Dal sito http://www.venezia2012.it riprendo la recensione di Paolo Cacciari
dell’ultimo libro di Edgar Morin.
Ci sono dei libri che dopo averli
letti ti danno la sensazione che sia inutile aggiungere altre parole. Uno di
questi è La via di Edgar Morin (Raffaello Cortina Editore, pp 297, Euro
26). Con questo ultimo lavoro Morin lancia un messaggio politico puntiglioso,
opera una trasposizione del suo pensiero filosofico in un articolato programma
di riforme. Il vantaggio del libro per il lettore è duplice: avere a
disposizione un indice ragionato dell’enciclopedica opera del grande pensatore
francese, lo “scopritore” del pensiero complesso e molteplice, (tra cui,
ricordo: Il metodo, in sei volumi editi sempre da Raffaello Cortina) e
una sintesi dei numerosi interventi politici di cui è indissolubilmente
cosparsa la sua lunga attività scientifica (da ultimo: La mia sinistra.
Rigenerare la speranza del XXI secolo, Centro Studi Erickson, Trento 2011).
Morin, che ha visto l’occupazione
nazista della Francia e che è abbastanza vecchio da aver preso parte alla
Resistenza, pensa di trovarsi di fronte per la seconda volta nella sua vita
alla apocalisse della politica, ma non è affatto rassegnato. Salvare l’umanità
dai più che prevedibili disastri che la minacciano è un’impresa “improbabile ma
possibile”, afferma. Il bersaglio del suo pensiero è stato sempre il
determinismo e il riduzionismo, storico e scientifico. Sia nelle visioni
ideologiche del bene che in quelle ciniche e passivizzanti del male. L’oggetto
del suo pensiero critico è stata la dicotomia manichea (l’opposizione bene/male),
il binarismo (vero/falso) a favore invece di una visione dialogica, integrata,
unitaria tra Homo sapiens/demens, globale/locale, prosa/poesia…
vita/morte. Morin pensa che sia possibile – anzi, necessario – attingere
il meglio da ogni tradizione e da ogni cultura, far emergere le alternative
possibili e meticciarle.
Quindi, nonostante i pericoli
inauditi che l’umanità s’è procurata con le proprie mani, Morin intravede che
“una primavera aspira a nascere”. “Su tutti i continenti, in tutte le nazioni,
esistono già fermenti creativi, una moltitudine di iniziative locali propizie a
una rigenerazione economica o sociale o politica o cognitiva o educativa o
etica o esistenziale. Ma tutto ciò che dovrebbe essere legato è disperso,
separato, compartimentato” (p.20). Perché questo grande cambiamento
avvenga serve “cambiare via”, invertire la rotta. La parola chiave che
viene usata mi pare sia “rigenerare”, superare il deterioramento, la sclerosi
della relazionalità individuo/società/specie.
La diagnosi è lucida e spietata.
L’“età della globalizzazione” nasce lontano, con la mondializzazione fra il
Quattrocento e il Cinquecento, ma è dopo l’89 del secolo scorso che la
“tecnoeconomia” dispiega tutta la sua potenza e il mondo occidentale realizza
“l’illusione di possedere l’universale”. Il capitalismo straripa, omogeneizza,
standardizza. Fino a raggiungere gli odierni “eccessi del capitalismo
finanziario”. Ed entra in crisi. Una gigantesca “poli-multi-mega-crisi”, un
insieme di “molteplici crisi aggrovigliate interdipendenti e interferenti” che
sono destinate a provocare “catastrofi a catena”. Crisi economica, ecologica,
demografica, alimentare, urbana, cognitiva (cioè politica), di civiltà. Una
“crisi planetaria” dell’umanesimo universalista, dell’identità individuale, del
calcolo razionale, del “grande mito provvidenziale dell’Occidente”, cioè del
Progresso.
E qui vengono in mente affinità
strette con il pensiero di Franco Cassano (L’umiltà del male, Laterza,
2011) quando descrive “il nucleo mitologico costitutivo della modernità
contemporanea” nel dominio assoluto del denaro, nel primato del profitto,
nell’espansione incessante della tecnica.
Il Progresso indica prosperità e
benessere e ha come motore lo “sviluppo” e la “crescita”. Due termini usati
come sinonimi, nel contempo, “fine e mezzo l’uno dell’altro”. Gli individui
sono così finiti per essere dominati da una logica puramente economica,
dall’“idea fissa della crescita”.
Ma la crisi planetaria in cui siamo
entrati e la rimozione delle sue cause dal discorso politico ci dicono
che: “Lo sviluppo ignora che le società occidentali sono in crisi per il
fatto stesso del loro sviluppo. Questo sviluppo ha secreto un sottosviluppo
intellettuale, psichico e morale”.
Una analisi che sembra non lasciare
scampo, ma Morin la affronta con la forza della sua teoria della speranza che
si fonda sulle virtù creative profonde dell’umanità generatrici di creatività,
aspiranti all’armonia, capaci di grandi trasformazioni, di una “riforma del
pensiero e della mente”, di una “Metamorfosi” generale.
Quasi per fugare il sospetto di
astrattezza e fuga nel filosofico,che queste parole possono suscitare nel
lettore, Morin si impegna in una elencazione puntuale e motivata delle riforme
necessarie e possibili da attuate in tutti i campi e a tutti i livelli
dell’agire sociale: economici e del lavoro, demografici e delle città,
ecologici e della medicina, delle istituzioni democratiche e della
giustizia, della famiglia, dei giovani e degli anziani, dell’alimentazione e
del consumo. Tante “vie” che potrebbero convergere verso “la Via” del
miglioramento delle relazioni tra individui , fra gruppi, fra popoli.
Un libro che dovrebbe essere tenuto
ben in vista sulla scrivania di quanti credono e sperano che la politica possa
avere ancora un senso. La politica – ha scritto Morin – “priva di pensiero si è
messa al rimorchio dell’economia” e “basta poco perche si degradi in
carneficina”.
Paolo
Cacciari
Nessun commento:
Posta un commento