Per i distratti ripropongo un pezzo già pubblicato qualche mese fa.
A CIASCUNO IL SUO GRAMSCI
Dopo circa vent’anni di oblio, in Italia si torna a parlare e a scrivere su Antonio Gramsci.
Da un lato ci sarebbe da rallegrarsi perchè il silenzio è cessato. Dall’altro, se si entra nel merito, viene da piangere. Da ultimo persino uno scrittore che stimo, come Roberto Saviano, ha dato il suo contributo a questo gioco al massacro. Non parliamo poi di chi ricerca Quaderni e manoscritti che non esistono, come se quelli esistenti non fossero sufficienti a definire un pensiero chiaro e limpido che niente e nessuno potrà mai oscurare.
Da un lato ci sarebbe da rallegrarsi perchè il silenzio è cessato. Dall’altro, se si entra nel merito, viene da piangere. Da ultimo persino uno scrittore che stimo, come Roberto Saviano, ha dato il suo contributo a questo gioco al massacro. Non parliamo poi di chi ricerca Quaderni e manoscritti che non esistono, come se quelli esistenti non fossero sufficienti a definire un pensiero chiaro e limpido che niente e nessuno potrà mai oscurare.
Ho
sempre considerato Gramsci un classico del 900. E mi vado sempre più
convincendo che i classici sono i migliori antidoti nei confronti delle
mode culturali. Cosicchè mentre queste ultime risultano ogni giorno più
effimere, i primi durano e resistono al tempo anche quando sono
investiti da pretestuose polemiche.
“Dire la verità è rivoluzionario”: in questo motto, che campeggiava nella testata di una delle riviste da lui create (L’Ordine Nuovo. Rassegna settimanale di cultura socialista), si potrebbe riassumere il complesso pensiero e la breve vita di Antonio Gramsci (1891-1937).
Fin
da giovane, aveva mostrato di prediligere la verità su tutto. Basti
rileggere gli articoli scritti negli anni della prima guerra mondiale.
In uno, in particolare, credo che si trovi la chiave per comprenderli
tutti:
“Noi
siamo persuasi che i fatti dovevano rimanere tali anche in tempo di
guerra, e che la storia e la cultura sono cose troppo da rispettare
perché possano essere deformate e piegate dalle contingenti necessità
del momento. La verità deve essere rispettata sempre, qualsiasi
conseguenza essa possa apportare, e le proprie convinzioni, se sono fede
viva, devono trovare in se stesse, nella propria logica, la
giustificazione degli atti che si ritiene necessario siano compiuti.
Sulla bugia, sulla falsificazione facilona non si costruiscono che
castelli di vento,che altre bugie e altre falsificazioni possono far
svanire.” ( La conferenza e la verità, in L’Avanti torinese del 19/2/1916, ora nel volume “ Sotto la Mole”, Einaudi 1960,p.43)
Queste
affermazioni non sono l’ingenua manifestazione del pensiero di un
giovane idealista. L’amore per la verità contrassegna l’intera opera
gramsciana e ne costituisce uno dei suoi leit-motiv.
Lo stesso scontro con Togliatti nel 1926 avverrà proprio su questo
terreno. Infatti non condividendo le ragioni che spinsero quest’ultimo a
censurare le sue critiche a Stalin, con spirito profetico, arriverà a
predire il “suicidio” della rivoluzione d’ottobre. Gramsci, a differenza
di Togliatti, non accetterà mai la necessità di sacrificare la verità
sull’altare della rivoluzione. Basta rileggere le Lettere e i Quaderni del carcere per convincersene:
“Io sono sempre stato dell’opinione che la verità abbia in sé la propria medicina”. ( L., p.783)
“Non
bisogna concepire la discussione scientifica come un processo
giudiziario, in cui c’è un imputato e un procuratore che, per obbligo
d’ufficio deve dimostrare che l’imputato è colpevole e degno di essere
tolto dalla circolazione. Nella discussione scientifica, poiché si
suppone che l’interesse sia la ricerca della verità (…), si dimostra più
avanzato chi si pone dal punto di vista che l’avversario può esprimere
un’esigenza che deve essere incorporata(…) nella propria costruzione.
Comprendere e valutare realisticamente la posizione e le ragioni
dell’avversario(…) significa appunto essersi liberato dalla prigione
delle ideologie ( nel senso deteriore di cieco fanatismo ideologico),
cioè porsi da un punto di vista critico.” (Q, 1933)
“E’opinione molto diffusa (…) che sia essenziale dell’arte politica il
mentire, ilsaper astutamente nascondere le proprie vere opinioni, i veri
fini a cui si tende, il saper far credere il contrario di ciò che
realmente si vuole, ecc. ecc. L’opinione è tanto radicata e diffusa che
a dire la verità non si è creduti(…) nella politica di massa dire la
verità è una necessità politica.” (Q.p. 222).
Quest’ultima
nota, in particolare, per essere compresa in tutto il suo valore, va
collegata alla sua concezione non elitaria della politica e di ogni
attività intellettuale. Per Gramsci, infatti, la politica non doveva
essere riservata agli addetti ai lavori. Dal suo punto di vista - così come “tutti gli uomini sono filosofi perché tutti pensano” -
tutti possono e devono occuparsi di politica; tanto più se si crede
nella possibilità di superare la secolare divisione del genere umano tra
dirigenti e diretti.
In uno dei passi meno citati e frequentati dei Quaderni si trova scritto:
“Bisogna
proprio dire che i primi ad essere dimenticati sono proprio i primi
elementi, le cose più elementari (…) Primo elemento è che esistono
davvero governati e governanti, dirigenti e diretti. Tutta la scienzae
l’arte politica si basano su questo fatto (…) Nel formare i dirigenti è
fondamentale la premessa: si vuole che ci siano sempre governati e
governanti,oppure si vogliono creare le condizioni in cui la necessità
dell’esistenza di questa divisione sparisca? Cioè si parte dalla
premessa della perpetua divisione del genere umano o si crede che essa
sia solo un fatto storico rispondente a certe condizioni? (…) per certi
partiti è vero il paradosso che essi sono compiuti e formati quando non
esistono più, cioè quando la loro esistenza è diventata storicamente
inutile. Così, poichè ogni partito non è che una nomenclatura di classe,
è evidente che per il partito che si propone di annullare le divisioni
in classi, la sua perfezione e compiutezza consiste nel non esistere
più.” (Q. pp.1752-1753)
Rileggendo
oggi questo brano, scritto in carcere nel 1933, si comprende meglio
perché la memoria di Gramsci è stata rimossa dall’orizzonte politico
dell’Italia odierna. Con un ceto politico sempre più autoreferenziale e
irresponsabile, interessato soltanto a difendere le proprie rendite di
posizione, a prima vista sembra che non possa esserci più spazio per
l’utopia gramsciana. D’altra parte è comprensibile il silenzio della
“Casta” di fronte ad un Autore rivelatosi profetico in più di una
circostanza. E’ molto più comodo per tutti oscurarlo e/o ricordarlo
soltanto in modo rituale. Invece per me, pur riconoscendo che su alcuni
punti è necessario andare oltre Gramsci, rimane valido il suo metodo di
approccio critico e mai dogmatico ai problemi. E molte sue pagine mi
appaiono ancora oggi di straordinaria attualità. Si rilegga,ad esempio,
“La favola del castoro”,
dedicata all’analisi dei dirigenti socialisti italiani del primo
dopoguerra che, con la loro inettitudine, aprirono le porte al fascismo.
Sicuramente “la scissione tra i programmi sonori e i fatti miserabili” oggi è maggiore di ieri; per non parlare del “distacco tra rappresentati e rappresentanti” e “la nessuna unione con la classe rappresentata” da parte di quella che oggi, non a caso, viene definita una “casta”.
francesco virga
francesco virga
Chi pubblica in rete sa che rischia di perdere qualsiasi copyright. Così non mi ha sorpreso vedere come altri si siano parzialmente appropriati del mio pensiero. Comunque credo che la cosa più importante sia - al di là dei pur legittimi diritti d'autore - che la verità si affermi
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