Franco Ferrarotti, sociologo italiano (Palazzolo Vercellese 1926 - Roma 2024). Ritenuto il fondatore della sociologia italiana, le sue ricerche sono focalizzate sui fondamenti di legittimazione del potere in una società in trasformazione come quella moderna; intellettuale policentrico, ha inoltre studiato il problema dei fini e dell'orientamento culturale della società industriale.
La sua produzione teorica è stata pubblicata in Ricerche (2
voll., 2018) Scritti teorici (2 voll., 2019) e Scritti
autobiografici (2020).
Franco Ferrarotti, La Roma che
amo e quella che vorrei, il manifesto, 14 novembre 2024
Uno stralcio dall'ultimo
intervento scritto per il manifesto nel 2012
Per me, piemontese sradicato, errabondo e giramondo, che qualcuno ha avuto la
poca rispettosa idea di definire il «piemontese errante», Roma è, e da anni
resta, a dispetto della mia riluttanza, un segno significativo, un marchio
probabilmente indelebile (…).
La Roma che mi piace e di cui non potrò più fare a meno è
quella che mi ha insegnato a errare stando fermo – la Roma che fa convivere
Piazza Vittorio e Monti Parioli, il Rione Monti e Tor Pignattara. Questo è
veramente l’impero senza fine, l’accettazione dello straniero e del diverso con
una sorta di indifferenza sorniona che è integrazione lenta, ma inesorabile.
Chi ci arriva non se ne va più. Come mi accadde di dire all’indimenticabile
amico Filippo Bettini, Roma è l’eternità dell’effimero.
Ma c’è una Roma socialmente esclusa che mi angustia. Ed ecco
che la mia ardente romafilia vespertina cede alla romafobia di buon mattino,
quando, in un autobus stipato, sono un acino in procinto di venire debitamente
schiacciato e spremuto prima, molto prima di arrivare a destinazione. Roma non
è soltanto una città burocratica e ministeriale. La periferia non è più
periferica. Dei suoi due milioni ottocentomila abitanti attuali un terzo abita
in periferia. Se si fermasse la periferia, tutta la città sarebbe bloccata. Per
anni ho esplorato, battuto palmo a palmo la periferia romana. Al Borghetto
Latino ho anche affittato e sono vissuto in una baracca, d’inverno, quando
l’umidità non perdona… È una vergogna per le forze politiche e intellettuali di
sinistra che borgate, borghetti e baracche, a Roma, siano ancora il segno di
una città ferita, scissa in città e anticittà, centro e periferia, priva di una
lucidità condivisa.
Nei nuovi aggregati urbani la contrapposizione
centro-periferia non ha più senso. Per la semplice ragione che il centro non
potrebbe funzionare senza periferia. Ma a Roma la contrapposizione persiste.
Perché Roma non è, come molti ottimi studiosi hanno affermato, la «capitale del
capitale». Piacerà o meno, Roma continua ad essere ciò che è stata
storicamente: la capitale della rendita. I suoi piani regolatori si sono arresi
al blocco edilizio politicamente dominante attraverso a) le deroghe; b) le
varianti; c) la tolleranza dell’abusivismo e degli interessi settoriali, in
attesa della immancabile sanatoria con condono.
Non chiedo molto. Vorrei solo una Roma più sicura e meno
rumorosa, capace di dare un posto di lavoro non precario ai suoi giovani,
dotata di servizi urbani normali; autobus e metropolitana regolari, se non
proprio degni di Parigi o della «subway» di New York; strade passabilmente
pulite, proprietari di cani permettendo; un minore livello di corruzione; la
manutenzione dei tombini e della rete fognaria ad evitare allagamenti anche in
occasione di piogge non eccezionali. Non sarebbe la rivoluzione, ma solo un
grado di poco più alto di civiltà urbana, in un paese che non dovrebbe essere
immemore delle grandi lezioni di Leon Battista Alberti e degli altri
protagonisti del Rinascimento. (…) Nella presente fase di transizione, le due
grandi categorie storiche, la città monocentrica e la città industriale
agglutinante, non sono più sufficienti. Nasce una realtà urbana imprevista. Si
può anche parlare di realtà
post-urbana.
Lo sviluppo urbano è mosso dalle nuove esigenze di visibilità
e di partecipazione di masse umane di recente inurbate (urbanizzazione senza
industrializzazione), dal gioco degli interessi socio-economici, dai diritti di
proprietà dei suoli, dalla corsa alla privatizzazione del pubblico allo scopo
di garantire il parassitismo della rendita fondiaria e la massimizzazione dei
profitti per la speculazione edilizi. In questa prospettiva, la lettura
puntuale dei Piani regolatori attraverso gli Atti dei Consigli comunali è
importante, benché affaticante e noiosa. Storicamente, i Piani regolatori sono
stati concepiti come il volano dello sviluppo urbano e della utilizzazione
razionale del territorio. Ma la questione del rapporto fra spazio e convivenza
resta aperta. Né può dirsi dichiarata nei suoi termini specifici semplicemente
prendendo atto del continuum urbano-rurale o di quel fenomeno indicato da un
brutto neologismo, già segnalato, come rurbanization (rus e urbs) (…).
Purtroppo, è giocoforza constatare che la logica della città
industriale sta prevalendo su scala planetaria. Il principio tecnico subordina
a sé, alle proprie esigenze, rigidamente scandite, le dimensioni umane e i
processi naturali: cultura contro natura, meccanico contro organico, precisione
numerica contro approssimazione intuitiva. Peccato che la tecnica sia una
perfezione priva di scopo. Adottare il principio tecnico come principio-guida
significa trasformare i valori strumentali in valori finali: un equivoco dalle
conseguenze catastrofiche. Occorre, oggi, un nuovo profilo del costruire in cui
la precisione tecnica sia subordinata alle esigenze umane. Urbanisti e
architetti non progettano nel vuoto sociale. Bisogna imparare a costruire senza
violentare la natura o snaturare il territorio, sfigurare il paesaggio (…).
Un’alternativa al grattacielo c’è, cresce quotidianamente
sotto i nostri occhi. È il nuovo aggregato urbano policentrico. Centro e
periferia sono ormai categorie concettuali obsolete. Per questo occorre un
patto di collaborazione, quanto meno di non belligeranza, con la Natura.
L’iniziativa più rivoluzionaria, nelle condizione odierne, è in realtà un
ritorno: la riscoperta del modo di costruire mediterraneo, un riorientamento
del costruire che passi dall’interesse per il meccanico all’attenzione per l’organico,
un mutamento profondo (…).
Oggi, il calcolo scientifico della costruzione appare ancora legato a una logica di invasione e vittoriosa trasformazione dell’ambiente. Si autodefinisce e si autovaluta in metri cubi e in cementificazione. Questa impostazione predatoria va rovesciata con un nuovo stile del costruire, fondato su un concetto di natura non nemica, bensì collaboratrice. La nuova architettura si inserisce nell’ambiente senza violentarlo, indovina i passaggi e le vie da rispettare per dar loro aria e luce, non soffoca e non blocca, bensì apre, rischiara, vivifica.
Articolo ripreso da https://machiave.blogspot.com/2024/11/ferrarotti-visionario-in-memoriam.html
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