È stato Marx a dare alla parola 'radicale' il
significato che ora si presenta a noi in tutta la sua potente attualità :
«Essere radicale significa cogliere le cose dalla radice. Ma la radice per gli
uomini è l'uomo stesso».
Piero Bevilacqua, nel suo ultimo libro Elogio della radicalità (Laterza, 2012),
si riallaccia a questo grande filone di pensiero.
Riprendiamo di seguito la recensione che ne ha
fatto Pierluigi Sullo:
Un
antidoto alle banalità moderate
La storia
delle parole è una cosa seria. «Riforma», per esempio, è una parola che ha
avuto un destino miserando, come quegli attori o calciatori un tempo ricchi e
famosi e di cui poi si viene a sapere che sono morti in miseria, soli e malati.
Una volta, «riforma» era l'alter ego della «rivoluzione», cioè un altro modo,
progressivo e progressista, pacifico e per via elettorale, di cambiare la
società nel senso della giustizia sociale. Poi se n'è impadronito il Fondo
monetario internazionale ed è finita come sappiamo: anche la distruzione
dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è una «riforma». Non parliamo
nemmeno di «comunismo», correntemente sinonimo di totalitarismo. Ad indagare le
correnti di senso che hanno fatto slittare i significanti, i contenitori, verso
un significato opposto, c'è da divertirsi. Specialmente se questi slittamenti
sono occultati. Credo sia questo il rovello che ha spinto Piero Bevilacqua a
scrivere Elogio della radicalità (Laterza, pp. 184, euro 16). Perché ne aveva
le tasche piene di sentir lodare da ogni politico e da ogni televisione il
«moderatismo» come virtù suprema della politica e dell'economia, quella cosa
che spintona chiunque si affacci sulla scena politica verso il mitico «centro»,
quel luogo in cui è sufficiente non far nulla, cioè lasciare che le cose vadano
per il loro verso (quello che la finanza vuole), per tirar su reti piene di
voti guizzanti. Non so se Bevilacqua gradirà, ma il suo libro l'ho letto
provando il gusto crescente della rivalsa, com'è tipico di quello che un tempo
si chiamava un pamphlet - un'invettiva piuttosto che con la calma riflessiva
che un saggio sa suggerire. Del resto, ricordo un articolo di un paio di anni
fa o tre, di Bevilacqua, mi pare fosse il 2008 dell'inizio della crisi dei
«subprime» negli Stati Uniti, in cui, con vigore polemico e abbondanza di
argomenti, si chiedeva conto agli «economisti»degli esiti del loro intollerante
dominio, tale per decenni da svuotare dall'interno e riempire di parole
contraffatte e di razionalità economica demente le università e i centri di
ricerca, la produzione culturale e i talk show : perché - chiedeva - non fate
ammenda? Non fanno ammenda per niente. Se gettate un occhio a Ballarò, la
trasmissione di Rai3, troverete che siede immancabilmente tra gli ospiti un o
una economista, che con aria astratta, come di chi non debba mai dubitare di
sé, esibiscono la loro moderazione ed enumerano i «fondamentali dell'economia».
Moderazione? Perché - si chiede Bevilacqua - chiamare in questo modo
l'estremismo, il fondamentalismo economico che ha ridotto il mondo nello stato
in cui è? «La crisi attuale - scrive - ci spinge (...) a porci la domanda
fondamentale: i due pilastri storici del consenso capitalista su gran parte
della società sono ancora in piedi La liberazione dell'individuo e la
prospettiva di un incremento illimitato e crescente della prosperità sono
sempre gli elementi chiave di una narrazione capace ancora di persuadere e
sedurre?». La risposta, parrebbe, è che no, questa narrazione non regge più se
non camuffandosi da destino inevitabile, da realismo, da «moderazione»,
appunto: «Sotto il profilo culturale, il moderatismo oggi rappresentra la
perpetuazione di un conformismo ideologico che è fra i più vasti e totalitari
che l'umanità abbia mai conosciuto. Esso si fonda interamente, malgrado i vari
scongiuri di rito, sul 'senso comune' neoliberista: un insieme di convinzioni
dottrinarie fra le più estremiste». Alla semplice domanda se sia ragionevole
credere che saccheggiando i redditi dei cittadini e allo stesso tempo
saccheggiando il territorio si gettano le basi per la «crescita», nessun
ministro «tecnico» è in grado di dare una risposta. Perché banalmente non è
pensabile. Così che il senso comune delle persone normali diverge bruscamente
dal senso comune dei «decisori» economici, ormai i soli abilitati a guidare
l'autobus su cui tutti noi siamo seduti. Ed è in questo scarto che il panorama
che Bevilacqua traccia nel libro inserisce la sua proposta: «Occorre
capovolgere il significato delle parole. Un ideale di generale 'moderazione'
(...) è diventato, nel giro di qualche decennio, la prospettiva di un progetto
rivoluzionario. (...) Qual è infatti oggi la finalità suprema dei disegni più
radicalmente eversivi dell'attuale assetto disordinato del mondo? A cosa
ambiscono i molteplici soggetti e movimenti che mirano a sovvertire l'ordine
capitalistico? È la prospettiva di una società sobra, che ponga fine al
consumismo smisurato, alla bulimia distruttiva di territorio e risorse,
all'affanno della crescita infinita (...)? A cosa aspirano i sostenitori della
decrescita, del buen vivir , di Slow Food, del Take Back Your Time e del
Downshifting amnericani, dei movimenti che rivendicano i beni comuni? Essi
chiedono l'avvento di una società conviviale, come la profetizzava Ivan
Illich». Beninteso, queste affermazioni sono confortate da Bevilacqua con
analisi, ragionamenti, citazioni (di un Marx molto diverso da quello dei
marxisti anchilosati), e in generale da una prosa che rende la lettura del
libro piacevole almeno quanto quella dell'ennesimo giallo scandinavo di consumo.
Già, qui si sta consumando un crimine molto efferato. Tutti noi possiamo
diventare gli investigatori che mettono il colpevole in condizione di non
nuocere più.
Pierluigi Sullo, il manifesto 24 maggio
2012
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