MOZART
ASSOLVE L’IMPERFEZIONE UMANA
Parola di
Maestro. Riccardo Muti, nel suo ultimo libro, che qui anticipiamo, spiega
perché il compositore occupa un posto così speciale nel suo cuore: non condanna
mai e la benevolenza si riflette nella scelta delle tonalità musicali
Da Il Sole 24ore, 10 novembre 2024
Quando penso a tutta la musica che ho diretto e ai compositori che
ho studiato e portato nelle sale da concerto e nei teatri di tutto il mondo, mi
rendo conto che alcuni di loro mi sono rimasti particolarmente nel cuore, tra
questi Mozart.
Scrisse Le nozze di Figaro nel 1786, quando aveva
trent’anni, e il libretto di Da Ponte deriva dalla commedia Le mariage
de Figaro di Beaumarchais.
Siamo di fronte a un’opera buffa, ma i suoi personaggi vivono
esperienze intense, segnate senza requie dalle debolezze umane. A parte il
conte, un fedifrago incallito, e Cherubino, un giovane dongiovanni attratto da
ogni donna, anche la nobile contessa e l’astuta Susanna, pur essendo
profondamente innamorate dei loro uomini, sfiorano il pericoloso confine
dell’infedeltà. Per non parlare di Bartolo e Basilio: il primo, arrogante e
malvagio, nella sua unica aria rivendica meschinamente e con lussuria la sua vendetta;
il secondo, un tempo abate mite, ora diventa intrigante perché ha compreso che
solo così può evitare di essere calpestato. Eppure, Mozart non giudica e non
condanna nessuno dei suoi personaggi. Consapevole dell’imperfezione umana, li
assolve. Questa benevolenza si riflette nella scelta delle tonalità musicali:
tutte le arie solistiche sono in tonalità maggiore, tranne quella di Barbarina.
Anche l’opera nel suo insieme inizia e si conclude in una tonalità maggiore, in
Re. Mozart però è cosciente delle nostre fragilità, e nel finale introduce un
sottile dubbio sulla felicità futura delle coppie: tra il concertato quasi
religioso sulle parole «Contessa, perdono!» e l’allegro assai conclusivo Questo
giorno di tormenti, appare una fugace modulazione in minore, quasi a suggerire
che l’amore, pur trionfando su tutto, potrebbe non essere eterno.
Don Giovanni andò in scena per la prima volta a Praga nel 1787, e per scrivere
il libretto Da Ponte prese spunto da diverse fonti letterarie.
È l’opera più enigmatica, misteriosa, indecifrabile di tutta la
trilogia. […] La chiave di questo capolavoro è già nell’ouverture, con
un inizio tragico in Re minore, una tonalità funebre che Mozart userà anche per
il Requiem. Questa atmosfera cupa, quasi infernale, si trasforma
poi in un allegro frenetico, a simboleggiare una vita insaziabile e inquieta.
Don Giovanni vive nel disordine morale, sociale e affettivo, lo
crea e lo alimenta. Quando ci sono le tre orchestrine sul palco che suonano tre
danze diverse, il Minuetto, la Follia e l’Alemanna, don Giovanni dice: «Senza
alcun ordine la danza sia». E Mozart le sovrappone l’una sull’altra, le
incastra con ritmi diversi. Si forma un caos ordinato e al tempo stesso
disordinato. Don Giovanni è un uomo che non si pone degli obiettivi stabili, il
suo girovagare da una parte all’altra, gli sbalzi di tonalità danno l’idea di
un personaggio che non trova pace. È la personificazione del male. Non conclude
nulla. Conquista e distrugge, è una figura tenebrosa. Non c’è altra opera di
Mozart che sia così pervasa dal senso della morte, che ritroviamo anche nel
gioco, nelle battute a doppio senso, negli ammiccamenti. Quando don Giovanni
sprofonda all’inferno, gli altri personaggi si smarriscono: sono persi nella
nebbia, ognuno cerca una strada. Era la forza del male a tenerli vivi. Il
finale, che alcuni – per esempio Mahler – decisero di eliminare, va visto come
una risoluzione drammatica: senza la luce sinistra di don Giovanni i personaggi
piombano nel buio della routine, dell’infelicità, di un’esistenza
priva di scopo.
Riccardo Muti
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