“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
22 novembre 2024
CINEMA, FILOSOFIA e FELICITA'
Ilaria Gaspari, La filosofia si fa camminando a passo lento e senza meta
La Stampa, 22 novembre 2024
Nell'estate del 1960, Jean Rouch ed Edgar Morin filmano le strade di Parigi in un bianco e nero in cui galleggiano le ombre mobili delle foglie dei platani, i passi di chi esce dalle stazioni sotterranee del métro, i visi dei bambini sulle giostre, i sorrisi ai tavoli all'aperto davanti a brasserie affollate. Filmano ragazzi a passeggio con saggi ponderosi nella tasca della giacca, vigili reticenti e forse intimoriti, studentesse con la risposta pronta, vecchiette sagge e sornione. Filmano lo stupore, il fastidio, qualche volta il divertimento. E le parole che affiorano, sfrontate o impacciate dalla timidezza di un'epoca in cui trovarsi di fronte una cinepresa era un evento piuttosto eccezionale.
Rouch è antropologo, Morin è destinato a diventare uno dei grandi nomi della sociologia; per le strade della città i due seguono la futura regista e scrittrice Marceline Loridan-Ivens che saltella dietro ai passanti, sorride con brio e a chiunque rivolge una domanda semplice e inattesa, che a volte scandalizza gli interlocutori, altre volte li turba, li diverte, o li costringe a riflettere e ad accigliarsi: siete felici?
Chronique d'un été, il film di Morin e Rouch, è oggi considerato un piccolo classico del cinéma-vérité, capace di rivelarci per sprazzi l'intimità di una città sognata, idealizzata, adorata: una città-diva, che come una diva vera ci appassiona scoprire, deposti gli artifici di scena, nella semplicità della vita quotidiana. E infatti la Parigi del film ha il magnetismo rilassato e ridanciano delle foto di Jane Birkin al mercato con il suo paniere.
Ma il documentario è toccante anche perché ci mostra, inalterato dal tempo, il potere della domanda rivolta ai passanti: siete felici? La domanda che trasforma le strade di una metropoli moderna, efficiente, frenetica, in un luogo in cui trova spazio e risonanza l'esercizio filosofico del domandare. Chiedersi (chiederci) se siamo felici, e dunque cosa intendiamo per felicità, non è sintomo di frivolezza o superficialità. Al contrario, è una delle più profonde, più urgenti e più eterne questioni filosofiche, quella che riguarda la felicità, che la saggezza antica insegna a considerare alla stregua di una virtù da coltivare, una virtù etica di cui si fa carico l'educazione condotta in quei luoghi deputati agli esercizi spirituali che erano le scuole. Il giardino di Epicuro, come il porticato della Stoà, sono luoghi fisici della polis consacrati a quel perfezionamento di sé che la filosofia antica modella in perfetto accordo fra prassi e teoresi; le strade di Atene (percorse in lungo e in largo da Socrate, il "tafano" che disturba i passanti punzecchiandoli con il pungiglione del dubbio) il pubblico teatro in cui risuona il lavorio delle domande.
Per questo è commovente vedere, nel film di Rouch e di Morin, un frammento di quell'eredità antica in un contesto moderno; a maggior ragione oggi, che viviamo in metropoli lontane anni luce, per efficienza e frenesia, non solo dall'Atene del V secolo a. C., ma anche dalla Parigi del 1960. Oggi, nella solitudine di città che somigliano ad aeroporti, abbiamo dimenticato che le strade possono essere luoghi adatti alla filosofia; l'abbiamo dimenticato in nome della possibilità di arrivare ovunque senza dover nemmeno chiedere indicazioni, tanto un GPS ci guida; in nome dell'efficienza, della fretta, perché smarrirsi è talmente difficile che non vale più nemmeno come scusa di un ritardo.
È un peccato, però, perdere l'occasione di una relazione poetica con la geografia della città, precluderci la possibilità di fermarci a far domande, ritrovare quello che ci è familiare dove ci aspettiamo di sentirci stranieri, o viceversa: ribaltare l'abitudine in un senso di estraneità, concederci il lusso della meraviglia che interrompe lo scorrere delle nostre efficientissime esistenze per lasciar spazio a una domanda. Un rimedio potrebbe essere provare a seguire le istruzioni del filosofo situazionista Guy Debord per una "deriva psicogeografica", gioco utile a esplorare gli spazi urbani reinventandoli: «Andate in giro a piedi senza meta od orario. Scegliete man mano il percorso non in base a ciò che sapete, ma in base a ciò che vedete intorno. Dovete essere straniati e guardare ogni cosa come se fosse la prima volta. Un modo per agevolarlo è camminare con passo cadenzato e sguardo leggermente inclinato verso l'alto, in modo da portare al centro del campo visivo l'architettura e lasciare il piano stradale al margine inferiore della vista». E magari fermarci, nello straniamento, a chiederci se siamo felici.
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