologia della guerra e sviluppo delle competenze mentali della pace”, appena pubblicato dalla casa editrice pugliese La Meridiana (fondata dal compianto Guglielmo Minervini, guardacaso autore di un testo intitolato “L’abecedario dell’obiettore”), anche l’Italia in quegli anni non è stata estranea alla diffusione della cultura della pace. Infatti, proprio nel 1964 due psicoanalisti italiani, Franco Fornari e Luigi Pagliarani davano vita alle prime riflessioni ed esperienze nel campo della psicologia sul rischio di un conflitto nucleare. Ne nacque un pamphlet, “Si può organizzare la speranza? (L’esperimento del Gruppo Anti H)”, che a firma di Pagliarani confluì nel libro di Fornari, “Dissacrazione della Guerra. Dal pacifismo alla scienza dei conflitti”, che uscì nel 1968 con Feltrinelli. Ma accanto a Fornari e Pagliarani in quegli anni la cultura della pace conobbe una stagione di grande elaborazione e di straordinarie mobilitazioni di massa: dalla nonviolenza di Aldo Capitini all’obiezione di coscienza promossa da don Milani. Senza dimenticare don Tonino Bello, che nel 1993 entrava a Sarajevo con il movimento “Beati i costruttori di pace”. Di fronte al riapparire di un rischio ancora più grave di un’apocalisse atomica, torna, dunque, il tema della responsabilità degli intellettuali. Ma con una differenza non di poco conto: oggi si tratta di prendere coscienza che occorre affinare la cultura della pace con nuovi strumenti concettuali e con nuove esperienze pratiche. Non basta più un pacifismo di tipo istituzionale o giuridico, a cui per esempio si richiamava Norberto Bobbio, che giustamente esaltava il ruolo degli organismi internazionali come l’ONU o le Corti Internazionali di Giustizia per tutelare la pace nel mondo e perseguire i crimini di guerra. Come suggerisce Miscioscia, lo sforzo che oggi dobbiamo compiere è di comprendere le motivazioni più profonde della guerra: in primo luogo “l’ansia genetica” nascosta nelle pieghe della nostra evoluzione come specie, le “ferite psicologiche” dovute a povertà materiale ed educativa, le “fantasie di onnipotenza” espresse attraverso impulsi aggressivi. In breve, occorre lavorare sulla mente del soggetto – e, aggiungerei, sulla mente “incarnata” – per formare fin dalla scuola dell’obbligo le competenze psicologiche della pace: empatia, gentilezza, solidarietà, rispetto dell’altro, convivialità, capacità di dialogare con gli altri e con se stessi. Tuttavia, a mio avviso, queste qualità di una nuova cultura di pace per essere davvero efficaci vanno integrate da un cambiamento di paradigma di tutti i saperi - umanistici e scientifici in senso stretto – e dalla loro capacità di elaborare categorie di giudizio adeguate alla situazione catastrofica che stiamo attraversando non solo a livello geopolitico, ma anche sul piano interno degli Stati: concentrazione della ricchezza nelle mani di un’oligarchia transnazionale, crescita delle diseguaglianze, migrazioni di popoli, collasso ecologico del pianeta, trasformazione dell’altro da noi in nemico. Sono tutti segnali che la logica della guerra è penetrata dentro le nostre forme di vita e sta minando la nostra convivenza democratica. Per contrastarla occorre trasformare l’ideale della pace in una forza etica capace di orientare concretamente i nostri saperi e la nostra stessa vita quotidiana.

Francesco Fistetti 

 

 


Nessun commento:

Posta un commento