24 maggio 2012

IN MEMORIA DI PLACIDO RIZZOTTO.



Il funerale di stato che si celebra oggi a Corleone per il ritrovamento dei resti di Placido Rizzotto, come tutte le celebrazioni, rischia di mettere in ombra la figura e l’opera del sindacalista assassinato dalla mafia sessantaquattro anni fa.
E allora per ricordarlo come merita, oltre ad invitare alla lettura del libro di Dino Paternostro, Le stelle in un pugno. Il sogno di Placido Rizzotto e dei contadini di Corleone, edito da La Zisa nel 2011, ci sembra utile riproporre un saggio di Giuseppe Casarrubea, pubblicato sul n.151/1994, della rivista Segno. L’articolo di Casarrubea, infatti, pur  risalendo a circa venti anni fa, ci sembra ancora valido, anche se appare opportuno confrontarlo con il più recente lavoro di Paternostro. Per rendere il testo di Casarrubea più leggero l’apparato delle note è stato rimosso. 

 

Placido Rizzotto e la mafia corleonese

Giuseppe Casarrubea
1. Il quadro generale
Una ragione di fondo giustifica e rende attuale, a distanza di quasi mezzo secolo dalla sua tragica fine, la figura di Placido Rizzotto. Essa rappresenta, infatti, una delle vicende di lotta e di impegno democratico nella storia della Sicilia; di quel processo di costruzione del tessuto civile, organiz­zativo, di cambiamento politico-sociale che, negli anni immediatamente suc­cessivi alla nascita della Repubblica, si stava faticosamente avviando all’in­segna della migliore tradizione siciliana, quella, per intenderci, del leghismo di Bernardino Verro o di don Sturzo, e in un coevo dinamismo costruttivo dei presupposti di partecipazione popolare e di sviluppo democratico fondati su un progetto statuale e costituzionale di riforma dell’ancora imperante siste­ma feudale, di attacco al latifondismo parassitario.
Ma se vi è un tale versante che si lega alla costruzione, in definitiva, del nuo­vo Stato, dopo la caduta del fascismo, vi è anche da riconsiderare non solo l’esperienza formativa dei gruppi dirigenti del movimento contadino in quegli anni, ma anche i caratteri delle innumerevoli e analoghe vicende di lotta che segnarono uno slancio verso la democrazia e provocarono, al contempo, una spietata, sanguinaria ed estesa repressione, e cioè il blocco reazionario di quel processo.
 Il significato di questo aspetto, la sua portata politico-istituzionale, le sue con­seguenze sul piano della democrazia, si leggono meglio alla luce delle risul­tanze delle confessioni dei pentiti, dei maxiprocessi a Cosa Nostra, e dell’analisi che ebbe a fare Falcone circa il carattere «unico e unitario» di questa organizzazione criminale. Dentro questo inquadramento si leggono tutte le vicende di mafia della storia della nostra Repubblica, e si scorge me­glio come l’innumerevole serie di omicidi e di stragi che insanguinarono la Sicilia mortificandola e impedendone la crescita, sia­no come tasselli di un mosaico o, meglio ancora, fram­menti che portano in sé i dati di una storia più complessiva, i riflessi, gli atti e i protagonisti della storia regionale e nazionale.
L’unicità e l’unitarietà di quel fenomeno, acquisizioni recenti nella storia del­la magistratura italiana e nella conoscenza storiografica e sociologica con­temporanea, obbligano a una analisi delle linee evolutive del sistema mafio­so e dei suoi collegamenti con il mondo della politica. Alla stessa stregua di come se ne sono evidenziati i caratteri più attuali, esse inducono a ripercorrere le vicende della storia più recente. Ma non è da escludere, fin da adesso, che l’apparente frammentazione del dominio criminale mafioso sul “territorio”, in epoca pre-falconiana, abbia, già negli anni della caduta del fascismo, un pro­prio tessuto di organicità, una propria struttura, legata non più (e non solo) al dominio municipalistico, o a diverse e non comunicanti realtà territoriali (quali sono quelle che si evincono, ad esempio, dalle situazioni analizzate da Hess, Blok e dagli Schneider) ma a un proprio progetto politico-sociale, in vario modo connesso con scelte di carattere nazionale e con le caratteristiche pro­prie di uno Stato che si apprestava ad avere una propria strutturale complici­tà con la mafia già detentrice di un proprio dominio territoriale. Rispetto al blocco agrario anticontadino, scrive, infatti. Nicola Tranfaglia, si apre una “que­stione decisiva” che consiste sostanzialmente nel «fatto grave che l’appara­to dello Stato si comportò sempre in modo da garantire l’impunità degli as­sassini e dei mandanti»
Placido Rizzotto ha in sé la storia della Sicilia del secondo dopoguerra. Anzi, si ritaglia come una metafora per ricongiungersi alla storia dei nostri giorni: al senso della lotta ancora aspra che l’Italia degli onesti sta conducendo con­tro i poteri criminali e il malaffare; alla nuova resistenza per la liberazione da un “regime democratico” che ha impedito lo sviluppo della società, renden­do impossibile il gioco del cambiamento; alla lotta, insomma, contro il potere di coloro che in nome del popolo ne hanno bloccato la crescita, trasformando la democrazia in dominio e in tornaconto personale; la cultura e la tradizione del socialismo in comodo separé per i retroscena di tutte le tangentopoli.
La sua figura, in particolare, aiuta a capire il tenore di un contesto non locali­stico in un momento cruciale della storia d’Italia. Quando si andavano anno­dando le fila di un percorso che vedeva consegnare la Sicilia al controllo del­la mafia, quasi per una occulta decisione di delega a personaggi e partiti po­litici, capaci di gestire il controllo sociale, di realizzare funzioni che lo Stato non poteva o non voleva assolvere. La vita, come la morte di Placido Rizzot­to, ne sono una esemplare testimonianza.
Una storia del particulare che ha, dunque, in sé i tratti della grande storia. Un emblematico esempio di vi­cenda generale che trascende i limiti della semplice biografi­a, la dimensione tipicamente geografica. Analizzarla è come scoprire fenomeni, fatti e cause che superano la semplice azione del sindacalismo siciliano, o la stessa consapevolezza del suo protagonista, su ciò che stava maturando, o era già maturato, nelle sorti presenti e future dell’Italia. In un duplice senso: quello del “rapporto di priorità” che comunque esiste tra “struttura ed even­to” e quello, non me­no significativo, dell’inconscio collettivo come luogo della sedimentazione se­colare di bisogni profondi repressi. Aspetto, questo, che già Corrado Dolio ha fatto riscontrare a proposito di un altro significativo dirigen­te del movimento socialista delle origini, e cioè Nicolò Barbato.
Lungo i cinquant’anni che separano Rizzotto dal dirigente di Piana degli Al­banesi e da Bernardino Verro, anch’egli tragicamente ucciso dalla mafia corleonese (3 gennaio 1915: tra i denunziati troviamo un Angelo Gagliano, zio materno di Michele Navarra), corre un filo conduttore unico ai cui estremi riscontriamo: nel 1893/94 la repres­sione crispina del movimento, ad opera dell’esercito e dei tribunali di guerra, assunta direttamente dallo Stato, con notevole impiego di uomini e mezzi. Mafia, latifondisti e gabelloti se ne rimasero per lo più a guardare, e usarono lo Stato come braccio armato; dopo il ’43 all’azione repressiva statuale si so­stituisce quella della mafia, mentre lo Stato assume una funzione di garante di questo controllo, quasi per un recondito atto di delega.
I fatti che analizziamo riguardano, dunque, un nuovo capitolo della storia del­la mafia, quello nel quale si narrano le vicende di questa organizzazione cri­minale come funzioni proprie di un certo tipo di Stato lungo le grandi con­traddizioni politiche e sociali del secondo dopoguerra.
2. Camini e masserie: la dialettica tra centro rurale e latifondo
Alla narrazione di quei fatti non è indifferente la considerazione dello sfondo nel quale acquistano rilievo e si spiega­no molti di quei misteri di cuí è intessuta tutta la storia di paesi come Corleo­ne. È un luogo segnato secolarmente dalle consuetudini degli uomini e dalle cadenze stagionali. La vita dei primi si svolge per lo più in grandi estensioni di terra coltivate a frumento, dove sono presenti, tranne i periodi della semi­na e della mietitura, che rendono i latifondi animati, sparute figure di bovari, curatoli, pecorai, mesalori o annalori, che come pezzi dello sfondo del pae­saggio naturale, più o meno assiduamente, e con maggiore o minore intensi­tà, rendono viva, a modo loro, o intristiscono, la già desolata prolissità delle terre, il malinconico spettacolo delle colline verdi o gialle, dei colori più cupi del maggese. I latifondi hanno pochi segni distintivi, oltre alla forma del terre­no, per lo più pianeggiante o collinare, al loro caratteristico aspetto stagiona­le, alla loro scarsa frammentazione geometrica. Essi presentano, qua e là, gruppi di case costruite, forse, in epoche diverse e adibite a tutti gli usi. Quelli di una vita lontana dai centri abitati. Sono, nel loro insieme, il cuore dell’intera economia feudale, per quanto la datazione dell’abolizione della feu­dalità risalga al lontano 1812. Sono le masserie.
“La masseria — scrivono gli Schneider — è un rozzo complesso di costruzioni che forma­no un quadrato attorno a un cortile, talvolta con un pozzo in mezzo. Nella costruzione prin­cipale si trovano l’appartamento e gli uffici del proprietario o del suo amministratore. Le altre costruzioni comprendono stalle per animali da tiro e da trasporto: magazzini per se­menti, cereali o attrezzi da lavoro; alloggi per i residenti permanenti, compresi una cucina e un forno; giacigli di paglia per i lavoratori dei campi e i mezzadri che restavano a dormi­re durante la stagione del raccolto. Alcune masserie alloggiavano la manodopera contadi­na in capanne di paglia o piccole costruzioni di fango (casette di muro); a volte compren­devano anche una piccola cappella. I lavoratori residenti nella masseria di solito coltivava­no ortaggi vicino a qualche sorgente sotterranea in modo da potere irrigare gli orti durante i mesi estivi. Ma c’erano pochi alberi ad addolcire il paesaggio circostante. Altri, a causa della scarsità della legna, per cuocere il pane, per riscaldare l’acqua. per fare il formag­gio, accendevano il fuoco con paglia e altri ramoscelli. In complesso la masseria non so­migliava affatto alla villa, al castello o alla casa padronale diffusi nelle altre regioni d’Italia e in Europa.”
Centro propulsore di questa struttura è il gabelloto, figura non già d’impren­ditore agricolo, quanto, invece, di garante della funzionalità del sistema chiu­so dell’economia latifondistico-feudale. Motore di uomini e azioni egli è, pri­ma di tutto, depositario della cultura della mediazione, della centralità sociale ed economica della funzione intermediaria tra manodopera produtti­va e padroni assenteisti. Nelle epoche passate, ma ancora lungo tutto l’Otto­cento, i gabelloti avevano pure assolto, in molti casi, al tentativo di imprimere all’economia stagnante dei feudi, una svolta di cambiamento: erano stati es­si stessi enfiteuti e imprenditori; avevano assunto, in proprio, sterminate esten­sioni di terre boschive trasformandole in colture intensive, in vigneti e uliveti, soprattutto, ma anche nella monocoltura della canna da zucchero — prima che lo zucchero americano irrompesse sui mercati europei — o in quelle al­tre, molto diffuse in Sicilia fino alle soglie del ’900, del lino, della canapa e del riso. Esperienze, queste ultime, tutte fallimentari sia per la concorrenza dell’industria tessile e risicola settentrionale, sia anche perché i grandi pro­prietari terrieri, e con essi i gabelloti, dovendo scegliere tra sicure rendite de­rivanti dallo sfruttamento della manodopera, e i rischi di imprese di trasfor­mazione agricola, talvolta anche molto costose, preferivano accontentarsi delle prime piuttosto che affidare agli imprevisti, mezzi e capitali disponibili.
Il gabelloto, più del padrone, è, prima di tutto, una fondamentale figura socia­le ed economica: sotto il primo profilo assicura la pax tra le categorie produttive e i proprietari; sotto il secondo funziona ad un tempo come accumulazio­ne selvaggia di capitale e stabilità del sistema. Il suo passaggio alla conqui­sta del territorio, nel senso mafioso del termine, è graduale. All’epoca dei fa­sci dei lavoratori, ad esempio, sono pochi i gabelloti che incontriamo nei feu­di animati dai contadini in sciopero, e quasi inesistenti appaiono le ingerenze armate dei latifondisti per sedare le loro rivendicazioni. Il controllo del territo­rio, a partire dalle strutture produttive, è, dunque, almeno a Corleone, pro­gressivo e si instaura lungo un cinquantennio a conclusione del quale le fa­miglie mafiose detengono già il completo dominio:

feudi                                           mafiosi preposti
Strasatto                                     Luciano Liggio
Rubinia                                       Giovanni Pasqua
Malvello                                     Giuseppe Roffino
Muranna                                     Antonino Streva
Lupotto                                      Vincenzo Catanzaro
Rao                                             Carmelo Pennino
Ridocco                                      Antonino Governali
Piano di Scala                            Angelo Vintaloro
Donna Giacoma                         fratelli Mancuso
Patria                                          Biagio Leggio
Galardo                                      Vincenzo Collura
Giardinello                                 Vincenzo Maiuri
Il possesso materiale e culturale del territorio avviene mediante un’operazione di trasferimento sul campo dell’ideologia che aveva retto le logiche delle relazioni feudali. Non sono tanto le norme del legittimo possesso, il senso della proprietà, a costituire un dato di valore socialmente accettato, quanto, inve­ce, i processi di consolidamento socialmente validi delle prerogative di privi­legio dentro una struttura gerarchica. In essa, la nozione del lavoro come va­lore è decisamente negata, a tutto vantaggio delle preminenti azioni di forza e di quei codici culturali, come l’onore, il coraggio, la virilità, il familismo, le relazioni amicali e parentali, il comparaggio, l’omertà, l’obbedienza, il clien­telismo, il patronaggio, l’orgoglio (con la conseguente suscettibilità), ecc. che costituiscono, nel loro insieme, aspetti delle strutture sociali e culturali alla base delle relazioni e dei destini di vita dei gruppi mafiosi, del sistema delle cosche.
I gabelloti che controllano i feudi sono detentori di un potere destinato all’arric­chimento (analogo in qualche modo alla cultura della roba di verghiana me­moria), ma che ha una spinta direttiva in una struttura culturale capace di determinare un sistema sociale. L’epoca della mafia preindustriale e pre-falconiana si connota per la solidità delle connessioni tra l’organizzazione dei valori normativi dati dalla struttura culturale e i dati delle relazioni determinate dalle strutture so­ciali, in una unità incapace di dissonanze, di anomia. Lo Stato assente ha lasciato il vuoto al dominio mafioso, e cioè un potere storicamente dato di organizzare i valori della vita secondo riferimenti a precisi e differenziati mo­delli, capaci di provocare conformità e assenza di deviazione.
3. Un padre invoca lo Stato
Il pomeriggio dell’ 11 marzo 1948 una figura di uomo smarrita varcava la so­glia della stazione dei carabinieri di Corleone. In contrasto con tutte le sue convinzioni, con le regole dell’omertà, con quanto i suoi stessi concittadini potevano avergli suggerito, decideva di parlare, di rife­rire a qualcuno, che si intestava la rappresentanza dello stato di diritto, la sua tragedia, l’ennesima intollerabile e barbara atrocità commessa sulla carne della sua gente, della sua famiglia, di quanti — e non erano pochi — avrebbero voluto cambiare. Solo l’amore per un figlio poteva averlo spinto a tanto. Proprio lui che, ai tempi di Mori, aveva avuto qualche fastidio con la giustizia e che conosceva uomini e cose della mafia, lui che da gabelloto non poteva ignorarla.
Si chiamava Carmelo Rizzotto, padre di sette figli. Era lì adesso, non solo per denunciare la scomparsa di Placido, ma per fare i nomi di mandanti e sicari, per raccontare la verità, come questa gli appariva dalla sua ricostruzione.
Gli risultava, infat­ti, che Placido era uscito, la sera del giorno prima, dalla Camera del lavoro del suo paese con Giuseppe Siracusa e Ludovico Benigno. suoi abituali com­pagni, e che, ad un certo punto, il gruppo così composto, si era incontrato con Pasquale Criscione, un pregiudicato ben noto alle forze dell’ordine.
Al locale commissariato di pubblica sicurezza dichiarava, tra le altre cose, che al momento in cui il figlio era uscito di casa, indossava pantaloni blu, giacca chiara, cap­potto verde e berretto grigio.

4. Notti d’inferno e cimiteri di mafia
Quelle informazioni sarebbero rimaste, con tutta probabilità, lettera morta, se sul finire dell’anno successivo, in una delle battute ad ampio raggio del gruppo squadriglie del Comando forze di repressione del banditismo (CFRB), co­mandate dal capitano Carlo Alberto Dalla Chiesa, non fossero stati catturati Criscione e Collura, a seguito di una “propalazione” di un altro pregiudicato, Giovanni Pasqua, imputato di avere ucciso con Luciano Liggio, la guardia giurata Calogero Comaianni, nel 1945, nonché Giovanni Palazzolo, Caloge­ro Castelli e Giovanni Ognibene. Questi ultimi erano stati barbaramente trucidati nel 1947. Entrambi ammisero di avere partecipato al sequestro, ma che l’uccisione del sindacalista, con tre colpi di pistola, era avvenuta per mano di Liggio.
Si può credere a questa versione? Certo si deve considerare che Liggio era un killer di ventitre anni come tanti se ne trovavano a Corleone e in Sicilia nel mondo del latifondo. Non aveva un potere di comando e, inoltre, il Collura (figlio di mister Vincent che sarà ucciso in un agguato nel ’57) era tutt’altro che un mafioso che potesse prendere decisioni di testa propria, o che per statuto familiare, si dichiarasse disponibile ad accettare, oltre quella di Michele Navarra, l’autorità di un altro con ambizioni non meno criminali delle sue.
Nei due pregiudicati, inoltre, era logico si potesse escogitare una versione dei fatti che attenuasse le loro responsabilità. Insomma i tre erano personaggi di manovra del grande puzzle mafioso della zona, perfettamente inquadrati nella cultura dell’obbedienza criminale, anche se screziata, al proprio interno, dalle diverse collocazioni soggettive di uomini come il Collura padre, lo stesso Criscione, o il Liggio.
La versione Criscione, sottoscritta davanti al capitano Dalla Chiesa, è nodale, non tanto per la comprensione della dinamica dell’assassinio, quan­to, invece, per l’analisi dei rapporti di forza interni ai clan mafiosi corleonesi alle soglie degli anni Cinquanta, e costituisce un tentativo di delimitare le re­sponsabilità di due personaggi diversamente collocati nello schieramento cri­minale locale. La scalata al potere mafioso, lungo la gerarchia che conduce a Navarra, è molto aperta a diversi concorrenti. Nel ’48, personaggi come Liggio, Collura figlio o Criscione, anche se fatti come mafiosi, si trovano ancora a uno stadio piramidale basso, sono esecutori di ordini che vengono da molto al di sopra di loro, da quelli dei quali non esiste traccia alcuna nei verbali degli interrogatori. É una sorta di gioco delle parti: ciascuno recita sapendo di farlo in un palcoscenico nel quale gli unici perso­naggi reali che non vivono il gioco goffmaniano della ribalta e del retrosce­na sono í protagonisti alla maniera di Rizzotto.
Lo scenario si apre con la piazza principale del paese dove, a un certo punto, confluisce il gruppo Rizzotto/Siracusa/Benigno e avviene l’incontro con Criscione. La mafia, come la morte, si presenta all’improvviso, striscian­do, insinuandosi nella quotidianità degli atti ripetuti, delle facce da sempre viste, degli incontri abitudinari. E’ dentro la conduzione apparentemente nor­male della vita. Ma Criscione non è un criminale qualunque. In un rapporto alla Commissiome antimafia del ’70, Carlo Alberto Dalla Chiesa lo menziona in un elenco di 14 personaggi, “tutti di grossa taratura o potenziali mafiosi”, quale uomo di Navarra. E Placido non poteva non saperlo. Si lascia avvicinare, assecondando il gioco consapevole dell’ambiguità delle relazioni, che costituisce la normalità degli incontri. Tutto si recita all’aperto, in uno sfondo di soggetti più o meno indistinti, sfocati, dove si confondono vita e morte, passione e violenza.
Si attiva così la dinamica mortale.
Nei pressi del caffè Alaimo, Criscione si separa dal gruppo perché chiamato da Liggio che gli ingiunge, con una pistola, di proseguire con Rizzotto verso la villa comunale. Il futuro capomafia li  raggiunge in via Marsala. E’ armato. Intima a Rizzotto di seguirlo verso via S. Elena, all’estremità della qua­le è appostato Collura, anche lui armato. Il gruppo si dirige verso la contrada S. Ippolito e Liggio ordina a Criscione di tornarse­ne e di non parlare con nessuno. Solo l’indomani questi saprà dal futuro boss che il sindacalista “è cascato in un fosso dove nessuno lo può trovare”. Anzi il futuro capomafia aggiunge: “Attento che di quell’acqua ne potrai bere pure tu perché essa viene a spuntare nelle tue terre!”.
La mafia, si sa, si esprime anche con codici di tipo simbolico, ma Criscione dovette prendere alla lettera quell’avvertimento, perché, essen­dosi informato sul suo significato, dichiarò, nella sua deposizione, di avere saputo che nella montagna Casale esiste una buca da cui hanno origine del­le acque che affluiscono nelle terre del Drago. Le terre del Drago, appunto. I contadini poveri di Corleone le avevano ottenuto, in parte, grazie alle lotte di Placido, in applicazione dei decreti Gullo. Nel codice linguistico di Liggio, dunque, I’ “acqua- era l’iniziativa mafiosa, e le terre che ne beneficiavano erano anche quelle del Drago.
La versione resa da Criscione ai carabinieri, alla presenza del capitano Dalla Chiesa, del brigadiere Capizzi e del carabiniere Ribezzo, venne confermata da Collura, il quale ebbe pure a precisare che, tornato indietro Criscione, egli, Liggio e Rizzotto. dopo avere attraversato la località di S. Ippolito, si trovarono in un terreno seminativo nella contrada Casale, dove gli era stato ingiunto di rimanere ad attendere, mentre Liggio e Rizzotto avevano proseguito verso le pendici della montagna. Precisò che pochi minuti dopo aveva sentito tre colpi di pistola e dal Liggio, appena ritornato indietro, gli era stato riferito che egli aveva ucciso il sindacalista e che il suo cadavere era stato buttato in una ciaca.
Il 6 dicembre del ’49 i carabinieri ispezionarono i luoghi del racconto e, due giorni dopo, in particolare, una foiba dall’imboccatura stretta e profon­da circa 50 metri, dove venne fatto calare il carabiniere Orlando Notari. Questi non riuscì a raggiungere il fondo di quell’imbuto capovolto, poté scorgere, però, alla luce di una lampada elettrica, “delle masse informi”. Il 13 di quel mese, vennero finalmente estratti, con due successive discese del vice­brigadiere Paolo Foresta e del vigile Luigi Partinico, parti dei resti scheletrici di tre cadaveri, non consentendo le ristrettissime dimensioni dell’ingresso della foiba e le condizioni dei cunicoli, di fare di più. Si tenne, in ogni caso, a recu­perare i reperti in modo che, specialmente durante le operazioni di preleva­mento dal fondo della foiba e di risalita attraverso i cunicoli, essi non venisse­ro a confondersi. Non si può escludere che scambi involontari tra reperti sia­no potuti accadere in questa fase; ma è probabile che una simile circostan­za, se ebbe a verificarsi, possa essersi verificata dopo il recupero dei miseri resti. Il fatto grave è che essi rimasero per qualche tempo incustoditi o, quanto meno, in balia di chi poteva avere tutto l’interesse ad alterare l’ordine della ripartizione dei re­perti in tre distinti gruppi. Si legge, infatti, nelle carte del processo del ’52 contro gli autori dell’assassinio di Rizzotto:
“Tutti i reperti furono portati nella sala mortuaria del cimitero di Corleone ed il giorno suc­cessivo quattordici dicembre il vicepretore dott. Di Miceli con l’assistenza di un perito me­dico legale, ed in presenza del capitano Dalla Chiesa, procedette alla ricognizione sia dei resti scheletrici sia degli indumenti e di tutti gli altri oggetti recuperati nella foiba.”
Come si vede, non solo c’era da sospettare del rapporto di parentela del Di Miceli con Michele Navarra, ma anche di quella camera mortuaria incustodi­ta nella notte dal 13 al 14 dicembre. In ogni caso, senza prestare fede alla esatta ripartizione dei miseri resti, risultava che il primo gruppo comprende­va, tra l’altro, “una cinghia di cuoio blu”, “una striscia di gomma piatta co­stituente un legaccio reggicalza, due pezzi di stoffa verdastra, altri mezzi (sic) di stoffa color grigio scuro (…) frammenti di un giornale”; il secondo “due scar­poni di tipo americano con suola e tacchi di gomma e resti ossei all’interno, nonché una calza, una cordicella elastica legata a farfalla, presumibilmente usata come reggicalza”; il terzo “due scarponi con suole e tacchi di gomma di tipo americano, con resti di piede umano, lembi di stoffa per mutande e di stoffa pesante”.
Inoltre i periti, ai quali il giudice inquirente aveva dato l’in­carico di accertare età, statura e sesso dei cadaveri, verificarono che i resti scheletrici del primo reperto appartenevano a “individuo robusto, di sesso maschile, alto centimetri centosessantacinque circa, giovane tra i venti e i quarant’anni”. Essi “ritennero che la morte risalisse ad uno o due anni e non furono in grado di stabilire le cause”. Relativamente agli altri espressero il parere “che essi appartenessero a due scheletri, essendo alcuni di color gri­gio chiaro ed altri grigio scuro”; e “che lo scheletro chiaro fosse di individuo dai venti ai trent’anni, alto cm. 159/160, mentre l’altro fosse di un individuo di sesso maschile, di età imprecisabile, tra i 20 e i 40 anni e di statura non precisabile”. Uno di essi fu riconosciuto da Giovanni Mancuso, il cui fratello Leoluca, latitante, era scomparso dal luglio del ’46.
Lo stesso giorno 14, i resti e gli oggetti repertati furono mostrati al fratello An­tonino, e alle sorelle Biagia, Agata-Giovanna, Concetta, Giuseppa, Agata, non­ché alla matrigna Mannino Rosa che dichiararono di riconoscere “gli scarpo­ni di tipo americano con suole e tacchi di gomma contenuti nel secondo re­perto, i lembi di stoffa di color verdastro, contenuti nel primo reperto, e i lem­bi di stoffa da mutande, di cui al terzo reperto”. In particolare le sorelle Biagia e Giuseppa dichiararono di riconoscere “la cordicella elastica legata a nodo Savoia” perché — dichiarò quest’ultima — l’aveva usata anche lei qual­che volta.
4. Il danno e la beffa
Ora, mentre Liggio si era reso latitante, Coltura e Criscione venivano arresta­ti con mandato di cattura. Entrambi negavano di avere mai reso delle dichia­razioni alle forze dell’ordine, asserendo, al contrario, di avere firmato i verba­li ignorandone il contenuto e perché “sottoposti ad estenuanti interrogatori e violenze”. Ma c’è da chiedersi: non erano stati loro a condurre le forze del­l’ordine sul luogo del delitto? E quali incertezze potevano ancora sussistere su almeno tre delitti avvenuti negli ultimi due anni? In ogni caso, se ci fosse­ro stati dubbi sul riconoscimento di quei miseri resti, sarebbe stato sufficien­te che la procura della repubblica di Palermo sostenesse, come insistente­mente sollecitato da Carmelo Rizzotto, la necessità di ulteriori interventi di recupero dalla foiba. Al contrario la procura, informando il Ministero di grazia e giustizia che, secondo gli esperti, per tale circostanza, sarebbe stata ne­cessaria la somma di lire 1.750.000, esprimeva il parere che “la estrazione degli altri resti dei tre cadaveri, fosse, ai fini processuali, di importanza relati­va”. Delle due l’una: o gli elementi di riscontro inducevano al dubbio — e in tal caso la procura avrebbe dovuto sostenere l’acquisizione di nuovi elemen­ti — o essi potevano ritenersi già sufficienti per inchiodare mandanti e sicari alle loro responsabilità. Tanto più che, intanto, il vecchio Rizzotto aveva con­tinuato le ricerche per conto suo ed era venuto a conoscenza di altri nomi che, senza peli sulla lingua, gridava forte davanti ai giudici. L’uomo si diceva fermamente convinto che gli esecutori materiali dell’assassinio del figlio erano stati, oltre ai tre denunciati, anche Leoluca Benigno, Pietro Lisot­ta, Antonino Maiuri e Giuseppe Ruffino; mentre i mandanti erano stati Leo­nardo La Torre, Michele Navarra, Marcello Mancuso e Antonino Di Palermo, in quanto appartenenti alla mafia e rappresentanti del partito separatista”.
Le cose andarono, invece, per un altro verso, e poco ci mancò che la parte civile, nonché le stesse forze dell’ordine, primo tra tutti il capitano Dalla Chie­sa, venissero denunciati per falso dalla stessa Corte di assise di Palermo pre­sieduta da Gaetano Gionfrida e composta dal giudice Emilio Di Maggio e da sei giudici popolari. Non andava a questa Corte che Antonino Rizzotto potes­se avere riconosciuto le “scarpe di tipo americano” e che, anzi, avesse di­chiarato di averle calzate e che, venendogli strette, le aveva cedute al fratel­lo. Non andava, perché la lunghezza del piantare delle sue scarpe risultava più piccola di quella registrata sul paio di scarpe attribuite a Placido. I giudici non tennero minimamente in considerazione che la qualità di quella gomma, a causa di una lunga permanenza in un ambiente estremamente umido, po­tesse avere subito una dilatazione, e che era d’uso, in tutte le famiglie contadine, calzare delle scarpe un po’ fuori misura, specie se comprate in quei fiorenti e diffusi mercatini di “roba americana” frequenti nella Sicilia del do­poguerra. Al di là della sostanza dei fatti, essi, in particolare, si aggrapparo­no a una ipotetica erroneità nelle date dei verbali delle deposizioni di Criscio­ne e Collura; diedero per scontato che queste erano avvenute “sotto tormenti morali e fisici” e giunsero ad accusare di falso i carabinieri verbalizzanti con questo specioso argomento:
“…che il perfetto allineamento che presentano sul margine sinistro del foglio i verbali dattilo­scritti in data 4 e 5 dicembre 1949 contenenti rispettivamente la pretesa confessione di Criscione e la contestazione che gli sarebbe stata fatta dopo il rinvenimento del cadavere dimostrano chiaramente che i due verbali furono dattiloscritti nello stesso contesto di tem­po, così come hanno affermato i due imputati nel dibattimento.
La Corte dinanzi tale accusa di falsità avverte il dovere di ricordare che “la verità delle attestazioni delle operazioni compiute dai pubblici ufficiali non può essere scossa che con mezzi di prova singolarmente gravi e specificamente disciplinati”. Anche recentemente la Suprema Corte — si precisava — ha confermato che ” il fatto storico della confessione può contestarsi solo con l’impugnazione di falso’.”
Per la corte di assise avevano, dunque, ragione i criminali e non i carabinieri, ai quali, forse, tutto andò bene se nessuno osò denunciarli di falso o di qual­che altro reato previsto dal codice penale, tanto più che adesso i giudici scri­vevano, assumendo le difese di Criscione: “…se egli confessò di essere con­corso nel delitto deve pensarsi che delle pressioni dovettero essere esercita­te sul suo animo da parte dei verbalizzanti”.
Sbalorditivo! E’ interes­sante notare come la diversa esposizione dei fatti, all’epoca in cui essi si svol­sero, attribuita alle “voci popolari” e persino a un organo di stampa come la “Voce della Sicilia” (di orientamento comunista), costituisca un ritaglio singolare per la comprensione di quella dinamica, la cui versione sta sul versante della “parte lesa”, e la cui originalità sta proprio nel fatto che su di essa si indagò scarsamente, an­che se costituiva una analisi di dominio pubblico. Dunque,
“Rizzotto sarebbe stato sequestrato nei pressi della sua abitazione, avrebbe opposto ai suoi aggressori una viva resistenza, tanto che le sue invocazioni di aiuto sarebbero state per­cepite da coloro che erano nei pressi dell’incrocio delle vie Umberto I, S. Giovanni, Gullot­ta e sarebbe stato trasportato fuori dall’abitato con una macchina.”
Questa versiome, risultante dalla deposizione di Carmelo Rizzotto, è un ulteriore tassello da prendere in considerazione perché questi si attivò subito nella ricerca della verità e, d’altra parte, il gruppo Rizzotto-Benigno-Siragusa che usciva la tarda sera del 10 marzo 1948 dalla Camera del lavoro, non aveva altra direzione di marcia che quella delle rispettive abitazioni.E’ strano, tuttavia, che essendo noto il rischio che correva il segretario della Camera del Lavoro, questi sia stato lasciato da solo dal Benigno che rincasava. Sarebbe stato più logico che — supposto che corrisponda a vero che ci si fosse attivati per proteggerlo — Siracusa e Benigno, prima di  rincasare, avessero accompagnato a casa il loro segretario. La dinamica, purtroppo, fu inversa, ed ebbe come  conseguenza il fatto che Rizzotto venne a trovarsi da solo, a tarda sera, su un percorso che, invece di portarlo a casa, lo conse­gnava praticamente al nemico. Ma al di là di quest’esito probabilmente non voluto dagli accompagnatori, è interessante leggere la testimonianza resa da uno di loro a Danilo Dolci nei primi anni ’60:
“…Lo sai come sono andate le cose? Il pomeriggio Placido aveva lavorato e passeggiato un poco. Verso le nove è venuto il tizio che sai (Pasquale Criscione, nda). Questo cerca di attaccare discorso, per cinque minuti noi non ci si dava conto, non ci persuadeva. Lui continuava a scherzare. Dovevamo fare la spesa. Chiediamo permesso. Viene anche lui.
Poi si va verso casa. Offre la sua compagnia. Non si può rifiutarla. Arrivato a casa io entro, mai pensando cosa poteva succedere: c’è gente intorno da tutte le parti. Loro scendono verso la piazza. Da lì vengono seguiti da due uomini che erano in un caffè. Questi gli puntano le rivoltelle dietro la schiena. Lui si ferma e chiede cosa volevano. Sono in piena piazza del mercato. È marzo, le giornate sono già lunghe. Non aveva piovuto, c’era gente in giro. La gente intorno sparisce dalla piazza. La piazza si fa deserta. Qualche uscio si chiude. Lui non può che accettare l’invito, forse gli dicono che si tratta solo di un ragionamen­to. Per la strada c’è gente che li vede, decine di persone. Dove è la polizia? Punto interro­gativo. Nessuno vuole accorgersi di niente. Arrivati all’altezza dei gradini che dal Corso Bentivegna immettono nella via Santo Rocco, ci sono altre due persone nascoste ad aspet­tarlo. Immediatamente lui capisce, cerca di scappare salendo la gradinata a destra. Arri­vato in cima altre due persone gli buttano delle coperte in testa, lo afferrano, lo pestano come l’uva, lo convogliano, lo buttano in una macchina che era a venti metri di distanza, e via. Lui grida, strilla. Nessuno lo vuole sentire.
E vuoi che sia giusto che uno si faccia ammazzare per della gente se questa non vuole vedere e non vuole sentire?
Il motivo del mio enorme dolore è questo: il rimedio c’era. Perché non sono corsi? Perché l’hanno lasciato ammazzare”?”
É un interrogativo atroce: dentro la Sicilia del cambiamento e delle lotte con­tadine, quelle che cinquant’anni prima avevano visto le occupazioni dei lati­fondi e i patti vittoriosi sulla mezzadria, si nascondeva adesso l’antica anima dell’omertà e della paura; la convinzione che i più forti non erano quelli che stavano dalla parte di Rizzotto, ma gli altri, i suoi nemici.
E’ già mutato il quadro delle scenografie di fondo; alle masse solidali con i loro leaders, negli anni dei Fasci dei lavoratori, disposte a farsi processare e a combattere su uno stesso fronte per la difesa dei loro diritti calpestati, sono subentrate masse di contadini impauriti che sanno di non potere tratta­re più con uomini a modo loro liberali, quali erano stati, nel ’93, il sottoprefetto del circon­dario corleonese Guizzoni, o il barone Cammarata o i ricchi proprietari Ange­lo Streva, Gaetano Palazzo, Francesco Bentivegna e Gaetano Mangiameli che avevano concesso ai contadini poveri le loro terre a mezzadria, abolendo il terratico e i patti angarici. Sanno, soprattutto, che al gioco della libe­ra concorrenza tra manodopera e datori di lavoro, si è sostituito un dominio territoriale che aveva visti consegnati, già dall’assassinio di Verro, e perdu­rante il regime fascista, gli ex feudi allo strapotere della mafia, tanto che non un solo lembo di terra sfuggiva, ora, al suo spietato controllo. Non si denota­va solo il dato oggettivo che la mafia, non era più disposta, come ai tempi della repressione crispina, a delegare allo Stato la reazione anticon­tadina, ma si prendeva atto, con disperata lucidità, che era proprio quest’ulti­mo a legittimare il potere mafioso sul territorio, fino al punto da decretarne il coatto consenso sociale, l’impedita reattività ambientale.
Tutto avviene nel­la consapevolezza delle parti che si giocano. Criscione non persuade, ma il gruppo al quale egli si unisce lo accetta; la sua compagnia non è gradita, ma il gruppo non può rifiutare la compagnia di un uomo come lui. Tutto si svolge all’aperto; le strade e la piazza del mercato sono crudeli testimoni. Sono cariche, adesso, di una reattività sociale alla rovescia. Non sono Benigno e Siracusa a lasciare solo il sindacalista; tutti spariscono perché nessuno vuo­le essere chiamato a testimoniare qualcosa che ciascuno sa profondamente e che a distanza di tempo suscita terrore, va tenuto ancora sotto anonimato (tizio che sai è l’espressione che dopo ben oltre dodici anni usa l’interlocuto­re di Danilo Dolci riferendosi a Criscione).
Comunque siano andate le cose, sotto il profilo della dinamica dei fatti, è mar­ginale sostenere una versione o un’altra; ciò che conta è il movente, e con­statare, a tale proposito, che i giudici non ne trovarono alcuno che possa incriminare né Liggio né Collura anche se non poterono fare a meno di scrivere:
“Soltanto nei confronti di Criscione Pasquale potrebbe l’esistenza di una causale ravvisar­si, perché è certo che in data 12 novembre 1947 la commissione provinciale delle terre incolte presso il Tribunale di Palermo propose a S.E. il prefetto la concessione alla coope­rativa agricola Bernardino Verro di cinquanta ettari di terreno dell’ex feudo Drago. Vero è che il presidente della cooperativa era Rizzotto Luciano fu Stefano, ma Placido Rizzotto come si è già accennato avrebbe dimostrato un particolare interesse perché quelle terre fossero ritenute insufficientemente coltivate.”
Precisando subito dopo — senza considerare che proprio l’oggetto di tale pre­cisazione costituiva argomento di inquietudine e perplessità —:
“…non risulta che il Criscione in conseguenza di tale concessione avesse troncato quei rapporti di amicizia che secondo gli stessi familiari lo legavano sin dalla gioventù allo scom­parso. Che anzi, lo stesso presidente della cooperativa ebbe a dichiarare che da parte dei Criscione non fu in alcun modo contrastata la concessione delle terre, circostanza questa che ha trovato conferma nella deposizione di un amico del Rizzotto il Benigno Ludovico (da non confondere col Leoluca inquisito: nda) che disse “escludo in maniera categorica che il Rizzotto, del quale ero amico, ed appunto perciò l’avrei saputo, avesse avuto alcun incidente col Criscione.”
Ed aggiungevano scaricando sulla parte lesa e sugli inquirenti i motivi di di­scolpa degli assassini:
“…del resto lo stesso Rizzotto Carmelo, pur manifestando la sua convinzione circa la re­sponsabilità di Criscione Pasquale aveva dichiarato al magistrato che non sapeva spie­garsi il motivo della soppressione del figlio. Manca quindi nei confronti dei tre imputati an­che la prova di una adeguata causale, così come non poté esserne accertata alcuna che presentasse caratteri di serietà e concretezza nei confronti delle numerose persone che Rizzotto Carmelo, nelle sue molteplici dichiarazioni stragiudiziali e giudiziali, ha accusato di concorso nel delitto, senza fornire prove concrete come nel suo rapporto del 30 maggio 1950 ebbe a riferire il capitano Dalla Chiesa che i sospetti del Rizzotto a carico del dr. Navarra, direttore dell’ospedale civico di Corleone, di La Torre Leonardo, esponente del partito separatista, del consigliere comunale Di Palermo Antonino, di Mancuso Marcello Antonino, altro esponente del partito separatista, del tenente dei carabinieri Chiofalo Filip­po, che avrebbe agevolato Leggio Luciano a sottrarsi alla cattura, ebbe a considerare in linea di massima frutto di supposizioni personali e di fatti raccontati e più volte manifestati ad uso e consumo di un padre giustamente affranto e depresso.”
Ma é ancora più sorprendente la conclusione della sentenza, non solo per l’assoluzione con formula dubitativa degli imputati ma anche per la parte che conclude le motivazioni. Leggiamo:
“Le confessioni dei periti autorizzano soltanto a ritenere possibile che uno dei tre cadaveri, e presumibilmente quello a cui appartenevano la tibia ed il perone repertati dal brigadiere Foresta (II reperto) fosse quello del Rizzotto sia per l’età sia per la statura del medesimo che dal foglio matricolare si è rivelato essere stata di metri 1,64 e mezzo (corsivo dell’au­tore). Ma pur non potendo trarsi dagli accertamenti anzidetti la conferma della bontà del riconoscimento del cadavere del Rizzotto, non può la Corte rilevare che infondate sono le critiche mosse da taluno dei difensori alle relazioni dei periti. Dai verbali di ricognizione redatti dal pretore e dal giudice istruttore risulta infatti in modo certo che la tibia ed il pero­ne o fibula furono rinvenuti proprio in quel settore del sacco che conteneva le scarpe rico­nosciute dai familiari del Rizzotto e nel cui interno erano ancora delle ossa dell’articolazio­ne tubio-peroniera astragalica.”
Dunque, ce n’era abbastanza per emettere una sentenza che fosse basata su riscontri oggettivi piuttosto che su semplici e incerti indizi, come invece sostennero i giudici.
Quell’incipiente notte del 10 marzo aveva veramente segnato un calvario atro­ce: un uomo, un dirigente contadino era stato aggredito e condotto nel luogo del patibolo, nel pieno del buio e del silenzio di quei feudi dati a pascolo e incolti, su cui si apriva il ventre nero dell’inferno siciliano. Il pestaggio di un uomo inerme che nulla aveva mai voluto per sé. Lo scenario di un ambiente che consegnava il coraggio della lotta civile al silenzio omertoso, tre colpi di pistola, il nulla del baratro.
5. Barlumi di fuoco nella notte
Eppure qualcuno aveva visto. Come se il feudo avesse avuto un anelito inno­cente di giustizia. Nel tragitto, il gruppo degli assassini dovette essere co­stretto a fermarsi per una qualche ragione, forse per la vana, ultima strenua difesa di Placido, forse per eseguire un barbaro e macabro rito di distruzione del nemico, forse perché da qui il suo corpo senza anima, avrebbe iniziato l’ultimo suo cammino all’aria aperta, prima di essere inghiottito dalla terra. Non sappiamo. É certo, tuttavia, che le voci popolari che Carmelo Rizzotto raccoglieva per riferirle inutilmente ai giudici o che si riflettevano su quotidiani come “La voce della Sicilia”, riportavano la notizia che un ragazzo di dodici anni, Giuseppe Letizia, “rimasto nel feudo Malvello per sorvegliare il gregge del padre, avrebbe visto gli assassini commettere il delitto”. L’articolo era stato redatto da Franco Ferna ed era apparso nel numero 28 del 21 marzo ’48 col titolo: Un bimbo morente ha denunziato gli assassini che uccisero Pla­cido Rizzotto nel feudo Malvello. Vi si sosteneva che il sequestro era opera di diversi uomini che, ad un segnale convenuto di Pasquale Criscione, avreb­bero condotto la vittima designata in quella località, dove, appunto, il ragaz­zo sarebbe stato testimone oculare dell’assassinio, tanto da esserne atterrito e sconvolto, da ammalarsi, da essere preso da “allucinazioni”, da dovere es­sere ricoverato in ospedale, dove sarebbe morto pochi giorni dopo per cause non accertate. In un successivo articolo (26 marzo) intitolato: Per avvelena­mento e per trauma psichico l’allucinazione e la morte del bambino? lo stes­so giornale riportava la notizia che il sequestro era avvenuto per attiva parte­cipazione di Luciano Liggio, che alcuni giorni dopo si sarebbe reso latitante. Sarebbe stato lui a spingere con forza Rizzotto dentro una vettura “come una bestia sul carro del macellaio”. Dopo l’articolo del 21 marzo, le autorità di pubblica sicurezza, fatti gli opportuni accertamenti, con rapporto del 22 mar­zo, comunicavano alla procura della Repubblica
“…che il ragazzo Letizia era deceduto per tossicosi, come da certificato di morte redatto dal dottor Dell’Aira Ignazio; che il ragazzo aveva avuto delle allucinazioni coordinate ed aveva narrato al predetto sanitario che due individui l’avevano invitato a prendere un col­tello col quale avrebbero dovuto uccidere due persone e poi lui stesso, che la macchina di cui si faceva cenno negli scritti sarebbe stata una 1100 appartenente a Leggio Luciano; che nessun elemento concreto era, però, emerso a carico degli indiziati.”
Sull’episodio la principale sorpresa la dovevano fornire, però, i familiari del ragazzo, per evidenti ragioni di natura ambientale:
“Interrogati dal nucleo mobile di carabinieri di Corleone e successivamente dal giudice in­quirente, i congiunti del ragazzo Letizia esclusero che egli avesse narrato di avere assisti­to alla uccisione di Placido Rizzotto e riferirono che aveva, invece, dichiarato, presente anche il sanitario che lo curava , di avere visto uccidere certi Cammarata Giuseppe e Bu­sizio (leggasi Benizio, nda) Leoiuca inteso Curriquagli da due sconosciuti’.”
Certamente il ragazzo aveva visto uccidere qualcuno, in quel tragico luogo di sosta, forse una vecchia masseria, al centro di un esteso latifondo do­ve, altri ragazzi come lui, erano figure consuete, manodopera gratuita con l’unico beneficio dei pezzo di pane garantito da padri-padroni senza scrupo­li. Risulta tuttavia strana la presenza di un ragazzo indifeso e solo nel pieno della notte, nel vuoto notturno del latifondo. Probabilmente altri avevano vi­sto tra i bagliori di qualche luce. Ma il ragazzo è l’unico a fare le spese di una traumatica testimonianza, e certamente in quell’ospedale in mano a Na­varra, la sua fine era stata già segnata. SI registrano, infatti, circostanze sul­le quali, forse, non ci si è soffermati abbastanza:
1)   Apprendiamo dal rapporto Dalla Chiesa che il ragazzo fu visitato la prima volta, il 13 marzo, nell’ambulatorio del Navarra e che questi, “dopo un som­mario esame, non gli riscontrò alcunché di grave e lo rimandò a casa, non senza avergli fatto applicare della tintura di iodio sulla parte dolorante della spalla”;
2)   l’aggravamento “fino al delirio” viene fatto risalire, nello stesso rapporto, solo al 14, giorno in cui i genitori del Letizia lo fanno visitare da un altro sani­tario di Corleone, il dott. Ignazio dell’Aira che diagnostica uno stato di tossi­cosi e ascolta dal ragazzo il delirante sogno dell’uccisione “di una persona” in località Malvello;
3)   questa si trova sulla strada tra Corleone e Roccamena a molti chilometri di distanza, e in direzione opposta al feudo Casale dove — scrive Dalla Chie­sa — “il Rizzotto venne sicuramente soppresso e dove i suoi resti vennero poi trovati”.
Dunque, se il corpo del sindacalista venne ritrovato a notevole distanza dal luogo nel quale il ragazzo avrebbe assistito a uno o più delitti, i fatti sono due: o realmente a Malvello fu ucciso qualcuno e poi il corpo fu trasportato altro­ve, o tutte le straordinarie coincidenze tra la data dell’uccisione di Rizzotto, le “allucinazioni” del ragazzo, la sua tragica fine, sono meramente casuali. Ma la casualità delle coincidenze è, forse, l’ultima ratio per la lettura di un contesto mafiogeno, allo stesso modo di come non sarebbe proponibile non dare una spiegazione plausibile, anche se ipotetica, al fatto che la totalità de­gli omicidi denunziati a Corleone dal ’43 al ’48, si verifica di sera, o al calar delle tenebre, quasi con analogo rituale: con la vita che cessa di pulsare nel­le strade e nelle piazze, la gente che si ritrae nelle proprie case, la vittima che viene lasciata alla sua inerme solitudine. L’ipotesi dell’uccisione a Malvello  potrebbe, co­sì, seguire il consueto rituale sacrificale che non ha come scenario la rocca Busambra dell’ex feudo Casale, ma un luogo a valle, una o diverse masse­rie, dove i tribunali dei clan mafiosi tengono i loro processi e attuano i loro riti macabri sacrificali, almeno per le vittime più significative, più prestigiose. La rocca Busambra dell’ex feudo Casale è solo un cimitero, il paese un luo­go dove rintracciare le vittime. Questa tesi appare molto più plausibile, se si pensa al fatto che risulta più difficile organizzare e realizzare un sequestro di persona, che non provvedere alla eliminazione, magari con un colpo di pistola, della vittima de­signata. Se, a differenza di altri omicidi, quello perpetrato contro Rizzotto, seguì un iter particolare e travagliato, questo lo si deve alla natura del delitto in parola, e al fatto che, con tutta probabilità i clan mafiosi corleonesi, prima dell’eliminazione di un potente avversario, dovevano a loro modo fare giustizia delle sconfitte che pure andavano subendo in virtù delle leggi di ri­forma agraria in un’area dell’entroterra nella quale detenevano incon­trastati il dominio assoluto; e forse volevano anche venire a capo dei segreti di cui, un uomo che raccoglieva un vasto consenso popolare, era geloso custode.

 Giuseppe Casarrubea

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