C’è spazio per il dolore degli altri?
Tra le tante conseguenze della rottura dei legami sociali c’è l’incapacità di percepire realmente i problemi e il dolore degli altri come nostri. Il dolore, certo, non si può trasferire, né condividere. Non solo, il dolore tende sempre a categorizzare e a fare gerarchie, c’è sempre qualcuno che soffre più di altri. Ma l’isolamento, l’indifferenza e la gerarchizzazione possono essere contestati e trasformati, aperti e condivisi fino a cambiarne il senso e a generare complicità. Se è vero che il dolore non si può condividere è anche vero che il desiderio e la necessità di rispondere al dolore possono essere collettivi, scrive Marina Garcés in questo testo di grande profondità e attualità – tratto dal libro Occupare la speranza (con cui cerca di fare tesoro delle lezioni apprese durante le lotte dei movimenti degli ultimi trent’anni, a cominciare da quelli che hanno preso forma a Barcellona). In questo senso tutti possiamo considerarci afflitti e imparare a cercare risposte insieme a chi grida per il dolore provocato dalle tante guerre in corso, dalle diverse forme di sfruttamento economico, dal terrorismo, dal razzismo, dal patriarcato…
«Gli affetti sono rivoluzionari». Trovo queste parole in un graffito fotografato che circola su Twitter. Ha molti “mi piace” e molte condivisioni. Quando i muri non possono più essere dipinti senza rischiare di pagare una multa a vita, ci restano i muri virtuali, decontestualizzati, viralizzati. Dove potrebbe trovarsi questo graffito? Chi e come l’ha fatto? Quali sono stati i passaggi e le necessità del suo anonimato? E chi ci passa davanti ogni giorno? I contesti svaniscono. Rimangono i messaggi. E questo, in qualche modo, ci giunge oggi come ovvio e necessario al tempo stesso: gli affetti sono rivoluzionari.
Gli affetti sono oggi al centro dei discorsi critici e del linguaggio di molte lotte collettive per trasformare la società e la vita. Sono anche il punto focale d’attenzione della teoria sociale, umana e filosofica dei nostri tempi. Anche gli anglosassoni, che danno un nome a tutto, parlano di “affect theory”, che ha già i suoi lettori e tutto il corrispettivo apparato accademico. Il femminismo è stato cruciale in questo cambiamento teorico e politico.
Negli ambienti di dibattito e azione a me più vicini, l’attenzione verso la nozione di affetto, come concetto radicalmente politico, era arrivata attraverso la filosofia di Spinoza e, più specificamente, attraverso la lettura che ne aveva fatto il filosofo francese Gilles Deleuze. Questo linguaggio filosofico ha subito una svolta inaspettata l’11 marzo 2004, quando ci siamo svegliati con la notizia dell’attentato ai treni di Atocha, a Madrid. Alcune bombe avevano ucciso più di duecento persone e ne avevano ferite quasi duemila sui treni di Cercanías in una mattina di un giorno feriale qualsiasi, a pochi giorni dalle elezioni generali, in cui era in gioco la riconferma del governo di José María Aznar, complice dell’invasione dell’Iraq. Di fronte a questo, era quasi inevitabile entrare nell’analisi politica dell’attentato e soffermarsi sulle sue conseguenze elettorali più evidenti, che si riassumono nella vittoria di José Luis Rodríguez Zapatero e nel grido «Non ci tradire», dopo la mobilitazione collettiva tramite sms conosciuta come “Pásalo”. Ma la prossimità con la quale alcuni colleghi e amiche di Madrid hanno vissuto l’attentato ha aperto una domanda, niente affatto retorica ma molto dolorosa, che era la seguente: chi era rimasto coinvolto nell’attentato? Solo le vittime dirette? O lo erano anche tutti quelli che avevano percepito come, a partire da quel giorno, la loro condizione umana e politica venisse radicalmente trasformata?
Attraverso libri come Spinoza e il problema dell’espressione, del 1968 o Spinoza, filosofia pratica, del 1980, Deleuze ci aveva aiutato a capire che gli affetti non sono solo i sentimenti di stima che abbiamo verso le persone o le cose che ci circondano, ma hanno a che fare con ciò che siamo e con la nostra potenza del fare e vivere le cose che ci accadono, le idee che pensiamo e le situazioni che viviamo. Un affetto è un transito, una trasformazione della nostra potenza di essere, a partire dall’effetto che ci può aver prodotto una determinata idea, immagine o persona. Non è necessario che ne siamo consapevoli, né sul piano della conoscenza né del sentimento. È una modifica che altera profondamente tutto il nostro essere e lo rende più allegro o più triste, più capace o più incapace.
Un’etica e una politica degli affetti, secondo questa filosofia spinoziana e deleuziana, è quindi quella che presta attenzione alle trasformazioni di ciò che siamo e possiamo essere a partire dalla capacità che abbiamo di influenzare e di essere influenzati, al di là delle nostre intenzioni coscienti e dei sentimenti concreti. Chi e cosa ci rende migliori, cioè più felici e più capaci di essere e di fare? E quali incontri provocano il contrario? In questa oscillazione si gioca la libertà. Non è la libertà di scegliere ma la potenza di essere in relazione a ciò che ci circonda. Sviluppare questa potenza implica imparare a percepire e distinguere ciò che è buono da ciò che è cattivo, non come principi astratti, ma come parte di relazioni concrete che possono essere favorevoli o sfavorevoli allo sviluppo delle nostre capacità e forme di vita. Spinoza e Deleuze ci aiutavano a comprendere una politicizzazione della vita che non passava attraverso i programmi politici e le loro liste di proposte e rivendicazioni, i loro bilanci di successi e fallimenti, ma attraverso una trasformazione profonda della nostra capacità di influenzare e di essere influenzati dalla vita. Un’etica e una politica che non si riducono, quindi, né al futuro del programma né all’istantaneità dell’azione, ma vivono nella durata dei processi di trasformazione. Un’etica e una politica rivoluzionarie, insomma, che non si limitano al potere di rottura di ciò che è istituito ma alla potenza che possono dispiegare nel continuum imperscrutabile della vita anonima, invisibile per i grandi eventi della Storia.
Un doloroso evento, però, aveva lacerato il tessuto di vite invisibili e anonime la mattina dell’11 marzo 2004. «Dicono che l’Eta abbia messo una bomba su dei treni a Madrid e molte persone siano morte» mi disse il conducente dell’autobus, diretto a Teruel, quando mi sono svegliata dal primo sonno. Eravamo partiti da Barcellona alle sei del mattino, quindi le prime luci del giorno, quando già attraversavamo Castelló, coincisero con l’esplosione delle bombe a Madrid. A quel tempo non era possibile seguire l’attualità minuto a minuto attraverso i social sul telefono, quindi la giornata trascorreva lentamente, tra lezioni, chiamate e notiziari pieni di bugie. Tuttavia, la realtà veniva svelata a poco a poco e la ferita cominciava ad aprirsi. Da quel momento, la voce e la comunicazione con i nostri amici di Madrid divennero indispensabili. Alcuni di loro, legati fino ad allora ai collettivi con cui avevamo rapporti, sentirono la necessità di avvicinarsi ai gruppi che da quel momento in poi cominciarono a riunirsi intorno alle vittime e alla denuncia della gestione dell’attentato da parte del governo di Aznar e dei suoi sinistri ministri. Tra le persone presenti in questi forum, non tutti avevano un legame diretto con le vittime. Erano persone che, per una ragione o per l’altra, si sentivano colpite dagli attentati. Non solo commossi o emozionati, ma profondamente sconvolti, trasformati nel modo più profondo e al contempo più quotidiano del loro essere. La vita non poteva continuare come se nulla fosse accaduto e la svolta elettorale, che portò Zapatero alla presidenza del «Non ci tradire», non risolveva il vuoto che si era aperto.
In questa età oscura in cui viviamo, sotto il nuovo ordine mondiale, condividere il dolore è una delle condizioni preliminari per ritrovare la dignità e la speranza. C’è una grande parte del dolore che non si può condividere. Ma il desiderio di condividere il dolore sì che può essere condiviso. E da questa azione, inevitabilmente inadeguata, sorge una resistenza.
Queste parole di John Berger aprono il libro che è nato dall’esperienza di accompagnamento sviluppata dai nostri amici e che è stata raccolta per iscritto nel volume Red ciudadana tras el 11-M. Cuando el sufrimiento no impide pensar ni actuar, firmato collettivamente con il nome Desdedentro, pubblicato da Acuarela&Antonio Machado e curato da Amador Fernández-Savater, uno degli attori della rete e una delle persone che hanno condiviso giorno per giorno con noi questo processo di riflessione, di coinvolgimento e di trasformazione. Lui, insieme a Margarita Padilla, ha anche lasciato scritti molto preziosi, in questo senso, nella pubblicazione annuale di “Espai en Blanc” e nei seminari che abbiamo organizzato nel dicembre 2008, già alcuni anni dopo, presso il Cccb su “La forza dell’anonimato”.
«Eravamo tutti su quel treno». Non è vero, ovviamente: non tutti eravamo su quei treni. A cosa e a chi si rivolge questo noi anonimo che ci coinvolge e interpella, in qualche modo, tutti? La riflessione sui nostri noi anonimi, che era già iniziata con lo zapatismo nella metà degli anni Novanta, ha acquisito un’altra dimensione e un’altra urgenza in seguito all’attentato. Che relazione possiamo avere con ciò che accade agli altri? La privatizzazione dell’esistenza e l’individualismo della nostra società ci hanno reso incapaci di percepire i problemi degli altri come nostri. Ad ognuno i suoi benefici e ciascuno i propri danni. Al massimo, le società del benessere si erano basate sull’idea che allo Stato spettasse di occuparsi che le condizioni per questa esistenza privatizzata fossero più o meno uguali in partenza e includessero fattori correttivi in caso di disgrazie molto grandi (malattia, disoccupazione, incidenti, ecc.). Ma al di là di questa mediazione istituzionale e astratta, cosa ci lega gli uni agli altri al di là della gestione dei nostri interessi comuni? Questa è la domanda che attraversa il destino delle società moderne e che dall’interno delle sue coordinate non può essere risolta.
Il dolore collettivo e irreparabile aggiunge una difficoltà e al contempo un’opportunità a questo problema fondamentale. Da un lato, come dice Berger, il dolore è ineffabile, non si può trasferire né condividere. Si può esprimere e ascoltare, ma non si può sentire il dolore dell’altro né scaricare parte della sua pena sminuzzandola in pezzi più piccoli da distribuire, come potremmo fare con un debito, ad esempio. Quello che può essere collettivo, invece, sono il desiderio e la necessità di rispondere a questo dolore. Non ci unisce il dolore ma la risposta al dolore. È nella risposta che possono incontrarsi la vittima, che è insostituibile e irriducibile, e gli afflitti, che sono innumerevoli e sempre ampliabili. Non tutti siamo vittime, ma tutti possiamo considerarci afflitti. In questo senso, «tutti eravamo su quel treno» diventa la dichiarazione di un legame basato sull’affetto.
Fu così che imparammo a comprendere l’ampiezza politica e umana della nozione di “affetti” e “afflitti”. L’affetto è quella dimensione dell’esperienza che supera i fatti individuali e la loro proprietà, perché include il modo in cui gli altri ci trasformano. Nell’affetto si trovano, quindi, la persona singolare, con il suo nome proprio, e l’esperienza collettiva, con il suo anonimato.
I gruppi che si sono riuniti intorno agli afflitti dell’11-M hanno creato la “Red Ciudadana”, che andava oltre il lavoro di gestione delle richieste delle vittime e del loro risarcimento. Dall’attività e dalle riflessioni di questa rete abbiamo imparato molte cose, ma forse la più importante è che la vittimizzazione, sempre strumentalizzabile per interessi estranei, può essere spezzata stando insieme al di là dei nostri dolori e delle nostre ferite particolari. Il dolore categorizza e gerarchizza: c’è sempre qualcuno che soffre più di te, c’è sempre una vittima più diretta, ecc. Ma questo isolamento e questa gerarchizzazione intorno alla vittima possono essere contestati e trasformati, aperti e condivisi fino a cambiarne il senso, da un noi affettivo e affetto. Allora, il dolore non crea gerarchie ma complicità.
Pochi anni dopo, la “Plataforma d’Afectats per la Hipoteca” recuperò con successo questa forza della complicità tra vittime dirette e afflitti. Afflitti dalle ipoteche non sono solo gli inquilini minacciati di sfratto, ma lo sono anche tutti coloro che sentono l’ingiustizia della violenza immobiliare sui loro vicini, sulla loro città e sulla dignità della vita nel suo insieme. Ancor più di recente, abbiamo vissuto una situazione analoga con la denuncia pubblica della violenza sessuale e di genere. Campagne come “#metoo”, in cui donne di tutto il mondo hanno raccontato gli abusi, le molestie e le aggressioni sessuali subite, o “#yotecreo”, di sostegno alle donne violentate sottoposte alla doppia violenza di dover passare attraverso un sistema giudiziario che mette in dubbio la loro testimonianza, hanno aperto un campo di azioni e di parole che non solo sono servite a esprimere solidarietà alle vittime, ma hanno trasformato il modo in cui ci comprendiamo e ci situiamo come corpi e soggetti l’una rispetto all’altra.
Questa complicità dell’afflizione non è mappabile né monitorabile da nessun potere. È imprevedibile quanto la nostra capacità di lasciarci influenzare e di aumentare la nostra potenza di coinvolgimento in un noi antigerarchico, legato dalla complicità nella risposta al dolore. Da qui, la “Red Ciudadana” ha formulato nel 2004 una domanda che sarebbe diventata sempre più importante a misura che la crisi economica del 2008 minacciava le nostre vite: cosa significa impegnarsi in un mondo che non si lascia cambiare in meglio? Di fronte all’irreversibilità del danno, che sia il terrorismo o lo sfruttamento economico, cosa significa l’impegno e dove porta? E se il senso di questa irreversibilità va verso una globalizzazione sempre più distruttiva, bellicosa e disuguale, qual è il significato del nostro impegno nelle lotte collettive, oltre a condividere la risposta al dolore? Possiamo fare qualcosa di più che prenderci cura di ferite che dovremmo invece poter evitare? In questo doloroso scenario di impotenza, la “Red Ciudadana” apriva una posizione di sfida ma allo stesso tempo abitabile: quella di un noi che non si definisce per ciò che rivendica, spesso frustrato, ma per la sua capacità di creare un mondo di affetti dentro e contro questo mondo.
Questo capitolo, ripreso da https://comune-info.net/ce-spazio-per-il-dolore-degli-altri/ titolo originale Affezioni, fa
parte del libro Occupare la speranza (ed.
Castelvecchi, traduzione dal catalano di Stefano Puddu Crespellani) di
Marina Garcés.
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