< Sulle facciate d’edifici pubblici, su palazzi privati,
ville e chiese, belvederi, sulla lunga scala di Santa Maria del Monte, sono
fregi, pannelli, vasi, mattonelle di ceramica che brillano al sole, mandano nel
tufo biondo bagliori come le pietre preziose incastonate nell’oro. Quest’arte
della luce del cielo fissata nell’argilla, questa festa di colori sigillati
sotto lo smalto, questa cultura antica della terra, del fuoco e dei metalli che
dall’oriente si propagò nella Spagna delle lozas
doradas e degli azulejos, nella
Sicilia delle cannate e delle burnie e delle quartare, che arrivò finanche, come lampo che squarcia nebbie e
brume, a incastonarsi, in forma di lucida scodella, sulle facciate, sui
campanili in cotto, rosso cupo, delle chiese romaniche della Lombardia, come
nel San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia, ebbe in Caltagirone il suo centro, la
sua capitale. >
Da: Vincenzo Consolo,
L’olivo e l’olivastro, Mondadori 1994, p.74. *
* Ma dove c'è luce, le ombre non possono mancare. Così lo stesso Consolo, con la sua aspra dialettica, non
manca di rilevare le contraddizioni che lacerano Caltagirone. Il paese, infatti, ai suoi occhi appare anche come “il plastico, l’emblema del più grande paese,
della vecchia Italia che ha generato dopo i disastri del fascismo, nei cinquant’anni
di potere, il regime democristiano, la trista, alienata , feroce nuova Italia
del massacro della memoria, dell’identità, della decenza e della civiltà, l’Italia
corrotta, imbarbarita, del sacheggio, delle speculazioni, della mafia, delle
stragi, della droga, del calcio, della tv e delle lotterie, del chiasso e dei
veleni.”(ivi p.71)
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