Riprendo
dal giornale La Repubblica di oggi l’ intervista di Maurizio Bono a George
Steiner che parla del suo ultimo lavoro dedicato al libro dei libri.
“Dobbiamo
imparare a dire no. Il pensiero libero è in pericolo.”
di Maurizio
Bono
I libri non spariranno, il pensiero libero forse
sì. Perché la vera fragilità è degli uomini: «La mia paura è che la
collettività, o meglio la sua potenza tecnologica, soffochi tutto. Oggi una
persona autonoma, libera, fatica a trovare una porta aperta per far conoscere
la sua visione. I pensieri anarchici rischiano di perdersi in mezzo al rumore
senza limiti, all’uniformità del gusto volgare e alla dittatura della
ricchezza». George Steiner, il più lucido e originale critico delle crisi
ricorrenti della cultura occidentale, è stato in questi giorni a Milano per
accompagnare l’uscita (da Vita e Pensiero) del suo breve, denso testo Il
libro dei libri, sottotitolo “Una introduzione alla Bibbia ebraica”, e
nonostante la diversità di approccio e convinzioni all’Università Cattolica,
dove ha dialogato con il cardinal Gianfranco Ravasi, si è sentito perfettamente
a casa: «Ricordi che per noi ebrei il testo è una patria, io credo che il
giudaismo sia più una pedagogia trascendentale, un insegnamento che una
religione. Rabbino significa insegnante e lettore della parola, non prete. La
Bibbia è una mescolanza di fantastica diversità di narrazioni, saghe, racconti,
leggende, leggi, rituali – come direbbe il mio grande amico Umberto Eco è
veramente la “forma aperta” – senza la quale non ci sarebbero né arte, né
letteratura e neppure musica, nella storia occidentale. Questo è il vero,
profondo legame tra me e il mondo del Cardinale Ravasi: il nostro amore per i
libri, in un mondo in cui l’esperienza della lettura seria, del dialogo
personale e privato con il testo, sta diventando purtroppo rara». E così, oltre
che a casa, George Steiner in questi giorni si è ritrovato anche spaesato, come
altrove in Occidente: «Anche qui da voi stanno sparendo le piccole botteghe. Un
segno. Perché l’omologazione, del paesaggio urbano e delle nostre vite, è
talmente forte da rendere difficile pronunciare quella parola fondamentale che
è “no”. Per quanto saprà ancora, il singolo individuo, opporsi al conformismo?
Per questo credo che il nostro mondo, quello dei professori e di chi ancora ci
ascolta e ci legge, debba difendere una possibilità di resistenza».
Dove suggerisce di cominciare?
«Come ho detto ai giovani che ho incontrato, si
comincia dalla lettura e dalla memoria. I giovani hanno una paura terribile
della solitudine, ma la lettura seria, il dialogo con il testo, diventare amico
di un grande poema o di un grande libro vuol proprio dire stare soli, nella
concentrazione e nel silenzio, per riconoscere se stessi».
Perché abbiamo perso l’abitudine di farlo?
«Vorrei dire una cosa un po’ pericolosa: il
cattolicesimo non è un grande amico della lettura. Il ruolo universale della
Bibbia è un prodotto del protestantesimo. Sono state la traduzione di Lutero e
la Bibbia di Re Giacomo a garantire alla Bibbia una vera universalità. Il
cattolico, specialmente nei paesi mediterranei come Italia e Spagna, la legge
poco, mentre il protestante è lettore della Bibbia dall’infanzia. Ma
soprattutto oggi c’è un altro problema».
Quale?
«La scuola. E se mi permette anche la scuola
italiana. Che è diventata una forma di amnesia organizzata. Memorizzare un
brano, una pagina di Geremia o di Dante o di Shakespeare vuol dire
interiorizzare una grande forza di resistenza. Il dispotismo della finanza, la
dittatura della ricchezza di cui in Italia negli ultimi anni avete fatto
diretta esperienza, non può distaccarci dalla nostra memoria interiore. Il
grande poeta russo Mandel’stam, la Achmatova, sono sopravvissuti nella memoria
dei loro lettori. Neppure Stalin ha potuto distruggerla. Per questo, mi
sembra fondamentale dare al muscolo del ricordo un po’ di forza: io all’espressione
italiana “imparare a memoria”, che è un po’ banale, preferisco quella francese,
“apprendre par coeur”, o l’inglese “by heart”».
Si può proporre la Bibbia a memoria anche a
orecchie ormai abituate al rumore assordante?
«La Bibbia rimane l’inventore delle principali
tematiche del nostro autoriconoscimento, il miracolo è la qualità anche
letteraria di quei testi, imparagonabile a ogni altro libro per forza
narrativa. Le pagine sul destino di Gerusalemme, Geremia, la storia di re Saul
e David, la meravigliosa favola di Ruth la straniera nel paese dei Moabiti:
questi e tanti altri sono brani senza i quali non esisterebbe la cultura
occidentale. La voce formidabile che risuona dal deserto e dal passato rimane
il codice e la definizione, con Omero, Dante e Shakespeare, gli altri tre sommi
autori, della nostra coscienza europea e di quella americana».
Omero, Dante, Shakespeare, la Bibbia antidoto ai
guasti sociali del presente. Eppure è stato proprio lei, professore, a
descrivere meglio di chiunque altro la cultura occidentale, in lavori come il Castello di Barbablù o il recentissimo On
the poetry of though (Garzanti lo pubblicherà in italiano in autunno) come
un susseguirsi di crisi e cesure, dalla classicità alla “post-cultura”.
«Sì, è troppo facile lamentarsi e credere che a
ogni generazione la nostra civiltà sia alla fine. C’è il rischio di sbagliare
come i più autorevoli intellettuali d’Europa che all’avvento della rivoluzione
di Gutenberg parlarono della morte del libro. È un azzardo fare pronostici
sulla attualità, appaiono sempre nuove forme. Si può solo, a volte, definire la
transizione mentre avviene, vedere il passo che attraversa la frontiera:
pensiamo all’Ulisse di Joyce, un capolavoro classico nel senso più
radicale, opera vicina a Omero, e poi a Finnegan’s Wake, un’opera
totalmente nuova scritta per trovare una lingua dell’inconsapevole, del sogno e
della notte, un esperanto dell’ignoto. Joyce è stato un uomo di genio su due
parti della frontiera, e la nostra età comincia davvero dopo Finnegan’s
Wake, dopo il surrealismo e le altre avanguardie. Nel mondo del rock è
cambiata la qualità del suono, della luce e perfino del corpo. Ma attenzione,
il punto non è il susseguirsi delle forme nuove. Anzi. Ogni forma nuova è
spesso l’espressione di una creatività».
Che oggi rischia di spegnersi.
«Sì. A causa di questa “collettività
tecnologica”, appunto. Che non lascia spazio agli sperimentatori. Se l’Ulisse
joyciano si concludeva con il celebre “yes” di Molly Blooom, oggi è necessario
stare con Sartre che scriveva: “il pensiero è dire no”. Di fronte a questo, mi
piace ricordare che per il popolo ebraico il libro dei libri è stato la
garanzia della sopravvivenza e della identità, un libro eternamente
“tascabile”, col quale da un esodo all’altro ha potuto portarsi dietro, nel
successivo rifugio ed esilio, l’essenza di sé».
Nella prefazione al suo libro, che è anche un
dialogo tra voi, Ravasi esprime un garbato rammarico per il fatto che “Steiner,
collocato sulla frontiera (per altro mobile) dell’agnosticismo, lascia qua e là
brillare, ma non affronta mai di petto” l’“interrogativo estremo”. Insomma, non
contempla che il vero autore della Bibbia possa non essere l’uomo…
«Sì, io non credo a una rivelazione
sovrannaurale. Anche se nel Libro dei libri ci sono trame e capitoli, che sono
di una tale potenza e perfezione formale che è molto difficile per me
immaginarli prodotti da un uomo come lei o come me. L’ho già detto facendo un
esempio oramai noto: posso immaginare Dante che dopo aver scritto l’incontro
con Brunetto Latini va al supermarket a comprare il pane o il burro, ma non
posso immaginare l’autore o l’autrice – è possibile che sia un’autrice – dei
discorsi di Dio nella bufera del libro di Giobbe o del Salmo 23 come una
persona comune, per quanto straordinaria».
Quindi chi ha scritto la Bibbia?
«Heidegger su questo punto ha dato una risposta
affascinante: la Bibbia rappresenta un momento dell’evoluzione umana dove la
lingua era più prossima all’aurora dell’essere, una lingua quasi adamica,
immediata alla verità. Una teoria meravigliosa ma totalmente assurda, perché
l’evoluzione linguistica dell’uomo è un processo sociobiologico naturale. Di
fronte all’origine di quel testo immenso preferisco rimanere nell’enigma e
nello stupore senza fine».
Maurizio Bono, La repubblica 19 maggio 2012.
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