Sull’Emilia terremotata propongo oggi tre pezzi che mi hanno particolarmente colpito:
Contadini del sacro di Franco Arminio
Non hanno detto o non ho sentito neppure un nome dei morti, conta solo il numero.
E tutte le parole che dicono alla fine tengono lontano il dolore, il dolore del
padre che aveva rimproverato il figlio perché non studia o perché si ritira
tardi, il dolore di vedere un corpo tumefatto, dentro la tasca il telefonino
intatto, la camicia bianca piena di polvere, il pantalone grigio con una
macchia di sangue che pare un bicchiere, il dolore del funerale, il corpo
dentro il legno, basta un corpo, uno solo che non parla più, mentre un diluvio
di parole cade da ogni parte. Dopo il terremoto ci vuole un poco di silenzio o,
se si vuole parlare, allora bisogna parlare dei morti.
Forse vedere un corpo appena è tirato via da un capannone sarebbe uno squarcio
alla retorica che nebulizza ormai ogni evento, ne fa un altro cartone da
imballaggio per intrattenere i consumatori della notizia. Se non si vuole far
vedere un piede, un occhio, se non si vuol far vedere una mano rotta, la
macchina che aveva quel tizio, la borsetta dell’operaia, il quadro alla parete,
i profumi dentro il bagno, se non si vuol far vedere la vita allora è meglio
oscurare il video, togliere l’audio, mandare in onda solo una scritta con le
notizie, solo la parola nuda, se davvero si vuole essere la prossima volta un
poco più pronti.
Invece il terremoto è uno spettacolo, perfetto per la pista facile delle
polemiche, per dare la parola agli esperti, per mischiare scienza e paure
spicciole e poi dire degli aiuti e dei provvedimenti del governo. Le parole, le
scene sono sempre quelle. Si dice di un paese distrutto, non si da alcuna
notizie dei gatti morti, per esempio. Nelle case che cadono spesso abitano
anche i gatti. Andiamo a raccogliere un libro tra le macerie, andiamo a
salutare qualcuno con un sorriso molto sincero, molto affettuoso. Pensiamoci
veramente al vedovo, alla vedova, alla madre che ha perso il figlio, al figlio
che ha perso la madre. Consideriamoci quel che siamo, animali che possono farsi
gentilezze. Dobbiamo essere contadini del sacro, piuttosto che spacciatori di disincanto.
E dobbiamo mettere i pali di una democrazia profonda, chiudere nei cassonetti
la scartoffie dei banchieri, gli intrallazzi dei calciatori, le compassate
viltà dei cardinali. C’è da pensare intensamente a quei capannoni crollati,
pensare che il capitalismo ha sempre più un cuore macabro e mangiare alle sue
mense può sfamare ma non rende felici. Una democrazia degli scontenti non serve
a niente, non serve a niente crescere, uscire dalla crisi, se non ci prendiamo
veramente cura di chi soffre, se non sentiamo il dovere di onorare veramente i
morti.
Sarebbe stato bello se il Presidente della Repubblica avesse ordinato di
fermare la sfilata del due giugno o di annullare l’acquisto di bombardieri. Il
Presidente auspica, i partiti studiano come conservare i privilegi senza darlo
troppo a vedere. Non accade altro nei palazzi della politica. Il bello e il
brutto sono giù nel mondo.
I terremoti italiani, di Pierluigi Sullo
Nel
bellissimo romanzo di Maria Rosa Cutrufelli, “I bambini della Ginestra”, i
protagonisti, coinvolti da bambini appunto nella strage di Portella della
Ginestra, vivono i loro terremoti interiori intrecciandoli al sisma che colpì
il Belice, e Palermo, nel 1968. Era un anno di svolta, annunciato da una
catastrofe, l’alluvione di Firenze, quando migliaia di ragazzi accorsero a
salvare le biblioteche, e si compì con quel terremoto e con le pallottole della
polizia che ad Avola uccisero i braccianti.
Le faglie
che scuotono la terra non sono mai solo fisiche, anzi compiono e annunciano
periodi di storia, mettono alla prova – cambiandoli bruscamente – le società e
i loro governanti. Nella storia italiana – e non solo naturalmente – è sempre
andata così. Il terremoto dell’Irpinia e di Napoli, nel 1980, completò la
parabola del prolungato movimento giovanile e operaio nato negli anni sessanta,
e un’ondata di volontari, interi sindacati e consigli di fabbrica nonché
organizzazioni giovanili, organizzò i soli soccorsi che i terremotati ebbero,
nei primi mesi, e allo stesso tempo governanti ed amministratori esibirono
tutta la loro inefficienza e cialtroneria: lì si fermò l’epoca della
modernizzazione e si inaugurò quella dello sperpero e della corruzione, ossia
l’inizio della fine, durata poi un decennio, della cosiddetta “prima
repubblica”.
E quale
migliore metafora del berlusconismo se non la gestione del terremoto
dell’Aquila? La città autentica, storica, la cui concretezza testimoniava
storia e legami della comunità, venne abbandonata a se stessa (lo è tuttora),
per costruire una Aquila 2 (una Milano 2) di plastica, buona da esibire in
televisione nell’istante in cui il Capo consegnava paternamente le chiavi di
casa alla grata famiglia, e preda perfetta per le bande di predatori che si
aggiravano attorno a quel pozzo di interessi da cui ora vengono sputati fuori
gli effetti collaterali, come le “paghette” al Trota figlio di Bossi. La
raffica di inchieste giudiziarie che seguì agli imbrogli dell’Aquila – e a
quelli paralleli della Maddalena – hanno contribuito a incrinare un potere che
si basava sulla festa cafona in cui a tutti si promettevano ricchi premi.
Anche i
capannoni che vengono giù come carta velina, in Emilia, uccidendo gli operai
che ci lavorano, sono una metafora: quella dell’industria produci-e-getta, in
cui tutto è provvisorio – si deve poter delocalizzare in ogni momento – tranne
l’offesa al territorio. Ma poi: che terremoto sarà, quello dell’epoca del
governo dei “tecnici” e della Grande Crisi? Nel 1976, altro punto di svolta, la
società friulana reagì a un terremoto crudele con tenacia, riuscendo a
“raccontare” nelle pietre ricostruite la propria vicenda e coesione. Questa è
la prova cui sarà chiamata la gente dell’Emilia, una volta curate le ferite più
urgenti. Ma un governo tanto “assoluto” quanto d’emergenza, inaugurato da un
discorso di Monti in cui la parola ambiente ricorreva zero volte, e ispirato da
una persona come Mario Draghi, che per citare le sofferenze dei giovani senza
lavoro parla di “decadimento del capitale umano”, linguaggio da business
plan, come affronterà una situazione che non richiede numeri e “spread” ma
senso della storia e del legame sociale?
Da il manifesto del 31 maggio 2012
La mia terra ferita, di Roberto
Roversi
Anche allora nessuno ricordava le scosse della storia, quando nei secoli passati persino la Torre degli Asinelli era stata danneggiata. L´Emilia pensa spesso di essere indenne: viene colpita, soffre e dimentica.
Quel che sta succedendo adesso purtroppo riguarda tutti: abbiamo cementificato i fiumi, trapanato campi e colline. Dalla terra abbiamo risucchiato l´anima rispettabile, senza pietà. E quando arriva un terremoto, la catastrofe ci ricorda la forza imprevedibile e ci trascina nello sgomento.
Conosco bene quelle zone, la Bassa tra Modena e Ferrara, ricordo i campi e l´agricoltura. Poi è arrivato lo sfruttamento, qui come altrove. Ci sono posti con nomi bellissimi, Concordia, Mirandola, San Felice. Sono paesi della pianura, zone che circondano Bologna, paesi a un pugno dalle nostre finestre. Che hanno tremato con loro.
Ma oggi non credo che serva poesia né demagogia, perché la nostra terra l´abbiamo abbandonata. Servirebbe speranza, quella sì. Ma per la speranza occorre una passione che può nascere solo da una visione più grande che non schiaccia i deboli, gli umili, gli indifesi.
Parliamo spesso del senso di comunità che qui, in queste zone, è forte e saldo. Eppure credo, senza essere apocalittico, che anche quello possa andare smarrito. Nelle disgrazie ritroviamo la reciproca pietà: vengono fuori sentimenti austeri, di collaborazione. Ma sono sentimenti. Quello che serve è una visione, larga, del futuro. Che riconosca il passato e quel che è successo. Che ce lo faccia leggere, finalmente, e che lo voglia cambiare.
Come fecero gli illuministi dopo il terremoto di Lisbona: lo racconta Kant, lo spiega Voltaire. Un progetto per una città nuova. E – senza più bisogno di citare i grandi filosofi – come successe in Friuli. Quella ricostruzione è stata una vera ricostruzione: non c´è esempio uguale.
Oggi viviamo in un tempo arretrato, anche qui, in Emilia. E abbiamo sotto gli occhi le transenne che ancora imprigionano L´Aquila. Serve una tensione operativa, qualcosa che non sia solo percepito come elemosina di Stato ma diventi volontà di Governo per dare un segnale vero.
Per questo vorrei sfuggire alla retorica della comunità ferita che si rialza: può essere pericolosa perché ogni individuo deve contare su se stesso sapendo di poter contare sullo Stato. Su un´idea di progresso, di futuro. Abbiamo massacrato la terra, l´abbiamo manovrata e vilipesa, abbiamo deviato le acque e consumato natura: anche qui. Impietosamente. E ci siamo dimenticati della crepa, delle tante crepe che si possono aprire.
L´unica vera “vittoria” sulla tragedia del terremoto sarebbe quella che riconsegnasse alla gente la convinzione culturale, morale e istituzionale del mondo in cui si vuole vivere, lasciando da parte utopie liberistiche, falsamente democratiche. Dobbiamo ritrovare il coraggio di difenderci dal vortice della mortificazione del presente, “alzando da terra il sole”.
(testo raccolto)
Da La Repubblica 31.05.12
Dobbiamo fare in modo di riprenderci. Di riprendere in mano la nostra vita. Per noi e soprattutto per chi ci guarda. Usare la leggerezza del sorriso. Non abbattersi mai perché lì si insidia la sconfitta. Non dimentichiamoci però, al tempo stesso, di coloro i quali hanno avuto meno fortuna di noi, da loro bisogna trarre insegnamento. Bisogna che ci ricordiamo sempre di ciò che siamo stati. Noi siamo il paese che ha dato origine alla storia d’Europa. A proposito del terremoto dell’Emilia queste sono le parole che mi verrebbe voglia di dire. Ma non sono emiliano, sono solo italiano. Italiano del Sud, della Sicilia di una terra che prima dell’Italia ha visto arrivare sul proprio suolo popoli fuggiti dalle loro terre - messe a ferro e fuoco da altri popoli. Un territorio ricco di Culture che si sono fuse fra di loro così come le razze, accettandosi l’uno e l’altro nella diversità di lingua, di religione e di cultura. Questa mi pare, oggi, sia l’Emilia Romagna, una regione nella quale ho “soggiornato” durante la mia gioventù facendomi diventare un uomo. Allora non faceva distinzione fra meridionali, tunisini e emiliani (fermo restando i cretini che non sono mai mancati dappertutto). Oggi ascoltando la televisione mi accorgo che nulla è cambiato tra le persone. Gli extracomunitari si sono perfettamente integrati con gli emiliani piangendo insieme i loro compagni morti nella sciagura del terremoto. Un evento che conosco bene perché io in Sicilia nel 1968 c’ero già.
RispondiEliminaPalermo, 30/05/2012 Francesco M. Scorsone