L’Italia variabile di Guido Piovene
L’Italia è bella perché è varia. E forse
nessuno dei mille viaggiatori che nei secoli l’hanno descritta,
mitologizzandola, è stato tanto assiduo e puntiglioso – nel dar conto di
tale inesauribile varietà – quanto colui che ne ha fornito l’immagine
in assoluto più ampia e meno mitologica, Guido Piovene. Per questo Viaggio in Italia, che Bompiani (il primo editore di Piovene, al quale egli dedicherà nel ’70 Le stelle fredde:
il metafisico antiromanzo “postumo in vita” a sua volta da poco
riproposto da Bompiani, col bellissimo saggio introduttivo di Andrea
Zanzotto, dal quale è stato accompagnato a partire dal ’73) riporta in
libreria a dieci anni dall’ultima edizione, resta un classico (che, in
quanto tale, certo avrebbe meritato qualche attenzione paratestuale in
più, rispetto alla breve nota di Oreste del Buono residuata
dall’edizione fornita nel ’93 da Baldini & Castoldi).
Rispetto alla tradizione illustre di cui
sopra, quello di Piovene ha la caratteristica, poi, di essere il
viaggio in Italia di un italiano; uno scrittore che oltretutto – senza
mai indulgere alle retoriche dell’arcitalianità – era molto
italiano. Il libro di Piovene rientra dunque in una tradizione che più
sottile s’inalvea entro quella maggiore, e celebrata: quella che va da
Gadda a Landolfi, da Ceronetti a Celati, cui Luca Clerici dedicava una
bella antologia, Il viaggiatore meravigliato, già nel ’99. Giorgio Manganelli – il cui viaggio in Italia fu ricostruito da Adelphi, col titolo La favola pitagorica,
pure una decina d’anni fa – meglio di altri ne ha saputo dire la
specificità: «L’italiano che emerge in me […] è uno dei modi
dell’altrove; […] l’Italia è estero. È un luogo da raggiungere, un luogo
lontano. È fuori». Chi da italiano viaggi in Italia deve diventare italiano:
e dell’Italia sa così evitare i luoghi comuni, appunto le mitologie, i
paesaggi cartolinizzati (del nostro tempo Piovene, in un pezzo del ’65
raccolto nel postumo Idoli e ragione, seppe antivedere il
«fotografare anonimo, infinito, nevrotico e insensibile, questa specie
di benda volontaria sugli occhi che impedisce di guardare il mondo»); si
sposta nelle pieghe e nelle intermittenze di un paesaggio che è,
anzitutto, il proprio paesaggio mentale; ne sa scoprire l’identità
multanime, la segreta estraneità del noto e, viceversa, la perturbante
familiarità di quel che si vede per la prima volta; ne mette a fuoco le
rimosse realtà di provincia che restano il DNA antropologico profondo,
ineliminato, di quanto continuiamo a chiamare italianità.
Tutti questi viaggi sono dunque, in effetti, dei ritorni a casa: e oltretutto, nel caso di Piovene, si trattò davvero di un viaggio da fuori,
perché quando nel 1953 il direttore del Giornale Radio della Rai,
Antonio Piccone Stella, gli propose l’idea di quello che quattro anni
dopo diverrà Viaggio in Italia (con ogni probabilità sulla suggestione del suo primo grande libro di viaggio: il De America
uscito quell’anno da Garzanti e risultato dal periplo di 20.000 miglia,
da New York alla California, affrontato nel ’50-51; al volante – allora
come in seguito, sempre – la facoltosa quanto devota sua seconda moglie
Mimy, cioè Rachele Pavia), Piovene risiedeva ormai da anni all’estero, a
Parigi, dove per qualche tempo aveva lavorato all’Unesco (ancora
all’estero, a Londra alla fine del ’74, finirà per morire precocemente,
semiparalizzato dalla SLA).
Come altri italiani molto
italiani Piovene avvertiva un’insofferenza, per una certa Italia, alla
quale era ed è difficile dare un nome (dev’essere per questo che all’Ombra di Piovene
ha intitolato Franco Cordelli un suo libro di ossessioni e riflessioni
al quale, uscito nel 2011 da Le Lettere, si può ascrivere la cauta
quanto significativa Piovene renaissance di questi ultimi
anni). Le spie di tale insofferenza vanno cercate proprio in questo
libro in apparenza ammantato di «deplorevole ottimismo» (come lo rilegge
a distanza lo stesso autore, in un magnifico scritto dal titolo Contro Roma,
recuperato proprio da Cordelli, redatto nel ’73 ma uscito due anni dopo
in un omonimo libro a più voci): le cui puntate andarono in onda, di
sabato e lunedì dal ’53 al ’56, passarono per un rotocalco (il
mondadoriano «Epoca»), per infine pervenire, nel ’57, in una lussuosa
edizione Mondadori che fu un successo (tredici edizioni del volume ad
alto costo, un’edizione economica nel ’66, una scolastica nel ’73) e
conobbe anche una riproposta televisiva nel ’68 (sono notizie che ricavo
dall’altra antologia di Luca Clerici, la monumentale Scrittori italiani di viaggio
uscita nei «Meridiani» nel 2013). Sicché è un peccato che tale origine
“crossmediale”, come si usa dire oggi, sia negletta dall’assenza, da
quest’ultima riedizione (come peraltro dalle precedenti), delle
bellissime foto aeree di cui era corredata la princeps (ma opportuno sarebbe stato corredarla, pure, degli eloquenti “ritorni” di Piovene: il citato Contro Roma senz’altro, ma anche le pagine sulla Val Camonica comprese, nel ’90, nel secondo volume dei Saggi).
L’ampiezza dello sguardo di Piovene si
deve anche allo spazio a sua disposizione, ben eccedente quello degli
altri scrittori di viaggio i cui reportage nascevano sulle pagine dei giornali: format
allora ben più ampi di quelli di oggi, certo, ma comunque tali da
costringere, quegli scrittori, a equilibrismi retorici non sempre
alleati della perspicuità e della “leggibilità”. L’andamento pacato e
conversevole del viaggio di Piovene, la sua disponibilità
all’esitazione, alla correzione, anche alla ripetizione con juicio,
deriva proprio dalla destinazione “orale” delle sue pagine. Ma è così
che Piovene può restituire la mutevolezza, la bellezza cangiante (per
dirla con l’Hopkins dell’amico Montale) del suo paese. Non solo le
Marche «sono un plurale»: l’Italia, «nel suo insieme, è una specie di
prisma, nel quale sembrano riflettersi tutti i paesaggi della terra»: «è
un distillato del mondo». E infatti Piovene si compiace di veder
riflessi a distanza, di questo prisma, gli angoli più lontani: nella
Sila ritrova «l’Alpe di Siusi o addirittura la penisola scandinava», in
Lucania scopre angoli di Varesotto, e del «bosco classico italiano,
quello dei versi dell’Ariosto».
Ma l’Italia di Piovene è varia
non solo in senso geografico. Della grande tradizione che il suo titolo
riassume, il suo preferito era il testo in molti sensi fondativo, il Giornale di viaggio in Italia
(scritto nel 1580-81, ma pubblicato solo due secoli dopo) del signor di
Montaigne. Le star del genere a venire, come Stendhal, gli
rimprovereranno una certa secchezza analitica, una mancanza d’entusiasmo
e di «pittoresco», ma come dice Piovene nel Postcriptum
all’edizione del ’66 (che è già un primo, significativo, “ritorno”
palinodico), il bagaglio di notizie in primo luogo economiche,
l’escussione dei dati storici e statistici, insomma la qualità
d’«inventario» che ha voluto emulare da Montaigne, sono un peso
necessario per dare «il senso del concreto», al viaggio, e sottrarlo al
«terreno spurio delle elucubrazioni più o meno brillanti su pretese
caratteristiche perenni dell’Italia e dei suoi abitanti». Di pittoresco,
quando voleva, Piovene poteva produrne quanto voleva (si leggano le
pagine rapinose sulla Sicilia, «una delle terre più belle del mondo»;
quelle quasi da inviato speciale, in Puglia, da Padre Pio; o quelle
sognanti sul vero e proprio ritorno nell’heimat
vicentina); ma se ne asteneva, il più delle volte, per una precisa
scelta etica prima che stilistica. «Meglio – scrive nel ’59 in una
prefazione al Journal di Montaigne – tenersi il più possibile alle opere e ai fatti, che sono tutto l’uomo e bastano per definirlo».
Da Montaigne, però, Piovene deriva non solo la concretezza, bensì e in primo luogo la variabilità, degli umori e delle idee («le idee», confessa nella premessa a Idoli e ragioni che è fra le ultime pagine da lui scritte, «sono state per me viaggi»). Un altro suo amico incline ai ritorni, Vittorio Sereni (al quale nel ’66 Piovene dedica un “pezzo” – a sua volta in Idoli e ragione
– di eccezionale penetrazione critica, e che si lascia leggere come un
“cartone” dei suoi ultimi, straordinari romanzi), presenterà la prima
edizione della sua ultima raccolta di versi, Stella variabile,
con una formula dedotta proprio da Montaigne: «La vita fluttuante e
mutevole». Non solo mutano, con a tratti quasi insostenibile vibratilità
nervosa, i dettagli del paesaggio osservato, per così dire, nel
presente; soprattutto variano il tono e il senso, di quel paesaggio, a
distanza di tempo. È una sensibilità che Piovene sa essere il suo proprium stilistico, ma anche la tabe (ideologica) che da sempre gli viene rimproverata: l’ambiguità che di volta in volta rivendica (la famigerata «malafede») e rinnega. E che rende non meno che tormentosi i suoi ritorni in Italia.
Già nel ’57 percepisce «il nuovo
sovrapporsi al vecchio col distacco di una pellicola fotografata due
volte in paesi diversi»: dell’Italia registra cioè, con eccezionale
acutezza, il mutare rapido dei caratteri antropologici, «la
liquidazione» per esempio «del Sud classico e umanistico». E lo fa in
termini che anticipano di un buon quindicennio le ben più note, e più
gridate, considerazioni di Pasolini (i due scrittori furono legati da
una mutua ambivalenza). Ma a posteriori, col «malumore» del ’66 e soprattutto delle quasi testamentarie pagine di Contro Roma,
il bilancio si fa ben più grave. Quella che già nel ’57 definisce la
«società più mobile, più fluida e più distruttrice d’Europa» la vedrà
affetta da un «furioso modernismo ritardatario», da uno «spirito
villano» che non perde occasione per perdere le sue consistentissime
occasioni di un accesso equilibrato e consapevole alla modernità (nessun
élan di primitivismo «pittoresco», si capisce, in Piovene). E
resta così, l’Italia, «un paese oscuro a se stesso»: che per esempio
assiste, dirà brutalmente in Contro Roma, allo sgretolarsi del
suo patrimonio artistico senza pari come alla «morte di un vecchio cane
che toglieva libertà in casa». L’unità del paese è stata realizzata a
freddo, ma Piovene previene le ricette folk a venire: la
«cultura regional-popolare per me è altrettanto dubbia di quella
nazional-popolare di buona memoria». In realtà, scrive nel ’73, «siamo
in bilico tra due vuoti»: una rivoluzione socialista che lascerà,
gattopardesca, tutto come era prima, oppure «tirare avanti all’infinito
con un’Italia aculturale e affarista» che «scivolerà tra le nazioni più
arretrate […], mentre i popoli ex coloniali salgono. Sarà grave per noi,
indifferente per il mondo». Com’è andata a finire, si sa.
Il vuoto è l’incubo dell’ultimo
Piovene: quello che assiste come da un altro pianeta alla fine non solo
del suo mondo, contemplando assiderato «la ex bellezza del mondo» come
dirà nelle Stelle fredde, ma dell’idea stessa di mondo. Così siglerà questo sentimento il Sereni di un postremo “viaggio in Italia”, Autostrada della Cisa,
sfrecciando in auto «di tunnel in tunnel»: «Ancora non lo sai / –
sibila nel frastuono delle volte / la sibilla, quella / che sempre più
ha voglia di morire – / non lo sospetti ancora / che di tutti i colori
il più forte / il più indelebile / è il colore del vuoto?»
Guido Piovene, Viaggio in Italia, nota di Oreste del Buono, Bompiani, pp. 896, € 20
Pezzo ripreso da http://www.leparoleelecose.it/?p=30145.Una versione più breve di questo articolo è uscita su «Il sole 24 ore-Domenica».
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