La settimana scorsa ho visto un film straordinario che mi ha scosso profondamente. Non ho avuto la forza di parlarne per giorni. Oggi mi aiuto con le parole di Fofi. Ma il film va visto coi propri occhi per essere apprezzato fino in fondo.
Goffredo Fofi - Amare entro i nostri
limiti
Cosa
distingue, oggi e proprio oggi, un artista dalla pletora di “creativi” che ci
affligge in tutti i campi dell’espressione, con il loro rimasticare il già
detto e troppo detto – varianti di varianti di varianti, echi di echi di echi –
o la pretesa di un “nuovo” che è poi il mercantile kitsch dell’epoca, il trash dello
zeitgeist più pretenzioso e saccente? Direi la profondità, e cioè la ricerca
che il lettore o spettatore o ascoltatore appena esigente non può non
condividere, della “verità morale”, così come l’hanno intesa i maggiori artisti
di sempre. Se c’è questo, le scelte che ciascun artista compie per esprimerla
possono anche risultare secondarie.
Ma è
questo che la società dei consumi trascura o mistifica, e quando qualcuno
sembra mirarvi, la indirizza e ricatta per farne “comunicazione” e “narrazione”
e renderla digeribile alle masse (da loro acquistabile) e, se non alle masse,
alle schiere formate dalle corporazioni consolidate, ai poteri e sottopoteri
del settore al cui centro sono i mediatori e comunicatori dei molti mezzi,
nella cui area o scia operano anche gli artisti che hanno qualche talento, ma
facilmente addomesticabile. La distinzione tra il nefasto, il superfluo e il
necessario riguarda o dovrebbe riguardare ogni campo dell’attività umana, ma
l’espressione artistica più di ogni altro.
Michael
Haneke si è affermato con film molto duri, che all’inizio ci sembrarono perfino
eccessivi e dubbi perché sembrava volessero disturbare per partito preso. Ma
subito, con film come La pianista, Caché
o II nastro bianco, si comprese che il suo era un
modo serissimo di considerare il cinema e di richiedere al pubblico di
attenzione e di serietà pari ai suoi. Con Amour,
straziante agonia di due vecchi cultori di musica minuziosamente evocata, una
coppia borghese schiva, banale e perfino noiosa, gli sarebbe stato facile non
solo vincere premi ma anche commuovere vaste platee, tanto il problema della
vecchiaia è comune, ma si direbbe che dell’esito del suo lavoro egli si sia
dimenticato per cercare il massimo di verità e di rispetto che il soggetto
esigeva. Pochi film hanno saputo rappresentare la vecchiaia con pari forza -dei
giapponesi Kinoshita, Ozu, Kurosawa, di McCarey, di De Sica – ma forse nessuno
ha saputo rappresentare in cinema l’umana corruzione dei corpi (the way of all
flesh), il progressivo annientamento di ogni energia, la sudditanza alla
malattia, con l’attenzione di Haneke. E di raccontare infine la scelta di non
più tollerare il dolore della persona amata e il proprio dolore.
Dentro
una scena quasi unica – un appartamento – e con pochi personaggi di contorno – una figlia,
un allievo, una coppia di portinai, un medico, una o due badanti … – assistiamo
a questa decadenza e diciamo pure a quest’agonia, come a qualcosa che tutti
conosciamo bene, anche chi ne è ancora biologicamente lontano, ma che nessuno aveva
ancora osato rappresentare con questa precisione, con questa crudele
partecipazione. Crudele? Sì, se s’intende con crudele non il compiacimento per
i modi in cui il male e i limiti dell’umano ci si mostrano, ma la
necessità di andare a fondo, di rappresentare il vero per ricavarne una morale
primaria, la più essenziale di tutte, che Haneke esprime a parole soltanto
nella parolina del titolo: Amour. L’amore come unione di due anime e corpi, e
l’insostenibile fatica di accettare che uno dei due si degradi e si allontani,
che la comune biologia ce lo allontani, ma anche l’amore come caritas,
dedizione all’altro, a un prossimo che in questo caso è diventato -per il
mistero dell’amore – il prossimo più prossimo di tutti.
Assistito
da Jean-Louis Trintignant e da Emmanuelle Riva, due attori coraggiosi e decisi
come il regista ad andare fino in fondo nella rappresentazione della vecchiaia
e della morte, del confronto con la morte – perché non più attori o non solo
attori ma soprattutto vecchi che in quanto tali, anche oltre il loro stesso
decadimento, hanno dovuto confrontarsi con la vecchiaia altrui e con il dolore
-Haneke ha realizzato un film che vanifica le parole, che impone allo
spettatore (e al critico) un rispetto che va oltre il cinema. Perché ci sono film
che sono più che cinema, e perché ci sono artisti che non vogliono né
sbalordirci né commuoverci ma portarci a ricordare i nostri limiti, proprio
quelli di tutti. Il suo, come quello dei grandi registi del passato, è un
cinema che constata e ci chiede di constatare. E che giustamente esige dallo
spettatore che sappia alzarsi al livello del suo discorso e della sua
espressione. Non più di questo, ma è il massimo. E andare a cercare il pelo
nell’uovo sarebbe, di fronte a questo, più che irrispettoso ridicolo.
Il Sole 24
ore – Domenica 28 ottobre 2012
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