I funerali di Rizzotto
Giuseppe Casarrubea
Peccato.
Mi è rimasto l’amaro in bocca. Non credo che Placido Rizzotto sarebbe rimasto
contento di vedersi benedire da morto da un vescovo che non ha pronunciato mai
la parola mafia nella sua omelia. O che ha storpiato il suo nome in quello,
inesistente per la circostanza, di Rizzuto. Lui che era un socialista,
ammazzato dalla mafia come gli altri suoi compagni socialisti, alla vigilia –
possiamo dire – delle elezioni politiche del 1948, sarebbe stato invece
contento di sentire pronunciare i nomi di Calogero Cangelosi ed Epifanio Li
Puma, sindacalisti di Camporeale e di Petralia Soprana, ammazzati da
Vanni Sacco e dalla mafia madonita. E sarebbe stato felice di costatare che il
suo non era un riconoscimento privato, ma un atto dovuto a tutti quei
sindacalisti assassinati prima e dopo di lui. Per lo sviluppo, per la libertà,
per una Italia senza malandrini, senza mafiosi e mascalzoni.
Peccato.
Perché quello che doveva essere un evento di Stato, laico e riparatore, è stato
una cerimonia quasi privata, con scarsi riferimenti a ciò che rappresentò Cosa
Nostra in quegli anni di piombo e di terrorismo, quando si tentò di bloccare la
democrazia con la decapitazione del movimento contadino, e quando lo Stato
complice si liberava persino dalla fatica di portare a conclusione i processi
per condannare i colpevoli delle stragi e delle uccisioni, lasciando le
famiglie dei sindacalisti in balia di se stesse. Lo Stato si è macchiato di
colpe imperdonabili per i processi mai istruiti, per quelli mai conclusi, per
tutte le assoluzioni dovute a insufficienza di prove, per non avere mai
individuato i mandanti di stragi e delitti necessari a imprimere una svolta
reazionaria ed eversiva al governo della cosa pubblica. Ma anche per non avere
scritto mai, nè in Parlamento, nè negli atti del governo, nè in quelli della magistratura
una sola riga volta a riparare il colpo inferto alla democrazia negli anni
della ricostruzione. Perciò nessuno pensi di avere chiuso ogni discussione su
queste responsabilità con una messa solenne. Tanto più che i nomi dei veri
responsabili delle stragi e degli assassini di quegli anni, sono ancora
sconosciuti.
E’
vero. Lo Stato consegna oggi una tomba ai familiari di Placido Rizzotto. Anche
se senza corpo, quasi vuota, è simbolicamente ricca di senso, dopo che tutta la
corporeità di un uomo senza vita è stata seppellita per sempre dalla mafia, da
quanti avevano già in partenza stabilito che nulla doveva rimanere di chi aveva
combattuto fino in fondo una lotta senza quartiere contro i padrini di
Corleone, i colletti bianchi al contempo mafiosi e uomini di Stato,
criminali infiltrati nelle sue istituzioni, vermi della Repubblica nascente.
Ma
ci sarà per sempre una tomba, un posto in cui deporre un fiore, cantare un
inno, magari quello che ancora non si è intonato come se fosse un’offesa al
pudore, dire una parola parlando a un ideale, ad un’altra entità, superiore, a
un mito.
Oggi,
si è deciso di chiudere un lungo capitolo durato sessantaquattro anni. Un
tempo interminabile che non ha ancora reso giustizia e che non può concludersi
come se la storia tramontasse dentro una vicenda familiare e non segnasse una
realtà più vasta: le lotte per il pane e il lavoro, per la giustizia e per la
libertà, perché l’Italia fosse quella Repubblica per la quale molti
sindacalisti e uomini politici di allora si sono battuti. Oggi c’è stato
il trionfo del clericalismo sulla laicità dello Stato. Nessun inno dei
lavoratori. Sarebbe stata una diavoleria. Quando l’ipocrisia trionfa sulla
verità non c’è speranza di giustizia. “Eterno dubbio sulla storia – direbbe
Bufalino- : è un boia dai cento occhi o una sonnambula cieca?”. Vogliamo
sperare che non sia nè l’uno, nè l’altra.
Preferisco a quelle del vescovo, perchè confortano e ammettono la realtà, le parole di Giorgio Napolitano che da Palermo, dopo la cerimonia di ricordo di Falcone e Borsellino, prosegue fino a Corleone e Portella della Ginestra: "E' stato giusto tornare al punto di partenza, e il punto di partenza è Portella della Ginestra, il punto di partenza è Corleone, la terra di Placido Rizzotto. Così abbiamo chiuso l'arco e noi ci auguriamo fortemente che non si debba mai più riaprire una storia di brutali omicidi e di feroci stragi di mafia". Napolitano, sottolinea Umberto Rosso su Repubblica, "riporta il tricolore dove tutto cominciò, ovvero l'assalto dell'antistato mafioso". Non so se arriverà mai una definitiva e chiara ammissione delle responsabilità di uomini dello Stato( con nomi e condanne) nelle stragi che hanno lacerato l'Italia in questo faticoso dopoguerra di- paradossale- "guerra continua". E' certo comunque che Giorgio Napolitano sollecita a gran voce, con quel che è in suo potere fare, di intraprendere questa strada. Non è un caso che Agnese Borsellino, vedova del magistrato barbaramente ucciso due volte, una col tritolo l'altra con l'iniziale costruzione di una distorta verità giudiziaria, abbia fatto recapitare al capo dello Stato- e solo a lui- una lettera, quasi a giustificare la sua assenza in questi anni da tutte le cerimonie di facciata imbastite per nascondere le reali responsabilità. Nella lettera, dopo avere ancora una volta chiesto giustizia per il marito e gli uomini trucidati, ha destinato a Napolitano le parole del cuore che tanti sentono di dover dire al presidente: "Lei ha sottratto il nostro Paese al degrado etico e al tentativo di disgregare l'unità nazionale, gestendo con saggezza ed eleganza forse il periodo più turbolento della storia della Repubblica".
RispondiEliminaGrazie Agnese, come sempre a vincere realmente è la dignità.
Sono in tutto e per tutto d'accordo con te.
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