12 maggio 2012

RIVOLUZIONARI ALLA MASANIELLO







A lu tiempo de disperazione
Masaniello se veste 'a lione
Nu lione cull'ogne e cu 'e riente
Tene a famma 'e tutte 'e pezziente..


È una strofa dell'anonimo «O cunto 'e Masaniello», composto qualche tempo dopo la temibile quanto effimera sollevazione napoletana del luglio 1647.
Tanto per non dimenticarlo, contro l'aumento delle tasse sui generi di prima necessità. Motivo di insurrezioni innumerevoli nel corso di tutta la storia umana con l'inspiegabile eccezione degli ultimi decenni nel corso dei quali l'argomento è passato dalla parte dei padroni. La strofa torna vivida alla mente nel leggere in un sondaggio eseguito per conto delle Acli (l'associazione dei lavoratori cattolici italiani) secondo il quale ben il 32% degli interpellati ritiene che il nostro paese possa essere trasformato solo attraverso una rivoluzione, contro il 50,9% invece che confida nelle riforme, quelle convincenti ma anche quelle dolorose. E il resto (17,2%) è rappresentato da irrimediabili pessimisti, convinti che non ci sia più nulla da fare, che «l'Italia non cambierà mai». I sondaggi, si sa, sono quello che sono, e il gusto di parlare a vanvera e spararle grosse è da sempre uno sport nazionale, tanto più quando si presenta l'occasione di una intervista. Va a sapere poi cosa intendano davvero le persone interpellate per «rivoluzione» (quanto alle riforme sono diventate ormai una parola inquietante laddove non è mai chiaro se si tratti di migliorie o, come più spesso accade, di solenni bastonature). Grillo si considera senz'altro un rivoluzionario, per non parlare della Lega, del Front national di Le Pen, dei «rottamatori» e degli arrivisti di ogni risma. Ognuno, insomma, coltiva il suo personale, risentito massimalismo.
C'è dunque da dubitare che questo terzo degli italiani intenda per «rivoluzione» ciò che il termine classicamente designava e cioè un progetto razionale di società da conseguire rovesciando senza tanti complimenti l'ordine costituito. E in fondo non gliene si può nemmeno fare un torto. Nondimeno, se il 74% degli stessi intervistati risponde che toccherebbe ai più ricchi pagare i costi della crisi, tenendo conto del fatto che questi ultimi non hanno alcuna intenzione di prestarsi se non vi saranno costretti, allora ecco che almeno quel senso dell'ingiustizia subita e della rabbia popolare che mosse Tommaso Aniello da Amalfi e i suoi pezzenti contro le gabelle del viceré potrebbe sottendere e permeare gli impeti rivoluzionari di quel 32% di italiani scovati dalle Acli.
La rivolta di Masaniello ebbe durata brevissima, ma il suo mito ne ispirò molte altre che spesso indussero i governi alla prudenza nel taglieggiare i propri sudditi. Un potere al riparo da ogni minaccia finisce sempre coll'assumere tratti assoluti, come continuiamo a sperimentare. A dire il vero di leoni colle unghie e coi denti oggi non è dato scorgerne affatto. E così la rivoluzione, che non era un pranzo di gala, potrebbe essere diventata un sordo mugugno, o una conversazione da osteria. Eppure non sarebbe male se nelle fredde menti dei tecnici al governo (i viceré del capitale finanziario) questo dato stravagante potesse insinuare almeno qualche piccolo dubbio.

Marco Bascetta  su IL MANIFESTO del  3 maggio 2012


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 PS: ripropongo la recensione di Massimo Firpo di un classico della nostra storiografia sulla "rivoluzione" napoletana del seicento.
 

Napoli e i sogni di libertà

Il Sole 24Ore Domenica 24 giugno 2012
Napoli e i sogni di libertà
I fatti che portarono a Masaniello nell’appassionata ricostruzione, ormai un classico, di Rosario Villari
di Massimo Firpo
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Sono passati 45 anni da quando nel 1967 Rosario Villari pubblicò da Laterza un libro importante (e per questo discusso) su La rivolta antispagnola a Napoli. Le origini (1585-1647). Un libro che studiava le radici profonde di una crisi economica, sociale e politica sfociata infine in un’insurrezione che sarebbe poi passata alla storia come la rivolta di Masaniello. Una definizione falsificante, che consegna l’anima della rivoluzione a chi ne fu leader per pochi giorni e la svilisce a tumulto popolare, a jacquerie plebea di lazzari affamati. Perché di vera e propria rivoluzione e non di episodica rivolta si trattò, per di più inserita a sua volta in un più vasto scenario di insorgenze e ribellioni che nei cruciali anni quaranta del Seicento interessarono tutta l’Europa, da Napoli alla Catalogna, dall’Irlanda all’Inghilterra di Cromwell, dalla Francia delle Fronde e delle rivolte contadine al Portogallo nuovamente indipendente dopo 60 anni di dominio spagnolo, mentre su larga parte del continente infuriavano le devastazioni, i saccheggi, le pestilenze, le infinite atrocità e miserie che ovunque accompagnarono la guerra dei Trent’anni.
Quel libro si era inserito in un appassionato dibattito storiografico destinato a lunga fortuna sulla cosiddetta crisi del Seicento, che proprio nel configurarsi come fenomeno generale sollecitava il confronto tra diversi orientamenti culturali e ideologici in una stagione in cui il marxismo era ancora vivo e vitale. Crisi delle strutture sociali o crisi degli apparati statali? Fallimento o ancor più colpevole tradimento delle borghesie, ovunque protese ad abbandonare le attività produttive, a investire in forme di rendita le loro ricchezze, a entrare a far parte anch’esse di qualche ceto nobiliare, oppure inevitabile esaurimento ciclico con la crisi del 1620-21 della lunga fase di espansione demografica ed economica del “lungo ’500″? Rifeudalizzazione o insostenibilità finanziaria delle pletoriche corti barocche, dello sperpero nobiliare, della corruzione e del patronage clientelare? Strutture economiche e sociali o sovrastrutture politiche e culturali? E in particolare per l’Italia, quali furono le ragioni della sua “decadenza”, come si usava dire, della sua marginalizzazione economica nell’età che vide il baricentro dei traffici spostarsi dal Mediterraneo all’Atlantico, e quale fu il ruolo del lungo dominio spagnolo nella storia del Mezzogiorno?
Un sogno di libertà riprende quel libro, non solo per estenderne la narrazione storica anche alle vicende e agli esiti della rivolta, ma per ripensarlo alla radice sulla base di nuove fonti e nuove ricerche, di nuove acquisizioni storiografiche, di nuove riflessioni. I 6 capitoli in cui si suddivideva sono diventati 18 e le 242 pagine sono cresciute a 666: testimonianza di una tenace fedeltà a un problema storico di respiro europeo e di cruciale rilevanza per la storia d’Italia. Fa bene Villari a rivendicare nelle pagine introduttive il suo consapevole sottrarsi al «settorialismo frammentario e dispersivo» della microstoria, alla delegittimazione della ricerca storica nelle nebbie del linguistic turn, alla pretesa di autosufficienza di una storia sociale tanto compiaciuta di sé da illudersi di poter fare a meno della storia politica, dell’azione degli individui, della forza delle idee, del loro agire sui fatti ed essere a loro volta agite dai fatti. Anche per questo dai primi e già maturi risultati del 1967 fino all’ampia sintesi del 2012 emerge in tutta chiarezza una coerenza profonda con una grande tradizione storiografica italiana che, sia pure con prospettive diverse, con accentuazioni differenti e talora con franche polemiche, ha portato nello studio della storia passioni politiche e identità culturali, ha guardato al passato per capire i problemi del presente, ha usato con sagace empirismo i metodi della ricerca senza lasciarsi invischiare in sterili questioni teoriche, ha tenuto la barra di quell’impegno civile che della storia costituisce un presupposto fondamentale.
Un impegno che emerge nella partecipe ricostruzione fatta da Villari delle energie che ispirarono in chiave riformatrice o rivoluzionaria i tentativi di cambiare il corso delle cose, di dar vita a «un sogno di libertà». Non è possibile seguire qui in dettaglio la densa, minuziosa, appassionante ricostruzione di uomini e cose, di vicende e conflitti, di progetti politici e istanze sociali, di ambizioni personali e movimenti collettivi che si dipana nelle pagine di questa grande sintesi, attenta a non incentrare l’attenzione solo su Napoli, i suoi centri di potere, le sue congiure aristocratiche e le sue lobbies politiche e finanziarie, ma anche sulla periferia del Regno, dalla Calabria alle Puglie, con le loro campagne e i loro baroni, i loro massari e i loro braccianti, i loro gabellieri, i loro banditi, ma anche i loro rivoluzionari. Un Regno che era a sua volta la periferia di un impero, al quale aveva dato «montagne d’oro e fiumi di sangue», ma le cui esigenze finanziarie di fronte a uno sforzo bellico immane si facevano sempre più affannose e sempre più insostenibili, e le cui inefficienze amministrative e l’endemica corruzione comportavano che solo un quinto delle somme di danaro esatte in nome del re finissero nei forzieri di Madrid, mentre molti dei funzionari spagnoli consideravano l’esilio napoletano solo un’opportunità per riempirsi le tasche.
Al centro di questo nuovo libro non c’è quindi soltanto il Regno di Napoli, ma la Spagna con la sua crisi profonda che si riverbera anche in Italia, all’insegna di un’emergenza finanziaria ormai ingovernabile che la costringeva a svendere la sua stessa sovranità con alienazioni di beni demaniali e di città regie, a ridare fiato alla feudalità e a un baronaggio comunque e sempre riottoso e insofferente, a vivere di oppressivi espedienti. «La rivoluzione napoletana e la sua sconfitta – scrive Villari – non furono soltanto la catastrofe di una provincia; furono anche un aspetto del lungo declino della monarchia, del suo ritrarsi dai problemi del mondo moderno con i quali i riformatori e il popolo rivoluzionario, in modi diversi o contrastanti, l’avevano messa a confronto».
Riformatori, dunque, come Vincenzo d’Andrea, esponente di un ceto medio in formazione guidato da legisti le cui istanze antifeudali cercavano un raccordo con il popolo, escluso da ogni rappresentanza politica, fino a maturare consapevoli istanze repubblicane; o come Giulio Genoino, il prete-giurista (ma anche storico, suggerisce Villari) che fu l’anima, il cervello pensante, la testa politica della prima fase della rivoluzione, che quelle stesse energie popolari cercò di mobilitare a fianco della monarchia per spezzare il dominio baronale; o come alcuni degli stessi viceré spagnoli quali il duca di Osuna e il duca di Medina, consapevoli della gravità dei problemi che affliggevano la corona di Spagna, delle infinite magagne cui occorreva rimediare (dall’alto, prima che fosse troppo tardi) e del baratro in cui essa rischiava di precipitare se non si fosse presa un’altra strada, ponendo un argine alle speculazioni finanziarie, allo strapotere della feudalità, al perenne primato di una fiscalità rapinosa che tutto rischiava di distruggere.
Dal confronto con il libro del 1967 emerge come pressoché tutti in chiave politica si svolgano i suoi corposi ampliamenti, attenti agli accadimenti della corte di Madrid, al modo di concepire il ruolo dello Stato e il bene pubblico nella riflessione politica dell’età barocca, alle diverse correnti politiche rivoluzionarie (riformatori, indipendentisti, repubblicani), all’azione dei protagonisti grandi e piccoli delle vicende qui narrate : viceré spagnoli e affaristi napoletani, come il ricchissimo mercante Bartolomeo d’Aquino diventato padrone del debito pubblico e principe di Caramanico, il conte duca d’Olivares onnipotente ministro di Filippo IV, don Giulio Genoino, lo stesso capopopolo Tommaso Aniello d’Amalfi detto Masaniello, per pochi giorni padrone di Napoli, Enrico II di Lorena duca di Guisa, un avventuriero che volle far credere di potervi rappresentare i gigli di Francia. Ne risulta un quadro ricchissimo, frastagliato, complesso, in costante mutamento sullo sfondo delle guerre europee, in cui emersero vigorose progettualità politiche volte non solo alla tutela di interessi particolari ma a un diverso modo di governare che diventava «un sogno di libertà». Un sogno rapidamente infranto, il cui fallimento riconsegnò il Regno ai riti atroci della repressione, all’interminabile agonia della Spagna asburgica e alla morsa feroce dei suoi baroni.
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Rosario Villari, Un sogno di libertà. Napoli nel declino di un impero 1585-1648, Mondadori, Milano, pagg. 716, €24,00

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