Un povero, un
marginale, un “matto”. Eppure capace di vedere dietro il grigiore
della Bassa padana animali esotici e piante tropicali. Dove per gli
altri, i “normali”, c'era solo nebbia, Antonio Ligabue vedeva
grandi macchie di colore. Una pittura visionaria dalla potenza
evocativa assoluta.
Alberto Manguel
Ligabue
Borges, in un testo ormai
famoso, lamentava la povertà dei nostri sogni, che trovava incapaci
di ricreare a piacimento le cose del mondo esteriore. Cercare di
sognare, per esempio, una tigre, diventò un esercizio fallimentare,
confessava Borges. «Appare, sì, la tigre, ma debole o smagrita, o
con impure variazioni di forma, o di una grandezza inammissibile, o
in una visione troppo fugace, o somigliante a un cane o a un
uccello". La nostra esperienza del mondo che ci circonda è
immancabilmente superficiale: giudichiamo dalla pelle e dalla
corteccia e non andiamo oltre, se non attraverso le invenzioni della
psicologia e i miracoli del microscopio. La vista è un esercizio di
intromissione. A volte, se le stelle sono benevole, vediamo non le
bestie deboli e smagrite che apparivano a Borges, ma la tigre di
Blake e i leopardi che irrompono nel tempio di Kafka.
Non sappiamo,
naturalmente, che cosa vedesse Ligabue, ma possiamo osservare ciò
che ha cercato di testimoniare, e queste rappresentazioni sono per il
pubblico più vere della cosa vera. Le sue visioni sostituiscono le
nostre. Le sue tigri e le altre sue creature selvagge — i gatti
assassini, i ragni giganti, i lupi cattivi — prendono il posto, con
sorprendente violenza, degli animali in gabbia dei nostri zoo urbani
e delle bestie dei libri illustrati della nostra infanzia. Anche
nelle sue scene di serene attività pastorali — l'aratura della
terra, l'artista e la sua motocicletta (la stessa che gli sarebbe
stata fatale) raffigurati durante una gita in campagna, la fattoria
con i suoi pollai e i suoi cavalli aggiogati — trasudano un senso
di pericolo dietro il loro aspetto di vita quotidiana. In queste
scene, è accaduto, o sta accadendo, qualcosa di cui non siamo a
conoscenza, o sta per accadere e verrà sparso del sangue. Il nostro
sangue, forse, se non stiamo attenti.
Questo senso di minaccia
o di timore viene in parte dalle stesse immagini raffigurate, ma in
parte anche dal tessuto fisico dei dipinti, dalle spesse pennellate
di colori primari, dalle forme ben definite delle zanne e degli
artigli, dei rami e delle piume. Le creature di Ligabue e i loro
paesaggi sono tangibilmente presenti, letteralmente sulle nostre
facce, e premono fisicamente su di noi rivendicando il posto che gli
spetta tra i vivi. Nei dipinti di Ligabue, il noto si rivela ignoto,
l'atteso come inatteso. Ciò che è Heimlish (in tedesco, segreto)
diventa Unheimlisch (rivelato).
Freud, nel suo saggio sul
perturbante, osserva che «quelle cose, persone, impressioni, eventi
e situazioni capaci di destare in noi con particolare forza e
nitidezza il senso del perturbante», agiscono sui nostri sensi
facendoci chiedere se «un essere apparentemente animato sia
veramente vivo, o viceversa, se un oggetto privo di vita non sia per
caso animato». Freud (citando un collega psicologo) fa riferimento
al disagio che provocano in noi figure di cera, bambole artificiali e
automi, aggiungendo a questa categoria l'effetto perturbante di crisi
epilettiche e manifestazioni di follia, in quanto «fenomeni che
suscitano nello spettatore la sensazione che processi automatici,
meccanici, si celino dietro l'apparenza ordinaria dell'animazione ».
Lo stesso si può dire in gran parte dei ritratti di Ligabue.
Degno di nota, tra le
fauci spalancate di tigri, leoni e altre creature, è il volto
dell'artista stesso. Il nostro viso è la nostra identità pubblica:
dice al mondo chi siamo. La maschera, la faccia che imita una faccia,
era indicata nell'antica Grecia come "persona", come se le
sue fattezze, e nient'altro, bastassero per affermare la presenza di
un individuo: una presenza o un'assenza. I ritratti sui sarcofagi
romani del Fayum, le miniature dei defunti che pendevano al collo
delle vedove rinascimentali, le fotografie color seppia dei cari
scomparsi sulle tombe di marmo in Sicilia, attestano la persistenza
di queste memorie dei morti ancora riconoscibili per i loro occhi, il
loro naso, la loro bocca.
Per Ligabue, il volto
dell'artista è la sua pretesa di esistere nel presente di chi lo
osserva. Questa intuizione ha forse una giustificazione psicologica
che ci insegna che lo "io sono" inizia con un "io non
sono". «Nei primi mesi della nostra vita, quando il mondo
comincia a formarsi in un sistema ordinato di segni significativi,
salviamo dal magma di immagini che ci assediano l'immagine di un
volto. Il primo senso di identità del bambino (un'esperienza che gli
esseri umani condividono solo con elefanti, scimmie e delfini) deriva
dal vedersi in uno specchio scoprendo che quel volto non appartiene a
nessun altro. "Io non sono il volto al di sopra del seno che mi
nutre", impara il bambino, "né il volto che si china su di
me preoccupato quando piango, né il volto che ride con me quando
sorrido. Sono un altro volto, un volto che è mio"».
Il volto di Ligabue,
costruito con pennellate di colori non diluiti, è solo il suo,
modellato da lui stesso per se stesso. Figlio di padre ignoto, orfano
della madre e dei fratelli che morirono per un'intossicazione
alimentare quando era ancora adolescente, rinchiuso in una clinica
psichiatrica dalla madre affidataria ed espulso dalla Svizzera per
una denuncia del padre adottivo, Ligabue fu più volte spogliato
della sua identità. Solo quando l'artista Renato Marino Mazzacurati
scoprì il talento di Ligabue e lo aiutò ad acquisire la tecnica
pittorica, Ligabue cominciò a scoprire dei lineamenti che poteva
definire suoi in autoritratti apertamente provocatori. In ognuno di
essi, gli occhi nel viso emaciato guardano di lato, come sfidando lo
spettatore a spostare il suo sguardo verso un angolo invisibile al di
là della cornice.
Tutti i volti, reali o
immaginari, seguono in qualche forma un processo di
auto-riconoscimento e auto-costruzione. Il dottor Frankenstein porta
a termine la costruzione del suo mostro solo dopo aver dato un volto
adeguato al carattere perturbante della creatura. È il volto che
Boris Karloff avrebbe immortalato nei film di James Whale, grazie
all'abilità di Jack Pearce, un'artista del trucco.
Pearce si attenne
rigorosamente alla descrizione di Mary Shelley: dove, secondo il
romanzo, il dottore aveva inserito un cervello nel cavo del teschio
preso in prestito, Pearce tracciò una lunga spaventosa cicatrice e
diede alla pelle il pallore cadaverico descritto dall'autrice, che
ottenne usando, in un film in bianco e nero, una pittura verde. Per
indicare la sorgente elettrica che dà vita al mostro, Pearce inserì
due bulloni sui lati del collo della creatura, con la funzione di
orribili elettrodi.
Questo volto mostruoso,
implicitamente composto dai pezzi dei tanti corpi smembrati da cui il
medico ha tratto le sue parti, è quasi troppo grande per essere
vero. Il volto enorme del Mostro è l'opposto del volto svuotato di
Greta Garbo che fissa il mare che la circonda in La regina Cristina.
Gli spettatori riempiono quel viso classico, privo di pensiero o
sentimento, con i propri desideri e le proprie paure. Nel caso di
Ligabue, il volto ritratto dell'artista non è vuoto come quello
della Garbo, né pieno come quello del Mostro: volge lontano il suo
sguardo da quello curioso dell'osservatore verso una zona di
auto-definizione invisibile a tutti se non a lui.
In definitiva, cerchiamo
la conferma della nostra esistenza nel nostro volto percepito,
intuito o immaginato, come il pellegrino croato nel Paradiso che,
dopo aver visto l'immagine della Veronica, esclama: «Segnor mio Iesù
Cristo, Dio verace, / or fu sì fatta la sembianza vostra?». Questa
rassicurazione ci è data ogni mattina davanti allo specchio: Ligabue
l'ha cercata di tela in tela. Credere in questa modesta supposizione
dipende dalle nostre aspettative, dalla nostra memoria, dalla nostra
capacità di arrenderci ai "non falsi errori" e
all'evidenza delle cose viste.
Traduzione di Luis E.
Moriones
La Repubblica – 21
novembre 2017
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