Abbiamo un debito con don Milani. Nel 1967 "Lettera a una professoressa" ci
fece pensare alla scuola come a un luogo di riscatto sociale, una scuola di
tutti e per tutti. Così diventammo dei cattivi
maestri, convinti che la peggiore
ingiustizia fosse fare parti uguali
fra diseguali e che la scuola, nella fascia dell’obbligo, prima di tutto dovesse
essere luogo di relazione e, tramite l’educazione civica e linguistica, luogo
di scoperta di se stessi nell'incontro con gli altri.
Oggi recupero un bellissimo articolo di Marco Rossi Doria,
dedicato all’opera di Don Milani e ad alcuni suoi eredi, pubblicato su La Stampa. E trovo sorprendente, dopo
tutto il fango gettato sulla Scuola di Barbiana, che l’attuale sottosegretario alla Pubblica Istruzione rivaluti
la sua lezione.
Scuola malata, è ora di
tornare a Barbiana
Marco Rossi Doria
Eravamo nel pieno del boom
economico e tutto sembrava finalmente andare per il meglio. Quando, nel 1967,
uscì Lettera a una professoressa e arrivò in ogni angolo d’Italia il
monito, severo e profetico, di don Milani: «la scuola ha un solo problema: i
ragazzi che perde».
In quel libro c’erano i dati che
mostravano che la classe sociale dei genitori determinava il successo o
l’insuccesso scolastico, in larghissima misura. Quel monito ci sta ancora
addosso. Perché è ancora oggi così. Sono i figli dei poveri a fallire a scuola.
E sono tanti: il 20% del totale. Che tende a diventare il 30% e più nel Sud
come nelle periferie del Centro e del Nord. Lo dicono i dati del ministero
dell’Istruzione, quelli Istat, la Banca d’Italia, la relazione della
Commissione indagine sulla povertà. Lo mostra, pezzo per pezzo, il bellissimo Atlante
dell’infanzia a rischio , curato da Save the children ricordandoci che
mentre nella maggior parte d’Europa il figlio di un genitore di medio reddito e
istruito ha 2 o 3 volte più probabilità di completare l’intero ciclo di studi,
da noi ha 7,7 più probabilità! Il più grande scandalo d’Italia.
Così, è passato quasi mezzo
secolo. Ma resta questo il principale problema non solo della scuola ma
dell’intera società italiana. Dobbiamo riuscire a dare di più a chi parte con
meno nella vita e la scuola va ancora ben sostenuta perché non vi è altro luogo
che possa essere leva precoce di emancipazione e riequilibrio sociale.
Per questo l’Unione Europea dal
2000 - la famosa agenda di Lisbona ci chiede di scendere sotto il 10% di
fallimento formativo. E la questione è che noi non ci siamo ancora riusciti.
Benché siamo ben consapevoli che il non riuscirci, oltre a essere una minaccia
alla coesione sociale, ci priva di enormi risorse umane capaci di azioni
positive, un fatto che condiziona la stessa crescita economica. Perciò:
l’agenda politica, le scelte nella revisione delle spese e degli investimenti
pubblici deve tenere conto innanzitutto di questa questione.
Ma più che i dati, come spesso
accade, le vie da imboccare per riparare alle ingiustizie generali le
descrivono bene i libri che parlano di gesti, di giorni, di vicende umane.
Nelle bellissime pagine di Insegnare
al principe di Danimarca (Sellerio) la molto compianta Carla Melazzini
racconta del lungo nostro lavoro con i ragazzi che avevano abbandonato la
scuola a S. Giovanni a Teduccio, Barra, Quartieri Spagnoli, Soccavo,
Ponticelli. È una scrittura sorvegliata, severa - come Carla era - che mostra,
con fatica e poesia, il lavoro della scuola che sa andare verso chi ne è stato
escluso. Lavoro di grande complessità artigianale, fatto a Napoli eppure simile
a quello svolto da altri insegnanti e educatori a Torino, a Verona, a Palermo,
a Reggio Emilia, a Milano. Il creare un luogo salvo, una zona franca, una
chance. Dove curare - nel bel mezzo delle devastazioni - le ferite sociali ed
emotive. Per restituire la guida adulta, la via dell’apprendimento, della
motivazione, della cura di sé. Per ridare «la capacità di aspirare», come viene
definita in un importante saggio di Arjun Appadurai ( Le aspirazioni nutrono
la democrazia , Et al. Edizioni).
Sono pagine difficili quelle di
Carla Melazzini. Perché chiedono di ritornare a pensare alle persone che
crescono. Perché chiamano l’intero sistema d’istruzione e formazione a
rimettere insieme i pezzi, a coniugare meglio il sapere e il saper fare. E a
misurarsi molto di più con l’essere quotidiano di ciascun ragazzo. Com’era a
Barbiana, dove nell’aula di sopra c’erano i libri, le figure geometriche e le
mappe, nell’aula di sotto gli arnesi per costruire e manutenere oggetti e il
laboratorio di esplorazione scientifica e in ogni momento la possibilità di fermarsi
e «parlare di noi», di quel che sta succedendo e di come va, senza mai
dimenticare che si sta lì per imparare.
Quattro anni prima dell’uscita di
Lettera a una professoressa, Adele Corradi salì a Barbiana. Ora
finalmente lo racconta nel libro Non so se don Lorenzo (Feltrinelli).
Era il 29 settembre 1963. Oggi
decide di lasciare indietro la
sua riservatezza e ci riporta proprio lì. Con un avvertimento: «Non si racconta
in questo libro la storia di don Milani…. Si parla di lui, ma non se ne
racconta la storia. Chi la volesse conoscere dovrà rivolgersi altrove…. Qui
sono messi a fuoco frammenti di vita, frammenti sparsi, affiorati alla memoria
col disordine dei ricordi». Adele ricorda il giorno dell’inizio, domenica, S.
Michele. Ma non ricorda che lezione avesse tenuto. Rammenta, però, che don
Lorenzo, in modo per lui inconsueto, le disse: «Ritorni». E lei si è da allora
sempre chiesta perché: «.. o gliel’ha suggerito lo Spirito Santo o io con la
telepatia». Così, dopo qualche giorno ritornò. E partecipò alla prima vera
lezione, un esercizio di scrittura collettiva. E di lì si va avanti nel
racconto, scena dopo scena, con i gesti e il parlato riportati entro un
interrogarsi profondo e semplice. Perché questo libro rimette ogni lettore nel
ritmo e nella parola di quel luogo, nel suo senso quotidiano. E così Adele ci
fa un regalo immenso: toglie il peso del mito a Barbiana. E finalmente
restituisce quella scena alla magica imperfezione delle persone al lavoro, che
tentano, che riparano, che si chiedono, che litigano, che non sanno e che
comunque riescono.
Ritrovare l’occasione e il modo
di fare bene scuola provando a capire il proprio tempo e il mondo è sempre
possibile. E rimettersi in gioco è la chiave dell’educare. Come ci dice ancora
Adele, oggi quasi novantenne: «Sono stata insegnante di lettere alle medie fino
alla pensione a 67 anni. Devo confessare che ero un’insegnante identica alla
destinataria di Lettera a una professoressa … L’incontro con la scuola
di Barbiana ha scavato un solco nella mia vita. Mi sono vista come non mi ero
mai vista. E non solo come insegnante, ma come persona».
Dunque, la vicenda di Barbiana e
delle buone scuole delle nostre troppe periferie non è solo un’azione a
sostegno dell’equità e a vantaggio di una società democratica. Ma permette
trasformazioni. E ci dice la direzione da prendere per tutta la scuola. Perché
l’azione pedagogica diretta a chi ha più bisogno spesso muta gli approcci
profondi e sa indicare vie innovative. La necessità fa virtù. Perciò don Milani
diceva: «Verrà un giorno in cui coloro che vogliono guarire le scuole malate
dovranno salire a Barbiana».
È ora di ripartire da una scuola
a tutto tondo, che integri studio, esperienza, riflessione ben organizzata sul
mondo e sul sé. E che consenta di riportare anche tutta la meraviglia del
sapere diffuso dai nuovi media entro l’azione composita e costante di un luogo
accogliente e rigoroso. Un luogo salvo e innovato.
(Da: La Stampa del 3 maggio 2012)
P.S. E' interessante la testimonianza inedita del maestro Mario Lodi pubblicata da L'Avvenire qualche giorno fa:
Mario Lodi, testimonianza raccolta da Sandro Lagomarsini il 18 aprile 2009
P.S. E' interessante la testimonianza inedita del maestro Mario Lodi pubblicata da L'Avvenire qualche giorno fa:
Il maestro Lodi alla
scuola di Barbiana
Era l’agosto del 1963. Mentre stavo in villeggiatura in
Toscana, l’amico giornalista Giorgio Pecorini mi propose di andare a far visita
a un prete, don Lorenzo Milani. Non lo conoscevo. Pecorini mi ha portato in
macchina sull’Appennino. Arrivato a Barbiana, il mio primo contatto è stato con
i ragazzi. Stavano sotto il pergolato, studiando, scrivendo, facendo cose
varie. C’era anche un gruppo a sguazzare in una piscina. Seppi che l’avevano
costruita loro. Io vedevo dei ragazzi che si divertivano, ma per don Milani il
nuoto era un apprendimento utile, che poteva «servire per la vita». Poi ci fu
l’incontro con il “Priore”. Provenivamo da due esperienze diverse. L’esperienza
mia era collegata al Movimento di Cooperazione Educativa, nato quando l’Italia
aveva “voltato pagina”. Era passata dalla dittatura alla guerra poi alla pace e
alla nuova vita democratica. Si trattava, a nostro giudizio, di introdurre anche
nella scuola i principi della democrazia, di realizzare a partire dalla scuola
la società dei pari, degli uguali. La scuola era ancorata al vecchio modello,
il modello verticistico, trasmissivo, “televisivo” in anticipo: io preparo i
programmi, tu devi assorbirli e basta. Non devi pensare, non devi creare:
questo era il messaggio complessivo. Noi volevamo cambiare quella scuola, per
metterla al servizio della democrazia.
Don Lorenzo invece era stato formato dalla Chiesa. L’esperienza l’aveva fatta dentro la Chiesa, attraverso il suo apostolato, se così si può dire. Ma io lo trovai curiosissimo a riguardo della mia attività di maestro. Il motivo credo di averlo capito. Anche se i nostri percorsi erano stati diversi, tutti e due avevano lo stesso fine: creare un popolo libero, che sapesse ragionare, pensare, essere artefice del proprio futuro. Alla fine della giornata, don Milani volle che mi fermassi a dormire a Barbiana. Anche il secondo giorno fu pieno di domande. Don Lorenzo voleva sapere com’era la nostra scuola: quante ore lavoravamo, se facevamo scuola anche la domenica, se facevamo delle attività extra che non si facevano a Barbiana. Insomma, tantissime domande per sapere com’era l’Italia al di fuori dei confini di quella piccola parrocchia trasformata in scuola. Spiegai tutte le cose che facevamo nel Movimento di Cooperazione Educativa, seguendo l’esempio di Célestin Freinet. È stato Freinet a introdurre nella scuola il testo libero, il calcolo vivente, la corrispondenza, le attività artistiche, eccetera.
Alla fine dei due giorni, don Milani disse che doveva decidere se collaborare con noi oppure no. Era tentato dalla corrispondenza. Avrebbe voluto fare con i suoi ragazzi una prova dell’arte dello scrivere, come diceva lui, preparando una lettera nella quale trovassero posto i pensieri di tutti, dal più grande al più piccolo. Salutandoci disse: «Siamo in agosto. Se decideremo di tenere una corrispondenza con voi, vi arriverà una lettera tra il Primo e il Quattro novembre». Non ho mai capito il perché di quel periodo preciso. Comunque, entro il tempo stabilito arrivò la lettera datata 2 novembre. Si trattava in realtà di due lettere, la sua, nella quale spiegava come aveva lavorato assieme ai bambini e la lettera dei ragazzi, che descrivevano la loro scuola e spiegavano perché la frequentavano. Questo modo di scrivere, di utilizzare i ragazzi con la freschezza del loro linguaggio infantile per dire cose importanti, era la prima provo di un metodo che avrebbe poi prodotto la Lettera a una professoressa.
Ricordo che nello stanzone usato da don Milani per fare scuola, erano esposti gli articoli della Costituzione: lo notai perché io avevo fatto lo stesso nella mia aula. A Barbiana gli articoli più in evidenza erano l’articolo 11 e il 21. L’undici perché dice che «l’Italia ripudia la guerra». Don Milani ebbe poi, proprio su questo, un duro scontro – e anche guai giudiziari – con alcuni cappellani militari in congedo. C’era anche l’articolo 21, il quale dice che tutti (tutti quindi, non tutti tranne i bambini) hanno diritto di esprimere il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo. Si capisce: ogni altro mezzo che la società tecnologica mette a disposizione. Perciò, stando a quell’articolo, avremmo anche il diritto di usare la televisione. Se solo ce lo concedessero. E invece questa televisione, a mio parere, ci vuole muti. Don Milani, al contrario, ha speso la sua vita per «dare la parola». Nel 1963 don Lorenzo era già malato. Non ho più avuto l’occasione di incontrarlo.
Don Lorenzo invece era stato formato dalla Chiesa. L’esperienza l’aveva fatta dentro la Chiesa, attraverso il suo apostolato, se così si può dire. Ma io lo trovai curiosissimo a riguardo della mia attività di maestro. Il motivo credo di averlo capito. Anche se i nostri percorsi erano stati diversi, tutti e due avevano lo stesso fine: creare un popolo libero, che sapesse ragionare, pensare, essere artefice del proprio futuro. Alla fine della giornata, don Milani volle che mi fermassi a dormire a Barbiana. Anche il secondo giorno fu pieno di domande. Don Lorenzo voleva sapere com’era la nostra scuola: quante ore lavoravamo, se facevamo scuola anche la domenica, se facevamo delle attività extra che non si facevano a Barbiana. Insomma, tantissime domande per sapere com’era l’Italia al di fuori dei confini di quella piccola parrocchia trasformata in scuola. Spiegai tutte le cose che facevamo nel Movimento di Cooperazione Educativa, seguendo l’esempio di Célestin Freinet. È stato Freinet a introdurre nella scuola il testo libero, il calcolo vivente, la corrispondenza, le attività artistiche, eccetera.
Alla fine dei due giorni, don Milani disse che doveva decidere se collaborare con noi oppure no. Era tentato dalla corrispondenza. Avrebbe voluto fare con i suoi ragazzi una prova dell’arte dello scrivere, come diceva lui, preparando una lettera nella quale trovassero posto i pensieri di tutti, dal più grande al più piccolo. Salutandoci disse: «Siamo in agosto. Se decideremo di tenere una corrispondenza con voi, vi arriverà una lettera tra il Primo e il Quattro novembre». Non ho mai capito il perché di quel periodo preciso. Comunque, entro il tempo stabilito arrivò la lettera datata 2 novembre. Si trattava in realtà di due lettere, la sua, nella quale spiegava come aveva lavorato assieme ai bambini e la lettera dei ragazzi, che descrivevano la loro scuola e spiegavano perché la frequentavano. Questo modo di scrivere, di utilizzare i ragazzi con la freschezza del loro linguaggio infantile per dire cose importanti, era la prima provo di un metodo che avrebbe poi prodotto la Lettera a una professoressa.
Ricordo che nello stanzone usato da don Milani per fare scuola, erano esposti gli articoli della Costituzione: lo notai perché io avevo fatto lo stesso nella mia aula. A Barbiana gli articoli più in evidenza erano l’articolo 11 e il 21. L’undici perché dice che «l’Italia ripudia la guerra». Don Milani ebbe poi, proprio su questo, un duro scontro – e anche guai giudiziari – con alcuni cappellani militari in congedo. C’era anche l’articolo 21, il quale dice che tutti (tutti quindi, non tutti tranne i bambini) hanno diritto di esprimere il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo. Si capisce: ogni altro mezzo che la società tecnologica mette a disposizione. Perciò, stando a quell’articolo, avremmo anche il diritto di usare la televisione. Se solo ce lo concedessero. E invece questa televisione, a mio parere, ci vuole muti. Don Milani, al contrario, ha speso la sua vita per «dare la parola». Nel 1963 don Lorenzo era già malato. Non ho più avuto l’occasione di incontrarlo.
Mario Lodi, testimonianza raccolta da Sandro Lagomarsini il 18 aprile 2009
Non va dimenicato l'entusiasmo con cui P.P. Pasolini accolse Lettera ad una professoressa: "È un libro veramente bello, la vitalità - leggendolo - aumenta in modo vertiginoso, ed è questo il metodo pratico, essenziale, per giudicare la bellezza di un libro. Lettera ad una professoressa è scritta con grande grazia, grande precisione, con assoluta funzionalità, non soltanto, ma con grande spirito, quasi come un libro umoristico, fa ridere e nello stesso tempo, immediatamente dopo aver riso, viene un nodo alla gola, un groppo alla gola, addirittura le lacrime agli occhi, tanta è la precisione e la verità del problema che si pone, il problema della scuola italiana. Oltretutto c'è anche coscienza stilistica, perché vi è contenuta una delle più straordinarie definizioni di quello che deve essere la poesia: un odio e un senso di vendetta verso gli altri che - una volta approfondito e liberato - diventa amore. Dunque di “Lettera ad una professoressa” devo dire tutto il bene possibile, non mi è mai capitato di essere così entusiasta di qualcosa e di sentirmi obbligato e costretto a dire agli altri: leggetelo. È un libro che riguarda la scuola, nello specifico, ma nella realtà riguarda la società italiana, l'attualità della vita italiana.”
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