Nel ringraziare la Direttrice della Biblioteca che ci ospita, ripropongo di seguito l'indice del libro che si presenta, la nuova Introduzione al saggio e una breve nota critica. (fv)
L’ INTRODUZIONE alla seconda
edizione del libro
A prima vista potrebbe apparire discutibile l' accostamento tra
Antonio Gramsci, Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia. Si tratta, infatti,
di autori che hanno avuto ruoli e pesi diversi nella storia del Novecento.
Secondo gli schemi tuttora dominanti, il primo – nonostante
che di recente sia stato finalmente compreso tra i principali filosofi
contemporanei[1] -
continua ad essere considerato soprattutto un politico e il suo spazio, nel
tempo della frammentazione dei saperi, andrebbe confinato nell'ambito della
scienza politica. Mentre gli altri due - pur avendo sempre disprezzato i letterati
puri e scritto tanto su giornali e riviste politiche – essendosi
occupati prevalentemente di letteratura, cinema e poesia, andrebbero esaminati
nell'ambito ristretto della critica d'arte e letteraria.
Ma se si leggono attentamente le loro opere e si dà una veloce
occhiata alla vasta letteratura critica esistente, soffermandosi
particolarmente su quella prodotta nell' ultimo decennio, non si tarda a
cogliere il legame profondo e i tratti comuni, pur nelle loro differenze.
Gramsci, Pasolini e Sciascia, seppure in modi diversi, hanno riconosciuto il
peso determinante avuto dalla cultura (intesa in modo nuovo rispetto alla
tradizione) nella storia e colto il legame stretto tra lingua e potere.
In specie i tre, seguendo vie e metodi diversi, si sono ritrovati
uniti nella critica alle classi dominanti. Così come Gramsci, fin dal 1926,
aveva individuato in Giustino Fortunato e Benedetto Croce ( da cui aveva pur
appreso tanto) «le chiavi di volta del sistema» e «le due più grandi
figure della reazione italiana»[2]; Pasolini
è stato il primo in Italia, dopo Gramsci, ad aggiornare la sua analisi critica
sugli intellettuali denunciando con forza il loro ruolo servile e
subalterno:«Gli intellettuali italiani sono sempre stati cortigiani; sono
sempre vissuti “dentro il Palazzo”».[3]
Leonardo Sciascia non è stato da meno nel criticare
gli «intellettuali organici»[4] ai
vari sistemi di potere. Infatti, fin dal 1963, nello scrivere uno dei suoi
racconti più belli, Il Consiglio d'Egitto, non risparmia
critiche ad archivisti, storici e preti – servi del potere del tempo – che
utilizzano le loro competenze per giustificare e legittimare domini e
privilegi.
Ma in un tempo come il nostro, in cui si parla sempre più spesso
di fine della storia e dove la storia sembra davvero uscita
dai suoi antichi cardini, sono tanti a pensare che non ci sia più posto per
Gramsci, Pasolini e Sciascia.
Per questo il capitale prezioso lasciato da questi
tre grandi autori rischia oggi di essere disperso e dissipato. Nell' odierna
società, appiattita in un eterno presente, tanti vivono ignorando il passato e
senza pensare al futuro. Ecco perchè temo, con Leonardo Sciascia, che
la memoria possa persino scomparire.
Nel corso delle presentazioni della prima edizione di questo libro
si è tanto discusso del suo titolo provocatorio. Credo di aver spiegato alcune
delle ragioni che mi hanno spinto a considerare, almeno in parte, dissipata la
grande eredità culturale lasciata da Gramsci, Pasolini e Sciascia. I tre, malgrado
il successo che hanno avuto in alcuni momenti della loro vita, sono stati, in
gran parte, incompresi dai loro contemporanei.
Antonio Gramsci si è sentito isolato e incompreso dai sui stessi
compagni di lotta al punto tale che Umberto Terracini - stretto collaboratore
del sardo nella redazione de L’Ordine Nuovo, fin dal 1919, e suo compagno di
carcere durante la dittatura fascista - è arrivato a scrivere:
“Dal 1930 al 1945 – bisogna pur dirla almeno una volta senza
perifrasi questa triste verità – la consegna fu di tacere su di lui salvo che
in termini rituali e negli anniversari di prammatica. […]. E come dimenticare
che , dietro lo squallido carro funebre che ne trasportò la bara al cimitero,
altro non c'era che una scia di vuoto?”[5]
Non parliamo poi di quello che è accaduto in Italia dopo il 1989,
quando persino gli stessi dirigenti nazionali del Partito che aveva contribuito
a creare hanno apertamente dichiarato di considerarlo inservibile politicamente
dopo il crollo del Muro di Berlino e dell' Unione Sovietica.
Se in Europa e in India non avessero ripreso a leggerlo un gruppo
di antropologi e sociologi che hanno dato vita ai cosiddetti subaltern
studies (utilizzando, fin dal nome, una parola chiave del lessico
gramsciano); se, in America Latina, Paolo Freire (il pedagogista gesuita autore
della famosa Pedagogia degli oppressi) non l’avesse scoperto
insieme ai teologi della liberazione (G. Gutierrez, L. Boff, ecc.); se gli
stessi intellettuali argentini di sinistra (vicini al populismo peronista) non
avessero contribuito a diffonderne il pensiero, oggi, forse, non si parlerebbe
più di Gramsci nel mondo.
Qualcosa di simile è avvenuto con Pier Paolo Pasolini e Leonardo
Sciascia.
La storia di Pasolini è stata, in gran parte, una storia di
incomprensioni. Come ha ben visto Gianni Scalia, dopo la sua morte, i mezzi di
comunicazione di massa si sono impadroniti di lui: il poeta bolognese è
stato «interpretato, giudicato, commemorato: encasillado (come
direbbe Unamuno). Ma non compreso. Chiedeva di essere aiutato
nella sua ricerca dei “perchè” della condizione presente […]. Faceva domande e
sollecitava risposte[...]. Gli si rispondeva con i silenzi puntuali, le
polemiche […], o, come diceva con il “silenzio”» [6].
Negli ultimi anni della sua breve vita tutti i suoi interventi,
pubblicati sul Corriere della Sera e su altri
giornali e periodici, sono stati accolti in modo ostile, oltre che da tutti gli
uomini di potere del regime democristiano, persino da tanti intellettuali di
sinistra. Basti ricordare, per tutti, gli scontri e le polemiche avute con
Italo Calvino, Edoardo Sanguineti, Umberto Eco, ecc. ecc.
E le incomprensioni non sono ancora finite. Infatti, malgrado si
continui a parlare e a scrivere tanto sulla sua opera, rimangono pochi i
contributi critici seri.
Leonardo Sciascia è stato uno dei pochi a difenderlo e a restargli
vicino nel corso degli anni. Ecco perchè lo scrittore siciliano, dopo la sua
morte, dirà: «Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, dette le
stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose».[7] E
non è casuale che uno dei suoi saggi più discussi, L' affaire Moro, si
apra proprio con una citazione di Pasolini, ripresa dal suo famoso articolo
sulle lucciole del 1° febbraio 1975.
Per la verità Sciascia, come Pasolini, ha sempre diviso l'opinione
pubblica e la classe politica (di governo e di opposizione), insieme alle
gerarchie ecclesiastiche, hanno guardato sempre con sospetto al suo spirito
eretico. Basti ricordare che, negli anni in cui scriveva sul giornale comunista
L'ORA di Palermo, era soprannominato “iena dattilografa” dai suoi stessi
colleghi.
Insomma, sarò pure pessimista, ma credo di avere delle buone
ragioni per temere che i tre più grandi eretici italiani del 900 rischiano
davvero di essere dimenticati in un mondo dove sembra che ci sia sempre meno
spazio per il pensiero critico e indipendente.
FRANCESCO VIRGA, giugno 2023
Note
[1]Basti
qui ricordare che una recentissima iniziativa editoriale del Corriere
della Sera, curata dal Prof. Carlo Sini, uno dei maggiori
studiosi di filosofia contemporanea, ha compreso Antonio Gramsci tra i
principali filosofi del novecento accanto ad Heidegger, Popper, Russell,
Sartre, Wittgenstein, ecc.
[2]GRAMSCI,
Antonio, La questione meridionale, Editori Riuniti, Roma 1972,
p. 150
[3]PASOLINI,
Pier Paolo, Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976, pp.
93-94.
[4]Questo
termine gramsciano è stato sempre fonte di equivoci e malintesi. Cercherò di
chiarire il significato che esso assume nel lessico e nella visione del mondo
gramsciana più avanti.
[5]TERRACINI
Umberto, Prefazione a Laurana Lajolo, Gramsci un uomo sconfitto, Rizzoli,
Milano 1980, p. 10. Si rimanda anche ad altri suoi due libri: Intervista
sul comunismo difficile , a cura di Arturo Gismondi, Laterza, Bari1978
e Quando diventammo comunisti, a cura di Mario Pendinelli con
Prefazione di Davide Lajolo, Rizzoli, Milano 1981
[6]SCALIA
Gianni, La mania della verità. Dialogo con Pier Paolo Pasolini, op.
cit., pp.50-51
IL GRAMSCI DISSIPATO DI FRANCESCO VIRGA
Dopo una fortunata prima edizione, Eredità
dissipate. Gramsci Pasolini Sciascia di Francesco Virga (Diogene
Multimedia, Bologna 2023, pp.404) viene ripubblicato in una edizione riveduta e
ampliata, che ancora una volta riesce perfettamente a coniugare il rigore
scientifico dell’impianto saggistico, con tanto di citazioni e apparato
critico, e una larga godibilità di lettura: una chiarezza di linea espositiva
che Virga mutua anche dal mestiere di insegnante e dalla lunga attività di
blogger militante. O magari è in qualche modo una di quelle eredità gramsciane
evocate nel titolo e messe a frutto nel taglio argomentativo e nel tono della
scrittura. Non amo molto, in genere, usare il termine divulgazione, ma sicuramente
il libro è anche un ausilio prezioso per approcciarsi a queste tre figure o
approfondirle, oltre i luoghi comuni, le vulgate e le nozioni scolastiche. Le
quattro parti che compongono questa raccolta di saggi si possono infatti
agevolmente leggere come dei corposi contributi critici a sé stanti sulle
figure di Gramsci, Pasolini e Sciascia, anche se nel volume confluiscono anche
degli scritti occasionali – in gran parte pubblicati previamente su varie
testate e riviste – in cui lo spettro d’indagine si allarga su aspetti meno
battuti dei tre autori. Penso per esempio al capitolo dedicato a Pasolini e
Bach, che prende le mosse da uno studio recente di Claudia Calabrese sul
rapporto tra Pasolini e la musica.
Come tanti testimoni e lettori eccellenti hanno
attestato nel corso delle due edizioni (in appendice a questa nuova edizione
troviamo una galleria di note critiche, firmate tra gli altri da Salvatore
Costantino, Nicolò Messina e Gaspare Polizzi), Eredità dissipate si
colloca come punto di incrocio tra critica e esegesi letteraria, analisi
politica e storia della cultura italiana nel secondo ‘900. Un lavoro di ricerca
annoso e di lungo respiro in cui Franco Virga si mette sulle tracce della
ricezione di Antonio Gramsci nelle opere di Pasolini e Sciascia, scandaglia e
collega testi, documenti, testimonianze con una perizia filologica e una
passione militante davvero esemplari.
Di Pasolini si rileva in primo luogo che la sua
interpretazione del marxismo è assimilabile a quella di Gramsci, in quanto
metodo e strumento per comprendere i fatti storicamente determinati, e non
sistema fisso e pura dottrina dogmatica, soprattutto nel Pasolini interventista
e collaboratore del settimanale comunista “Vie Nuove” (mentre si tralascia
volutamente il Pasolini tormentato delle Ceneri di Gramsci,
diventato quasi un luogo comune critico). Di Sciascia si ricorda invece la
lunga e intensa attività pubblicistica sulle pagine de “L’Ora” di Palermo che –
come scrive Virga – sono di “inconfondibile impronta gramsciana, persino nello
stile graffiante della sua scrittura”.
Come l’autore stesso esplicita, sia
nell’introduzione che nella nota conclusiva, la tesi di fondo, e se non una
vera e propria tesi, una preoccupazione che anima le pagine di questo libro è
che la grande lezione di questi tre giganti del secolo scorso venga dissipata (appunto),
dimenticata o rimossa: un po’ per la loro sostanziale inclassificabilità e il
loro percorso eretico, ma soprattutto per la crisi della cultura e del pensiero
critico nell’epoca dell’opinionismo estemporaneo dei talk e delle approssimazioni
social.
Francesco Vinci, settembre 2024
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