Il funerale di
stato che si celebra oggi a Corleone per il ritrovamento dei resti di
Placido Rizzotto, come tutte le celebrazioni, rischia di mettere in ombra la
figura e l’opera del sindacalista assassinato dalla mafia sessantaquattro anni fa.
E allora per ricordarlo
come merita, oltre ad invitare alla lettura del libro di Dino Paternostro,
Le stelle in un pugno. Il sogno di Placido Rizzotto e dei contadini di
Corleone, edito da La Zisa nel 2011, ci sembra utile riproporre un saggio di Giuseppe
Casarrubea, pubblicato sul n.151/1994, della rivista Segno. L’articolo
di Casarrubea, infatti, pur risalendo a circa venti anni fa, ci sembra
ancora valido, anche se appare
opportuno confrontarlo con il più recente lavoro di Paternostro. Per rendere il
testo di Casarrubea più leggero l’apparato delle note è stato rimosso.
Placido Rizzotto e la mafia corleonese
Giuseppe Casarrubea
1. Il quadro generale
Una ragione di fondo giustifica e rende attuale,
a distanza di quasi mezzo secolo dalla sua tragica fine, la figura di Placido
Rizzotto. Essa rappresenta, infatti, una delle vicende di lotta e di impegno
democratico nella storia della Sicilia; di quel processo di costruzione del
tessuto civile, organizzativo, di cambiamento politico-sociale che, negli anni
immediatamente successivi alla nascita della Repubblica, si stava
faticosamente avviando all’insegna della migliore tradizione siciliana,
quella, per intenderci, del leghismo di Bernardino Verro o di don Sturzo, e in
un coevo dinamismo costruttivo dei presupposti di partecipazione popolare e di
sviluppo democratico fondati su un progetto statuale e costituzionale di
riforma dell’ancora imperante sistema feudale, di attacco al latifondismo
parassitario.
Ma se vi è un tale versante che si lega alla
costruzione, in definitiva, del nuovo Stato, dopo la caduta del fascismo, vi è
anche da riconsiderare non solo l’esperienza formativa dei gruppi dirigenti del
movimento contadino in quegli anni, ma anche i caratteri delle innumerevoli e
analoghe vicende di lotta che segnarono uno slancio verso la democrazia e
provocarono, al contempo, una spietata, sanguinaria ed estesa repressione, e
cioè il blocco reazionario di quel processo.
Il significato di questo aspetto, la sua
portata politico-istituzionale, le sue conseguenze sul piano della democrazia,
si leggono meglio alla luce delle risultanze delle confessioni dei pentiti,
dei maxiprocessi a Cosa Nostra, e dell’analisi che ebbe a fare Falcone circa il
carattere «unico e unitario» di questa organizzazione criminale. Dentro questo
inquadramento si leggono tutte le vicende di mafia della storia della nostra
Repubblica, e si scorge meglio come l’innumerevole serie di omicidi e di
stragi che insanguinarono la Sicilia mortificandola e impedendone la crescita,
siano come tasselli di un mosaico o, meglio ancora, frammenti che portano in
sé i dati di una storia più complessiva, i riflessi, gli atti
e i protagonisti della storia regionale e nazionale.
L’unicità e l’unitarietà di quel fenomeno,
acquisizioni recenti nella storia della magistratura italiana e nella
conoscenza storiografica e sociologica contemporanea, obbligano a una analisi
delle linee evolutive del sistema mafioso e dei suoi collegamenti con
il mondo della politica. Alla stessa stregua di come se ne sono
evidenziati i caratteri più attuali, esse inducono a ripercorrere le vicende
della storia più recente. Ma non è da escludere, fin da adesso, che l’apparente
frammentazione del dominio criminale mafioso sul “territorio”, in epoca
pre-falconiana, abbia, già negli anni della caduta del fascismo, un proprio
tessuto di organicità, una propria struttura, legata non più (e non solo) al
dominio municipalistico, o a diverse e non comunicanti realtà territoriali
(quali sono quelle che si evincono, ad esempio, dalle situazioni analizzate da
Hess, Blok e dagli Schneider) ma a un proprio progetto politico-sociale, in
vario modo connesso con scelte di carattere nazionale e con le caratteristiche
proprie di uno Stato che si apprestava ad avere una propria strutturale
complicità con la mafia già detentrice di un proprio dominio territoriale.
Rispetto al blocco agrario anticontadino, scrive, infatti. Nicola Tranfaglia,
si apre una “questione decisiva” che consiste sostanzialmente nel «fatto grave
che l’apparato dello Stato si comportò sempre in modo da garantire l’impunità
degli assassini e dei mandanti»
Placido Rizzotto ha in sé la storia della Sicilia
del secondo dopoguerra. Anzi, si ritaglia come una metafora
per ricongiungersi alla storia dei nostri giorni: al senso della lotta ancora
aspra che l’Italia degli onesti sta conducendo contro i poteri criminali e il
malaffare; alla nuova resistenza per la liberazione da un “regime democratico”
che ha impedito lo sviluppo della società, rendendo impossibile il gioco del
cambiamento; alla lotta, insomma, contro il potere di coloro
che in nome del popolo ne hanno bloccato la crescita, trasformando la
democrazia in dominio e in tornaconto personale; la cultura e la tradizione del
socialismo in comodo separé per i retroscena di tutte le tangentopoli.
La sua figura, in particolare, aiuta a capire il
tenore di un contesto non localistico in un momento cruciale della storia
d’Italia. Quando si andavano annodando le fila di un percorso che vedeva
consegnare la Sicilia al controllo della mafia, quasi per una occulta
decisione di delega a personaggi e partiti politici, capaci di gestire il
controllo sociale, di realizzare funzioni che lo Stato non poteva o non voleva
assolvere. La vita, come la morte di Placido Rizzotto, ne sono una esemplare
testimonianza.
Una storia del particulare che ha,
dunque, in sé i tratti della grande storia. Un emblematico esempio di vicenda
generale che trascende i limiti della semplice biografia, la dimensione
tipicamente geografica. Analizzarla è come scoprire fenomeni, fatti e cause che
superano la semplice azione del sindacalismo siciliano, o la stessa
consapevolezza del suo protagonista, su ciò che stava maturando, o era già
maturato, nelle sorti presenti e future dell’Italia. In un duplice senso:
quello del “rapporto di priorità” che comunque esiste tra “struttura ed evento”
e quello, non meno significativo, dell’inconscio collettivo come luogo
della sedimentazione secolare di bisogni profondi repressi. Aspetto, questo,
che già Corrado Dolio ha fatto riscontrare a proposito di un altro
significativo dirigente del movimento socialista delle origini, e cioè Nicolò
Barbato.
Lungo i cinquant’anni che separano Rizzotto dal
dirigente di Piana degli Albanesi e da Bernardino Verro, anch’egli
tragicamente ucciso dalla mafia corleonese (3 gennaio 1915: tra i denunziati
troviamo un Angelo Gagliano, zio materno di Michele Navarra), corre un filo
conduttore unico ai cui estremi riscontriamo: nel 1893/94 la repressione
crispina del movimento, ad opera dell’esercito e dei tribunali di guerra,
assunta direttamente dallo Stato, con notevole impiego di uomini e mezzi.
Mafia, latifondisti e gabelloti se ne rimasero per lo più a guardare, e usarono
lo Stato come braccio armato; dopo il ’43 all’azione repressiva statuale si sostituisce
quella della mafia, mentre lo Stato assume una funzione di garante di questo
controllo, quasi per un recondito atto di delega.
I fatti che analizziamo riguardano, dunque, un
nuovo capitolo della storia della mafia, quello nel quale si narrano le
vicende di questa organizzazione criminale come funzioni proprie di un certo
tipo di Stato lungo le grandi contraddizioni politiche e sociali del secondo
dopoguerra.
2. Camini e masserie: la dialettica tra
centro rurale e latifondo
Alla narrazione di quei fatti non è indifferente
la considerazione dello sfondo nel quale acquistano rilievo e si spiegano
molti di quei misteri di cuí è intessuta tutta la storia di paesi come Corleone.
È un luogo segnato secolarmente dalle consuetudini degli uomini e dalle cadenze
stagionali. La vita dei primi si svolge per lo più in grandi estensioni di
terra coltivate a frumento, dove sono presenti, tranne i periodi della semina
e della mietitura, che rendono i latifondi animati, sparute figure di bovari,
curatoli, pecorai, mesalori o annalori, che come pezzi dello sfondo del paesaggio
naturale, più o meno assiduamente, e con maggiore o minore intensità, rendono
viva, a modo loro, o intristiscono, la già desolata prolissità delle terre, il
malinconico spettacolo delle colline verdi o gialle, dei colori più cupi del
maggese. I latifondi hanno pochi segni distintivi, oltre alla forma del terreno,
per lo più pianeggiante o collinare, al loro caratteristico aspetto stagionale,
alla loro scarsa frammentazione geometrica. Essi presentano, qua e là, gruppi
di case costruite, forse, in epoche diverse e adibite a tutti gli usi. Quelli
di una vita lontana dai centri abitati. Sono, nel loro insieme, il cuore
dell’intera economia feudale, per quanto la datazione dell’abolizione della feudalità
risalga al lontano 1812. Sono le masserie.
“La masseria — scrivono gli Schneider — è un
rozzo complesso di costruzioni che formano un quadrato attorno a un cortile,
talvolta con un pozzo in mezzo. Nella costruzione principale si trovano l’appartamento
e gli uffici del proprietario o del suo amministratore. Le altre costruzioni
comprendono stalle per animali da tiro e da trasporto: magazzini per sementi,
cereali o attrezzi da lavoro; alloggi per i residenti permanenti, compresi una
cucina e un forno; giacigli di paglia per i lavoratori dei campi e i mezzadri
che restavano a dormire durante la stagione del raccolto. Alcune masserie
alloggiavano la manodopera contadina in capanne di paglia o piccole
costruzioni di fango (casette di muro); a volte comprendevano anche una
piccola cappella. I lavoratori residenti nella masseria di solito coltivavano
ortaggi vicino a qualche sorgente sotterranea in modo da potere irrigare gli
orti durante i mesi estivi. Ma c’erano pochi alberi ad addolcire il paesaggio
circostante. Altri, a causa della scarsità della legna, per cuocere il pane,
per riscaldare l’acqua. per fare il formaggio, accendevano il fuoco con paglia
e altri ramoscelli. In complesso la masseria non somigliava affatto alla
villa, al castello o alla casa padronale diffusi nelle altre regioni d’Italia e
in Europa.”
Centro propulsore di questa struttura è il
gabelloto, figura non già d’imprenditore agricolo, quanto, invece, di garante
della funzionalità del sistema chiuso dell’economia latifondistico-feudale.
Motore di uomini e azioni egli è, prima di tutto, depositario della cultura
della mediazione, della centralità sociale ed economica della funzione
intermediaria tra manodopera produttiva e padroni assenteisti. Nelle epoche
passate, ma ancora lungo tutto l’Ottocento, i gabelloti avevano pure assolto,
in molti casi, al tentativo di imprimere all’economia stagnante dei feudi, una
svolta di cambiamento: erano stati essi stessi enfiteuti e imprenditori;
avevano assunto, in proprio, sterminate estensioni di terre boschive
trasformandole in colture intensive, in vigneti e uliveti, soprattutto, ma
anche nella monocoltura della canna da zucchero — prima che lo zucchero
americano irrompesse sui mercati europei — o in quelle altre, molto diffuse in
Sicilia fino alle soglie del ’900, del lino, della canapa e del riso.
Esperienze, queste ultime, tutte fallimentari sia per la concorrenza
dell’industria tessile e risicola settentrionale, sia anche perché i grandi proprietari
terrieri, e con essi i gabelloti, dovendo scegliere tra sicure rendite derivanti
dallo sfruttamento della manodopera, e i rischi di imprese di trasformazione
agricola, talvolta anche molto costose, preferivano accontentarsi delle prime
piuttosto che affidare agli imprevisti, mezzi e capitali disponibili.
Il gabelloto, più del padrone, è, prima di
tutto, una fondamentale figura sociale ed economica: sotto il primo profilo
assicura la pax tra le categorie produttive e i proprietari; sotto il
secondo funziona ad un tempo come accumulazione selvaggia di capitale e
stabilità del sistema. Il suo passaggio alla conquista del territorio, nel
senso mafioso del termine, è graduale. All’epoca dei fasci dei lavoratori, ad
esempio, sono pochi i gabelloti che incontriamo nei feudi animati dai
contadini in sciopero, e quasi inesistenti appaiono le ingerenze armate dei
latifondisti per sedare le loro rivendicazioni. Il controllo del territorio, a
partire dalle strutture produttive, è, dunque, almeno a Corleone, progressivo
e si instaura lungo un cinquantennio a conclusione del quale le famiglie
mafiose detengono già il completo dominio:
feudi
mafiosi preposti
Strasatto
Luciano Liggio
Rubinia
Giovanni Pasqua
Malvello
Giuseppe Roffino
Muranna
Antonino Streva
Lupotto
Vincenzo Catanzaro
Rao
Carmelo Pennino
Ridocco
Antonino Governali
Piano di
Scala
Angelo Vintaloro
Donna
Giacoma
fratelli Mancuso
Patria
Biagio Leggio
Galardo
Vincenzo Collura
Giardinello
Vincenzo Maiuri
Il possesso materiale e culturale del territorio
avviene mediante un’operazione di trasferimento sul campo dell’ideologia che
aveva retto le logiche delle relazioni feudali. Non sono tanto le norme del
legittimo possesso, il senso della proprietà, a costituire un dato di valore socialmente
accettato, quanto, invece, i processi di consolidamento socialmente validi
delle prerogative di privilegio dentro una struttura gerarchica. In essa, la
nozione del lavoro come valore è decisamente negata, a tutto vantaggio delle
preminenti azioni di forza e di quei codici culturali, come l’onore, il
coraggio, la virilità, il familismo, le relazioni amicali e parentali, il
comparaggio, l’omertà, l’obbedienza, il clientelismo, il patronaggio,
l’orgoglio (con la conseguente suscettibilità), ecc. che costituiscono, nel
loro insieme, aspetti delle strutture sociali e culturali alla base delle
relazioni e dei destini di vita dei gruppi mafiosi, del sistema delle cosche.
I gabelloti che controllano i feudi sono
detentori di un potere destinato all’arricchimento (analogo in qualche modo
alla cultura della roba di verghiana memoria), ma che ha una spinta
direttiva in una struttura culturale capace di determinare un sistema sociale.
L’epoca della mafia preindustriale e pre-falconiana si connota per la solidità
delle connessioni tra l’organizzazione dei valori normativi dati dalla
struttura culturale e i dati delle relazioni determinate dalle strutture sociali,
in una unità incapace di dissonanze, di anomia. Lo Stato assente ha lasciato il
vuoto al dominio mafioso, e cioè un potere storicamente dato di organizzare i
valori della vita secondo riferimenti a precisi e differenziati modelli,
capaci di provocare conformità e assenza di deviazione.
3. Un padre invoca lo Stato
Il pomeriggio dell’ 11 marzo 1948 una figura di
uomo smarrita varcava la soglia della stazione dei carabinieri di Corleone. In
contrasto con tutte le sue convinzioni, con le regole dell’omertà, con quanto i
suoi stessi concittadini potevano avergli suggerito, decideva di parlare, di
riferire a qualcuno, che si intestava la rappresentanza dello stato di
diritto, la sua tragedia, l’ennesima intollerabile e barbara atrocità commessa
sulla carne della sua gente, della sua famiglia, di quanti — e non erano pochi
— avrebbero voluto cambiare. Solo l’amore per un figlio poteva averlo spinto a
tanto. Proprio lui che, ai tempi di Mori, aveva avuto qualche fastidio con la
giustizia e che conosceva uomini e cose della mafia, lui che da gabelloto non
poteva ignorarla.
Si chiamava Carmelo Rizzotto, padre di sette
figli. Era lì adesso, non solo per denunciare la scomparsa di Placido, ma per
fare i nomi di mandanti e sicari, per raccontare la verità, come
questa gli appariva dalla sua ricostruzione.
Gli risultava, infatti, che Placido era uscito,
la sera del giorno prima, dalla Camera del lavoro del suo paese con Giuseppe
Siracusa e Ludovico Benigno. suoi abituali compagni, e che, ad un certo punto,
il gruppo così composto, si era incontrato con Pasquale Criscione, un
pregiudicato ben noto alle forze dell’ordine.
Al locale commissariato di pubblica sicurezza
dichiarava, tra le altre cose, che al momento in cui il figlio era uscito di
casa, indossava pantaloni blu, giacca chiara, cappotto verde
e berretto grigio.
4. Notti d’inferno e cimiteri di mafia
Quelle informazioni sarebbero rimaste, con tutta
probabilità, lettera morta, se sul finire dell’anno successivo, in una delle
battute ad ampio raggio del gruppo squadriglie del Comando forze di repressione
del banditismo (CFRB), comandate dal capitano Carlo Alberto Dalla Chiesa, non
fossero stati catturati Criscione e Collura, a seguito di una “propalazione” di
un altro pregiudicato, Giovanni Pasqua, imputato di avere ucciso con Luciano
Liggio, la guardia giurata Calogero Comaianni, nel 1945, nonché Giovanni
Palazzolo, Calogero Castelli e Giovanni Ognibene. Questi ultimi erano stati
barbaramente trucidati nel 1947. Entrambi ammisero di avere partecipato al
sequestro, ma che l’uccisione del sindacalista, con tre colpi di pistola, era
avvenuta per mano di Liggio.
Si può credere a questa versione? Certo si deve
considerare che Liggio era un killer di ventitre anni come tanti se ne
trovavano a Corleone e in Sicilia nel mondo del latifondo. Non aveva un potere
di comando e, inoltre, il Collura (figlio di mister Vincent che sarà
ucciso in un agguato nel ’57) era tutt’altro che un mafioso che potesse prendere
decisioni di testa propria, o che per statuto familiare, si dichiarasse
disponibile ad accettare, oltre quella di Michele Navarra, l’autorità di
un altro con ambizioni non meno criminali delle sue.
Nei due pregiudicati, inoltre, era logico si
potesse escogitare una versione dei fatti che attenuasse le loro
responsabilità. Insomma i tre erano personaggi di manovra del grande puzzle
mafioso della zona, perfettamente inquadrati nella cultura dell’obbedienza
criminale, anche se screziata, al proprio interno, dalle diverse collocazioni
soggettive di uomini come il Collura padre, lo stesso Criscione, o il Liggio.
La versione Criscione, sottoscritta davanti al
capitano Dalla Chiesa, è nodale, non tanto per la comprensione della dinamica
dell’assassinio, quanto, invece, per l’analisi dei rapporti di forza interni
ai clan mafiosi corleonesi alle soglie degli anni Cinquanta, e costituisce un
tentativo di delimitare le responsabilità di due personaggi diversamente
collocati nello schieramento criminale locale. La scalata al potere mafioso,
lungo la gerarchia che conduce a Navarra, è molto aperta a diversi concorrenti.
Nel ’48, personaggi come Liggio, Collura figlio o Criscione, anche se fatti
come mafiosi, si trovano ancora a uno stadio piramidale basso, sono esecutori
di ordini che vengono da molto al di sopra di loro, da quelli dei quali non
esiste traccia alcuna nei verbali degli interrogatori. É una sorta di gioco
delle parti: ciascuno recita sapendo di farlo in un palcoscenico nel quale gli
unici personaggi reali che non vivono il gioco goffmaniano della ribalta e del
retroscena sono í protagonisti alla maniera di Rizzotto.
Lo scenario si apre con la piazza principale del
paese dove, a un certo punto, confluisce il gruppo Rizzotto/Siracusa/Benigno e
avviene l’incontro con Criscione. La mafia, come la morte, si presenta
all’improvviso, strisciando, insinuandosi nella quotidianità degli atti
ripetuti, delle facce da sempre viste, degli incontri abitudinari. E’ dentro la
conduzione apparentemente normale della vita. Ma Criscione non è un criminale
qualunque. In un rapporto alla Commissiome antimafia del ’70, Carlo Alberto
Dalla Chiesa lo menziona in un elenco di 14 personaggi, “tutti di grossa
taratura o potenziali mafiosi”, quale uomo di Navarra. E Placido non poteva non
saperlo. Si lascia avvicinare, assecondando il gioco consapevole dell’ambiguità
delle relazioni, che costituisce la normalità degli incontri. Tutto si recita
all’aperto, in uno sfondo di soggetti più o meno indistinti, sfocati, dove
si confondono vita e morte, passione e violenza.
Si attiva così la dinamica mortale.
Nei pressi del caffè Alaimo, Criscione si separa
dal gruppo perché chiamato da Liggio che gli ingiunge, con una pistola, di
proseguire con Rizzotto verso la villa comunale. Il futuro capomafia li
raggiunge in via Marsala. E’ armato. Intima a Rizzotto di seguirlo verso
via S. Elena, all’estremità della quale è appostato Collura, anche lui
armato. Il gruppo si dirige verso la contrada S. Ippolito e Liggio ordina
a Criscione di tornarsene e di non parlare con nessuno. Solo l’indomani questi
saprà dal futuro boss che il sindacalista “è cascato in un fosso dove nessuno
lo può trovare”. Anzi il futuro capomafia aggiunge: “Attento che di
quell’acqua ne potrai bere pure tu perché essa viene a spuntare nelle tue
terre!”.
La mafia, si sa, si esprime anche con codici di
tipo simbolico, ma Criscione dovette prendere alla lettera quell’avvertimento,
perché, essendosi informato sul suo significato, dichiarò, nella sua
deposizione, di avere saputo che nella montagna Casale esiste una buca da cui
hanno origine delle acque che affluiscono nelle terre del Drago. Le terre del
Drago, appunto. I contadini poveri di Corleone le avevano ottenuto, in parte,
grazie alle lotte di Placido, in applicazione dei decreti Gullo. Nel codice
linguistico di Liggio, dunque, I’ “acqua- era l’iniziativa mafiosa,
e le terre che ne beneficiavano erano anche quelle del Drago.
La versione resa da Criscione ai carabinieri,
alla presenza del capitano Dalla Chiesa, del brigadiere Capizzi e del
carabiniere Ribezzo, venne confermata da Collura, il quale ebbe pure a
precisare che, tornato indietro Criscione, egli, Liggio e Rizzotto. dopo avere
attraversato la località di S. Ippolito, si trovarono in un terreno seminativo
nella contrada Casale, dove gli era stato ingiunto di rimanere ad attendere,
mentre Liggio e Rizzotto avevano proseguito verso le pendici della montagna.
Precisò che pochi minuti dopo aveva sentito tre colpi di pistola e dal Liggio,
appena ritornato indietro, gli era stato riferito che egli aveva ucciso il
sindacalista e che il suo cadavere era stato buttato in una ciaca.
Il 6 dicembre del ’49 i carabinieri ispezionarono
i luoghi del racconto e, due giorni dopo, in particolare, una foiba
dall’imboccatura stretta e profonda circa 50 metri, dove venne fatto calare il
carabiniere Orlando Notari. Questi non riuscì a raggiungere il fondo di
quell’imbuto capovolto, poté scorgere, però, alla luce di una lampada
elettrica, “delle masse informi”. Il 13 di quel mese, vennero
finalmente estratti, con due successive discese del vicebrigadiere Paolo
Foresta e del vigile Luigi Partinico, parti dei resti scheletrici di tre
cadaveri, non consentendo le ristrettissime dimensioni dell’ingresso della
foiba e le condizioni dei cunicoli, di fare di più. Si tenne, in ogni caso, a
recuperare i reperti in modo che, specialmente durante le operazioni di
prelevamento dal fondo della foiba e di risalita attraverso i cunicoli, essi
non venissero a confondersi. Non si può escludere che scambi involontari tra
reperti siano potuti accadere in questa fase; ma è probabile che una simile
circostanza, se ebbe a verificarsi, possa essersi verificata dopo il
recupero dei miseri resti. Il fatto grave è che essi rimasero per qualche tempo
incustoditi o, quanto meno, in balia di chi poteva avere tutto l’interesse ad
alterare l’ordine della ripartizione dei reperti in tre distinti gruppi. Si
legge, infatti, nelle carte del processo del ’52 contro gli autori
dell’assassinio di Rizzotto:
“Tutti i reperti furono portati nella sala
mortuaria del cimitero di Corleone ed il giorno successivo quattordici
dicembre il vicepretore dott. Di Miceli con l’assistenza di un perito medico
legale, ed in presenza del capitano Dalla Chiesa, procedette alla ricognizione
sia dei resti scheletrici sia degli indumenti e di tutti gli altri oggetti
recuperati nella foiba.”
Come si vede, non solo c’era da sospettare del
rapporto di parentela del Di Miceli con Michele Navarra, ma anche di quella
camera mortuaria incustodita nella notte dal 13 al 14 dicembre. In ogni caso,
senza prestare fede alla esatta ripartizione dei miseri resti, risultava che il
primo gruppo comprendeva, tra l’altro, “una cinghia di cuoio blu”, “una
striscia di gomma piatta costituente un legaccio reggicalza, due pezzi di
stoffa verdastra, altri mezzi (sic) di stoffa color grigio scuro (…) frammenti
di un giornale”; il secondo “due scarponi di tipo americano con suola e tacchi
di gomma e resti ossei all’interno, nonché una calza, una cordicella elastica
legata a farfalla, presumibilmente usata come reggicalza”; il terzo “due
scarponi con suole e tacchi di gomma di tipo americano, con resti di piede
umano, lembi di stoffa per mutande e di stoffa pesante”.
Inoltre i periti, ai quali il giudice inquirente
aveva dato l’incarico di accertare età, statura e sesso dei cadaveri,
verificarono che i resti scheletrici del primo reperto appartenevano a
“individuo robusto, di sesso maschile, alto centimetri centosessantacinque
circa, giovane tra i venti e i quarant’anni”. Essi “ritennero che la morte
risalisse ad uno o due anni e non furono in grado di stabilire le cause”.
Relativamente agli altri espressero il parere “che essi appartenessero a due
scheletri, essendo alcuni di color grigio chiaro ed altri grigio scuro”; e “che
lo scheletro chiaro fosse di individuo dai venti ai trent’anni, alto cm.
159/160, mentre l’altro fosse di un individuo di sesso maschile, di età
imprecisabile, tra i 20 e i 40 anni e di statura non precisabile”. Uno di essi
fu riconosciuto da Giovanni Mancuso, il cui fratello Leoluca, latitante, era
scomparso dal luglio del ’46.
Lo stesso giorno 14, i resti e gli oggetti
repertati furono mostrati al fratello Antonino, e alle sorelle Biagia,
Agata-Giovanna, Concetta, Giuseppa, Agata, nonché alla matrigna Mannino Rosa
che dichiararono di riconoscere “gli scarponi di tipo americano con suole e
tacchi di gomma contenuti nel secondo reperto, i lembi di stoffa di color
verdastro, contenuti nel primo reperto, e i lembi di stoffa da mutande, di cui
al terzo reperto”. In particolare le sorelle Biagia e Giuseppa dichiararono di
riconoscere “la cordicella elastica legata a nodo Savoia” perché — dichiarò
quest’ultima — l’aveva usata anche lei qualche volta.
4. Il danno e la beffa
Ora, mentre Liggio si era reso latitante, Coltura
e Criscione venivano arrestati con mandato di cattura. Entrambi negavano di
avere mai reso delle dichiarazioni alle forze dell’ordine, asserendo, al
contrario, di avere firmato i verbali ignorandone il contenuto e perché
“sottoposti ad estenuanti interrogatori e violenze”. Ma c’è da chiedersi: non
erano stati loro a condurre le forze dell’ordine sul luogo del delitto? E
quali incertezze potevano ancora sussistere su almeno tre delitti avvenuti
negli ultimi due anni? In ogni caso, se ci fossero stati dubbi sul
riconoscimento di quei miseri resti, sarebbe stato sufficiente che la procura
della repubblica di Palermo sostenesse, come insistentemente sollecitato da
Carmelo Rizzotto, la necessità di ulteriori interventi di recupero dalla foiba.
Al contrario la procura, informando il Ministero di grazia e giustizia che,
secondo gli esperti, per tale circostanza, sarebbe stata necessaria la somma
di lire 1.750.000, esprimeva il parere che “la estrazione degli altri resti dei
tre cadaveri, fosse, ai fini processuali, di importanza relativa”. Delle due
l’una: o gli elementi di riscontro inducevano al dubbio — e in tal caso la
procura avrebbe dovuto sostenere l’acquisizione di nuovi elementi — o essi
potevano ritenersi già sufficienti per inchiodare mandanti e sicari alle loro
responsabilità. Tanto più che, intanto, il vecchio Rizzotto aveva continuato
le ricerche per conto suo ed era venuto a conoscenza di altri nomi che, senza
peli sulla lingua, gridava forte davanti ai giudici. L’uomo si diceva
fermamente convinto che gli esecutori materiali dell’assassinio del figlio
erano stati, oltre ai tre denunciati, anche Leoluca Benigno, Pietro Lisotta,
Antonino Maiuri e Giuseppe Ruffino; mentre i mandanti erano stati Leonardo La
Torre, Michele Navarra, Marcello Mancuso e Antonino Di Palermo, in quanto
appartenenti alla mafia e rappresentanti del partito separatista”.
Le cose andarono, invece, per un altro verso, e
poco ci mancò che la parte civile, nonché le stesse forze dell’ordine, primo
tra tutti il capitano Dalla Chiesa, venissero denunciati per falso dalla
stessa Corte di assise di Palermo presieduta da Gaetano Gionfrida e composta
dal giudice Emilio Di Maggio e da sei giudici popolari. Non andava a questa
Corte che Antonino Rizzotto potesse avere riconosciuto le “scarpe di tipo
americano” e che, anzi, avesse dichiarato di averle calzate e che, venendogli
strette, le aveva cedute al fratello. Non andava, perché la lunghezza del
piantare delle sue scarpe risultava più piccola di quella registrata sul paio
di scarpe attribuite a Placido. I giudici non tennero minimamente in
considerazione che la qualità di quella gomma, a causa di una lunga permanenza
in un ambiente estremamente umido, potesse avere subito una dilatazione, e che
era d’uso, in tutte le famiglie contadine, calzare delle scarpe un po’ fuori
misura, specie se comprate in quei fiorenti e diffusi mercatini di “roba
americana” frequenti nella Sicilia del dopoguerra. Al di là della sostanza dei
fatti, essi, in particolare, si aggrapparono a una ipotetica erroneità nelle
date dei verbali delle deposizioni di Criscione e Collura; diedero per
scontato che queste erano avvenute “sotto tormenti morali e fisici” e giunsero
ad accusare di falso i carabinieri verbalizzanti con questo specioso argomento:
“…che il perfetto allineamento che presentano sul
margine sinistro del foglio i verbali dattiloscritti in data 4 e 5 dicembre
1949 contenenti rispettivamente la pretesa confessione di Criscione e la
contestazione che gli sarebbe stata fatta dopo il rinvenimento del cadavere
dimostrano chiaramente che i due verbali furono dattiloscritti nello stesso
contesto di tempo, così come hanno affermato i due imputati nel dibattimento.
La Corte dinanzi tale accusa di falsità avverte
il dovere di ricordare che “la verità delle attestazioni delle operazioni
compiute dai pubblici ufficiali non può essere scossa che con mezzi di prova
singolarmente gravi e specificamente disciplinati”. Anche recentemente la
Suprema Corte — si precisava — ha confermato che ” il fatto storico della
confessione può contestarsi solo con l’impugnazione di falso’.”
Per la corte di assise avevano, dunque, ragione i
criminali e non i carabinieri, ai quali, forse, tutto andò bene se nessuno osò
denunciarli di falso o di qualche altro reato previsto dal codice penale,
tanto più che adesso i giudici scrivevano, assumendo le difese di Criscione:
“…se egli confessò di essere concorso nel delitto deve pensarsi che delle
pressioni dovettero essere esercitate sul suo animo da parte dei verbalizzanti”.
Sbalorditivo! E’ interessante notare come la
diversa esposizione dei fatti, all’epoca in cui essi si svolsero, attribuita
alle “voci popolari” e persino a un organo di stampa come la “Voce della
Sicilia” (di orientamento comunista), costituisca un ritaglio singolare per la
comprensione di quella dinamica, la cui versione sta sul versante della “parte
lesa”, e la cui originalità sta proprio nel fatto che su di essa si indagò
scarsamente, anche se costituiva una analisi di dominio pubblico. Dunque,
“Rizzotto sarebbe stato sequestrato nei pressi
della sua abitazione, avrebbe opposto ai suoi aggressori una viva resistenza,
tanto che le sue invocazioni di aiuto sarebbero state percepite da coloro che
erano nei pressi dell’incrocio delle vie Umberto I, S. Giovanni, Gullotta e
sarebbe stato trasportato fuori dall’abitato con una macchina.”
Questa versiome, risultante dalla deposizione di
Carmelo Rizzotto, è un ulteriore tassello da prendere in considerazione perché
questi si attivò subito nella ricerca della verità e, d’altra parte, il gruppo
Rizzotto-Benigno-Siragusa che usciva la tarda sera del 10 marzo 1948 dalla
Camera del lavoro, non aveva altra direzione di marcia che quella delle
rispettive abitazioni.E’ strano, tuttavia, che essendo noto il rischio che
correva il segretario della Camera del Lavoro, questi sia stato lasciato da
solo dal Benigno che rincasava. Sarebbe stato più logico che — supposto che
corrisponda a vero che ci si fosse attivati per proteggerlo — Siracusa e
Benigno, prima di rincasare, avessero accompagnato a casa il loro
segretario. La dinamica, purtroppo, fu inversa, ed ebbe come conseguenza
il fatto che Rizzotto venne a trovarsi da solo, a tarda sera, su un percorso
che, invece di portarlo a casa, lo consegnava praticamente al nemico. Ma al di
là di quest’esito probabilmente non voluto dagli accompagnatori, è interessante
leggere la testimonianza resa da uno di loro a Danilo Dolci nei primi anni
’60:
“…Lo sai come sono andate le cose? Il pomeriggio
Placido aveva lavorato e passeggiato un poco. Verso le nove è venuto il tizio
che sai (Pasquale Criscione, nda). Questo cerca di attaccare discorso,
per cinque minuti noi non ci si dava conto, non ci persuadeva. Lui continuava a
scherzare. Dovevamo fare la spesa. Chiediamo permesso. Viene anche lui.
Poi si va verso casa. Offre la sua compagnia. Non
si può rifiutarla. Arrivato a casa io entro, mai pensando cosa poteva
succedere: c’è gente intorno da tutte le parti. Loro scendono verso la piazza.
Da lì vengono seguiti da due uomini che erano in un caffè. Questi gli puntano
le rivoltelle dietro la schiena. Lui si ferma e chiede cosa volevano. Sono in
piena piazza del mercato. È marzo, le giornate sono già lunghe. Non aveva
piovuto, c’era gente in giro. La gente intorno sparisce dalla piazza. La piazza
si fa deserta. Qualche uscio si chiude. Lui non può che accettare l’invito,
forse gli dicono che si tratta solo di un ragionamento. Per la strada c’è
gente che li vede, decine di persone. Dove è la polizia? Punto interrogativo.
Nessuno vuole accorgersi di niente. Arrivati all’altezza dei gradini che dal
Corso Bentivegna immettono nella via Santo Rocco, ci sono altre due persone
nascoste ad aspettarlo. Immediatamente lui capisce, cerca di scappare salendo
la gradinata a destra. Arrivato in cima altre due persone gli buttano delle
coperte in testa, lo afferrano, lo pestano come l’uva, lo convogliano, lo
buttano in una macchina che era a venti metri di distanza, e via. Lui grida,
strilla. Nessuno lo vuole sentire.
E vuoi che sia giusto che uno si
faccia ammazzare per della gente se questa non vuole vedere e non vuole
sentire?
Il motivo del mio enorme dolore è questo: il
rimedio c’era. Perché non sono corsi? Perché l’hanno lasciato ammazzare”?”
É un interrogativo atroce: dentro la Sicilia del
cambiamento e delle lotte contadine, quelle che cinquant’anni prima avevano
visto le occupazioni dei latifondi e i patti vittoriosi sulla mezzadria, si
nascondeva adesso l’antica anima dell’omertà e della paura; la convinzione che
i più forti non erano quelli che stavano dalla parte di Rizzotto, ma gli altri,
i suoi nemici.
E’ già mutato il quadro delle scenografie di
fondo; alle masse solidali con i loro leaders, negli anni dei Fasci dei
lavoratori, disposte a farsi processare e a combattere su uno stesso fronte per
la difesa dei loro diritti calpestati, sono subentrate masse di contadini
impauriti che sanno di non potere trattare più con uomini a modo loro
liberali, quali erano stati, nel ’93, il sottoprefetto del circondario
corleonese Guizzoni, o il barone Cammarata o i ricchi proprietari Angelo
Streva, Gaetano Palazzo, Francesco Bentivegna e Gaetano Mangiameli che avevano
concesso ai contadini poveri le loro terre a mezzadria, abolendo il terratico e
i patti angarici. Sanno, soprattutto, che al gioco della libera concorrenza
tra manodopera e datori di lavoro, si è sostituito un dominio territoriale che
aveva visti consegnati, già dall’assassinio di Verro, e perdurante il regime
fascista, gli ex feudi allo strapotere della mafia, tanto che non un solo lembo
di terra sfuggiva, ora, al suo spietato controllo. Non si denotava solo il
dato oggettivo che la mafia, non era più disposta, come ai tempi della
repressione crispina, a delegare allo Stato la reazione anticontadina, ma si
prendeva atto, con disperata lucidità, che era proprio quest’ultimo a
legittimare il potere mafioso sul territorio, fino al punto da decretarne il
coatto consenso sociale, l’impedita reattività ambientale.
Tutto avviene nella consapevolezza delle parti
che si giocano. Criscione non persuade, ma il gruppo al quale egli si
unisce lo accetta; la sua compagnia non è gradita, ma il gruppo non può
rifiutare la compagnia di un uomo come lui. Tutto si svolge all’aperto; le
strade e la piazza del mercato sono crudeli testimoni. Sono cariche, adesso, di
una reattività sociale alla rovescia. Non sono Benigno e Siracusa a lasciare
solo il sindacalista; tutti spariscono perché nessuno vuole essere chiamato a
testimoniare qualcosa che ciascuno sa profondamente e che a distanza di tempo
suscita terrore, va tenuto ancora sotto anonimato (tizio che sai è l’espressione
che dopo ben oltre dodici anni usa l’interlocutore di Danilo Dolci riferendosi
a Criscione).
Comunque siano andate le cose, sotto il profilo
della dinamica dei fatti, è marginale sostenere una versione o un’altra; ciò
che conta è il movente, e constatare, a tale proposito, che i giudici non ne
trovarono alcuno che possa incriminare né Liggio né Collura anche se non
poterono fare a meno di scrivere:
“Soltanto nei confronti di Criscione Pasquale
potrebbe l’esistenza di una causale ravvisarsi, perché è certo che in data 12
novembre 1947 la commissione provinciale delle terre incolte presso il
Tribunale di Palermo propose a S.E. il prefetto la concessione alla cooperativa
agricola Bernardino Verro di cinquanta ettari di terreno dell’ex feudo Drago.
Vero è che il presidente della cooperativa era Rizzotto Luciano fu Stefano, ma
Placido Rizzotto come si è già accennato avrebbe dimostrato un particolare
interesse perché quelle terre fossero ritenute insufficientemente coltivate.”
Precisando subito dopo — senza considerare che
proprio l’oggetto di tale precisazione costituiva argomento di inquietudine e
perplessità —:
“…non risulta che il Criscione in conseguenza di
tale concessione avesse troncato quei rapporti di amicizia che secondo gli
stessi familiari lo legavano sin dalla gioventù allo scomparso. Che anzi, lo
stesso presidente della cooperativa ebbe a dichiarare che da parte dei
Criscione non fu in alcun modo contrastata la concessione delle terre,
circostanza questa che ha trovato conferma nella deposizione di un amico del
Rizzotto il Benigno Ludovico (da non confondere col Leoluca inquisito: nda)
che disse “escludo in maniera categorica che il Rizzotto, del quale ero
amico, ed appunto perciò l’avrei saputo, avesse avuto alcun incidente col
Criscione.”
Ed aggiungevano scaricando sulla parte lesa e
sugli inquirenti i motivi di discolpa degli assassini:
“…del resto lo stesso Rizzotto Carmelo, pur
manifestando la sua convinzione circa la responsabilità di Criscione Pasquale
aveva dichiarato al magistrato che non sapeva spiegarsi il motivo della
soppressione del figlio. Manca quindi nei confronti dei tre
imputati anche la prova di una adeguata causale, così come non poté esserne
accertata alcuna che presentasse caratteri di serietà e concretezza nei
confronti delle numerose persone che Rizzotto Carmelo, nelle sue molteplici
dichiarazioni stragiudiziali e giudiziali, ha accusato di concorso nel delitto,
senza fornire prove concrete come nel suo rapporto del 30 maggio 1950 ebbe a
riferire il capitano Dalla Chiesa che i sospetti del Rizzotto a carico del dr.
Navarra, direttore dell’ospedale civico di Corleone, di La Torre Leonardo,
esponente del partito separatista, del consigliere comunale Di Palermo
Antonino, di Mancuso Marcello Antonino, altro esponente del partito
separatista, del tenente dei carabinieri Chiofalo Filippo, che avrebbe
agevolato Leggio Luciano a sottrarsi alla cattura, ebbe a considerare in linea
di massima frutto di supposizioni personali e di fatti raccontati e più volte
manifestati ad uso e consumo di un padre giustamente affranto e depresso.”
Ma é ancora più sorprendente la conclusione della
sentenza, non solo per l’assoluzione con formula dubitativa degli imputati ma
anche per la parte che conclude le motivazioni. Leggiamo:
“Le confessioni dei periti autorizzano soltanto a
ritenere possibile che uno dei tre cadaveri, e presumibilmente quello a cui
appartenevano la tibia ed il perone repertati dal brigadiere Foresta (II
reperto) fosse quello del Rizzotto sia per l’età sia per
la statura del medesimo che dal foglio matricolare si è rivelato essere stata
di metri 1,64 e mezzo (corsivo dell’autore). Ma pur non potendo trarsi dagli
accertamenti anzidetti la conferma della bontà del
riconoscimento del cadavere del Rizzotto, non può la Corte rilevare che
infondate sono le critiche mosse da taluno dei difensori alle relazioni
dei periti. Dai verbali di ricognizione redatti dal pretore e dal
giudice istruttore risulta infatti in modo certo che la tibia ed il perone o
fibula furono rinvenuti proprio in quel settore del sacco che conteneva le
scarpe riconosciute dai familiari del Rizzotto e nel cui interno erano ancora
delle ossa dell’articolazione tubio-peroniera astragalica.”
Dunque, ce n’era abbastanza per emettere una
sentenza che fosse basata su riscontri oggettivi piuttosto che su
semplici e incerti indizi, come invece sostennero i giudici.
Quell’incipiente notte del 10 marzo aveva
veramente segnato un calvario atroce: un uomo, un dirigente contadino era
stato aggredito e condotto nel luogo del patibolo, nel pieno del buio e del
silenzio di quei feudi dati a pascolo e incolti, su cui si apriva il ventre
nero dell’inferno siciliano. Il pestaggio di un uomo inerme che nulla aveva mai
voluto per sé. Lo scenario di un ambiente che consegnava il coraggio della
lotta civile al silenzio omertoso, tre colpi di pistola, il nulla del baratro.
5. Barlumi di fuoco nella notte
Eppure qualcuno aveva visto. Come se il feudo
avesse avuto un anelito innocente di giustizia. Nel tragitto, il gruppo degli
assassini dovette essere costretto a fermarsi per una qualche ragione, forse
per la vana, ultima strenua difesa di Placido, forse per eseguire un barbaro e
macabro rito di distruzione del nemico, forse perché da qui il suo corpo senza
anima, avrebbe iniziato l’ultimo suo cammino all’aria aperta, prima di essere
inghiottito dalla terra. Non sappiamo. É certo, tuttavia, che le voci popolari
che Carmelo Rizzotto raccoglieva per riferirle inutilmente ai giudici o che si
riflettevano su quotidiani come “La voce della Sicilia”, riportavano la notizia
che un ragazzo di dodici anni, Giuseppe Letizia, “rimasto nel feudo Malvello
per sorvegliare il gregge del padre, avrebbe visto gli assassini commettere il
delitto”. L’articolo era stato redatto da Franco Ferna ed era apparso nel
numero 28 del 21 marzo ’48 col titolo: Un bimbo morente ha denunziato gli
assassini che uccisero Placido Rizzotto nel feudo Malvello. Vi si
sosteneva che il sequestro era opera di diversi uomini che, ad un segnale
convenuto di Pasquale Criscione, avrebbero condotto la vittima designata in
quella località, dove, appunto, il ragazzo sarebbe stato testimone oculare
dell’assassinio, tanto da esserne atterrito e sconvolto, da ammalarsi, da
essere preso da “allucinazioni”, da dovere essere ricoverato in ospedale, dove
sarebbe morto pochi giorni dopo per cause non accertate. In un successivo
articolo (26 marzo) intitolato: Per avvelenamento e per trauma psichico
l’allucinazione e la morte del bambino? lo stesso giornale riportava la
notizia che il sequestro era avvenuto per attiva partecipazione di Luciano
Liggio, che alcuni giorni dopo si sarebbe reso latitante. Sarebbe stato lui a
spingere con forza Rizzotto dentro una vettura “come una bestia sul carro del
macellaio”. Dopo l’articolo del 21 marzo, le autorità di pubblica sicurezza,
fatti gli opportuni accertamenti, con rapporto del 22 marzo, comunicavano alla
procura della Repubblica
“…che il ragazzo Letizia era deceduto per
tossicosi, come da certificato di morte redatto dal dottor Dell’Aira Ignazio;
che il ragazzo aveva avuto delle allucinazioni coordinate ed aveva narrato al
predetto sanitario che due individui l’avevano invitato a prendere un coltello
col quale avrebbero dovuto uccidere due persone e poi lui stesso, che la
macchina di cui si faceva cenno negli scritti sarebbe stata una 1100
appartenente a Leggio Luciano; che nessun elemento concreto era, però, emerso a
carico degli indiziati.”
Sull’episodio la principale sorpresa la dovevano
fornire, però, i familiari del ragazzo, per evidenti ragioni di natura
ambientale:
“Interrogati dal nucleo mobile di carabinieri di
Corleone e successivamente dal giudice inquirente, i congiunti del ragazzo
Letizia esclusero che egli avesse narrato di avere assistito alla uccisione di
Placido Rizzotto e riferirono che aveva, invece, dichiarato, presente anche il
sanitario che lo curava , di avere visto uccidere certi Cammarata Giuseppe e Busizio
(leggasi Benizio, nda) Leoiuca inteso Curriquagli da due
sconosciuti’.”
Certamente il ragazzo aveva visto uccidere
qualcuno, in quel tragico luogo di sosta, forse una vecchia masseria, al centro
di un esteso latifondo dove, altri ragazzi come lui, erano figure consuete,
manodopera gratuita con l’unico beneficio dei pezzo di pane garantito da
padri-padroni senza scrupoli. Risulta tuttavia strana la presenza di un
ragazzo indifeso e solo nel pieno della notte, nel vuoto notturno del
latifondo. Probabilmente altri avevano visto tra i bagliori di qualche luce.
Ma il ragazzo è l’unico a fare le spese di una traumatica testimonianza, e
certamente in quell’ospedale in mano a Navarra, la sua fine era stata già
segnata. SI registrano, infatti, circostanze sulle quali, forse, non ci si è
soffermati abbastanza:
1) Apprendiamo dal rapporto
Dalla Chiesa che il ragazzo fu visitato la prima volta, il 13 marzo,
nell’ambulatorio del Navarra e che questi, “dopo un sommario esame, non
gli riscontrò alcunché di grave e lo rimandò a casa, non senza avergli fatto
applicare della tintura di iodio sulla parte dolorante della spalla”;
2) l’aggravamento “fino al delirio”
viene fatto risalire, nello stesso rapporto, solo al 14, giorno in cui i
genitori del Letizia lo fanno visitare da un altro sanitario di Corleone, il
dott. Ignazio dell’Aira che diagnostica uno stato di tossicosi e ascolta dal
ragazzo il delirante sogno dell’uccisione “di una persona” in località
Malvello;
3) questa si trova sulla
strada tra Corleone e Roccamena a molti chilometri di distanza, e in direzione
opposta al feudo Casale dove — scrive Dalla Chiesa — “il Rizzotto venne
sicuramente soppresso e dove i suoi resti vennero poi trovati”.
Dunque, se il corpo del sindacalista venne
ritrovato a notevole distanza dal luogo nel quale il ragazzo avrebbe assistito
a uno o più delitti, i fatti sono due: o realmente a Malvello fu ucciso
qualcuno e poi il corpo fu trasportato altrove, o tutte le straordinarie
coincidenze tra la data dell’uccisione di Rizzotto, le “allucinazioni” del
ragazzo, la sua tragica fine, sono meramente casuali. Ma la casualità delle
coincidenze è, forse, l’ultima ratio per la lettura di un contesto mafiogeno,
allo stesso modo di come non sarebbe proponibile non dare una spiegazione
plausibile, anche se ipotetica, al fatto che la totalità degli omicidi
denunziati a Corleone dal ’43 al ’48, si verifica di sera, o al calar delle
tenebre, quasi con analogo rituale: con la vita che cessa di pulsare nelle
strade e nelle piazze, la gente che si ritrae nelle proprie case, la vittima
che viene lasciata alla sua inerme solitudine. L’ipotesi dell’uccisione a
Malvello potrebbe, così, seguire il consueto rituale sacrificale che non
ha come scenario la rocca Busambra dell’ex feudo Casale, ma un luogo a valle,
una o diverse masserie, dove i tribunali dei clan mafiosi tengono i loro
processi e attuano i loro riti macabri sacrificali, almeno per le vittime più
significative, più prestigiose. La rocca Busambra dell’ex feudo Casale è solo
un cimitero, il paese un luogo dove rintracciare le vittime. Questa tesi
appare molto più plausibile, se si pensa al fatto che risulta più difficile
organizzare e realizzare un sequestro di persona, che non provvedere alla
eliminazione, magari con un colpo di pistola, della vittima designata. Se, a
differenza di altri omicidi, quello perpetrato contro Rizzotto, seguì un iter
particolare e travagliato, questo lo si deve alla natura del delitto in parola,
e al fatto che, con tutta probabilità i clan mafiosi corleonesi, prima
dell’eliminazione di un potente avversario, dovevano a loro modo fare giustizia
delle sconfitte che pure andavano subendo in virtù delle leggi di riforma
agraria in un’area dell’entroterra nella quale detenevano incontrastati il
dominio assoluto; e forse volevano anche venire a capo dei segreti di cui, un
uomo che raccoglieva un vasto consenso popolare, era geloso custode.
Giuseppe Casarrubea
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