Sabino Cassese, Luci, ombre. Come
sta l'America,
Corriere della Sera, 12 novembre 2024
Che cosa ci
hanno insegnato le elezioni americane sulle condizioni di quella democrazia? La
prima lezione che si trae dalle vicende di questi giorni, andando al di là
degli aspetti cronachistici, riguarda la vitalità di quella democrazia.
L’affluenza alle urne è stata del 62 per cento (o del 58 per cento, se si segue
un diverso metodo di calcolo), non lontana, quindi, da quella italiana e
decisamente superiore alla partecipazione al voto nelle elezioni europee.
L’elezione di Trump ha oscurato le altre elezioni, per il Senato, per la Camera
dei rappresentanti, per alcuni Stati: l’america conferma che la democrazia si
declina sempre al plurale. Infine, il sistema Usa conferma che queste
molteplici democrazie possono servire alla popolazione per fare scelte diverse,
per esempio votare per un presidente repubblicano e contrapporgli un Parlamento
a maggioranza democratica.
La seconda lezione riguarda la postura cesarista del presidente eletto, quale
si è notata non solo in quello che ha promesso, ma anche nel modo in cui l’ha
fatto. Le recenti elezioni confermano così uno slittamento già notato dallo
storico Schlesinger nel 1973 (egli aveva definito imperiale la presidenza
americana) e confermato dal costituzionalista Ackerman nel 2010 (questi aveva
concluso che si assiste a un declino e a una caduta della Repubblica
americana).
Schlesinger aveva fondato la sua analisi sugli Stati Uniti «superpotenza
mondiale» e sull’esperienza della presidenza Nixon, e l’aveva riferita
principalmente alla politica estera e militare, mentre Ackerman l’ha basata sul
modo in cui i presidenti sono scelti, sulla colonizzazione della burocrazia e
sulla centralizzazione delle decisioni, sull’estremismo e sull’assenza di forze
moderatrici, sull’abbandono del principio del controllo civile sui militari,
sull’espansione del potere presidenziale di iniziare guerre senza
autorizzazione parlamentare, sul governo dell’emergenza, sull’uso politico dei
sondaggi di opinione, e infine sullo sviluppo degli staff legali del
presidente.
La terza lezione riguarda l’emersione in politica, con Elon Musk, delle «Big
Tech». L’aveva preannunciata con alcune dichiarazioni Zuckerberg, notando che
la propria organizzazione somiglia più a un governo che a una impresa. Questa è
l’evenienza più importante, frutto di una storia iniziata circa mezzo secolo
fa, nel quale l’ordinamento giuridico americano ha consentito la crescita di
giganti mondiali creando una bolla di immunità intorno ad essi (non vi sono
stati né regolazione, né interventi antitrust), ciò che ha permesso la loro
espansione universale, l’acquisizione di una potenza finanziaria e di influenza
sulle opinioni quale non si era mai vista, e, alla fine, il salto nella
politica.
Più sottile, quasi impercettibile, ma non per questo meno importante, il quarto
ordine di cambiamenti avvenuti, relativi al sistema politico. Questi sono
principalmente due. Una volta la macchina del partito sceglieva un candidato,
ora è il candidato che governa la macchina del partito. Una volta, sul mercato
della politica, l’offerta politica conquistava un consenso e una legittimazione
incontrandosi con la domanda dell’elettorato; ora le cose si svolgono
diversamente, come osservato da Obama nel suo libro sull’audacia della speranza
(2006), dove ha scritto «servo come uno schermo vuoto in cui persone con
opinioni diverse proiettano i loro punti di vista». Trump è riuscito come pochi
a rendere operativo questo nuovo modo di fare politica, in una campagna tipica
dell’«età della post-verità», vuota di programmi e piena di promesse, alcune irrealizzabili.
Ne deriva un «deficit crescente di capacità rappresentativa» della politica,
come ha osservato nel suo ultimo libro, su Les institutions invisibles (Seuil),
Pierre Rosanvallon.
Quinto: nella campagna elettorale è emersa periodicamente, ma in sordina, la
chiara obsolescenza del principale organo di garanzia, la Corte suprema, ancora
governata da una regola che riguarda ormai solo poche case regnanti e il
papato, quella della permanenza a vita nella carica.
La domanda dalla quale sono partito è importante, ed è fondamentale dare ad
essa una risposta, perché sono gli americani che hanno insegnato la democrazia
moderna al mondo. Lo fecero per bocca di un giovane magistrato francese, che,
appena ventiseienne, nel 1831, si imbarcò a Le Havre su un piroscafo, affrontò
una traversata atlantica di 39 giorni, passò negli Stati Uniti quasi un anno,
si dedicò per i quattro anni successivi a scrivere le sue osservazioni e
riflessioni, e con quel libro (La démocratie en Amérique) ha posto i
paradigmi di base della democrazia contemporanea.
Ora l’America è molto diversa da quella del 1831. Quando il giovane Alexis de
Tocqueville la visitò, aveva circa 13 milioni di abitanti, e si estendeva solo
sulla costa atlantica. Ora ha 335 milioni di abitanti e occupa un territorio
che va dall’Atlantico al Pacifico. Ciononostante, possiamo ancora imparare
molto dagli Stati Uniti, in particolare sui pericoli che corrono le democrazie.
Il primo insegnamento riguarda la concentrazione del potere al vertice:
assicurare la stabilità e la coesione dei governi non vuol dire farvi confluire
tutti i poteri. Il secondo riguarda il controllo dei poteri privati: assicurare
ad essi libertà di manovra non vuol dire ignorare i pericoli che la «bigness»
fa correre alle democrazie. Il terzo riguarda la rappresentanza politica:
perché questa funzioni, occorrono intermediari tra popolo e governo, che
operino per l’addestramento e la selezione della classe politica, come
interpreti di orientamenti popolari e quali autori di scelte. L’ultimo riguarda
la rotazione nelle cariche: James Madison, che fu due volte presidente degli
Stati Uniti, dal 1809 al 1818, iniziava il suo scritto su Il Federalista, n. 53
(1787 – 1788), con la seguente frase: «Mi si ricorderà forse, a questo punto,
una massima corrente che dice che “ove finiscono le elezioni annuali ivi
comincia la dittatura”».
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