23 novembre 2012

LEGGERE GADDA OGGI









Dall’inserto culturale ALIAS  del  Manifesto stamattina prendo questo invito a leggere un grande scrittore:

Niccolò Scaffai -  Leggere Gadda oggi

Leggere Gadda: restava da fare questo. Non dico rileggerlo, per darne nuove interpretazioni (comunque ben accette, se non altro come prova della vitalità dell’opera gaddiana: penso, ad esempio, all’analisi del Pasticciaccio alla luce di Freud e Schrödinger, proposta di recente da Gabriele Frasca in Un quanto di erotia); intendo proprio dire: leggerlo, seguendone il passo, la cadenza, come se fosse la prima volta. E, per molti, le nuove uscite di questo periodo potrebbero in effetti rappresentare la prima occasione per avvicinarsi a un autore indiscutibilmente canonico, ma che del canone fa parte proprio per la sua ‘illeggibilità’. Può sembrare un controsenso o una provocazione, e in parte lo è; ma proviamo a chiedere agli studenti di un corso di Lettere se conoscono il nome di Gadda e se lo hanno letto: alla prima domanda molti risponderanno di sì, alla seconda di no – in larghissima maggioranza. Non solo: domandiamo a chi insegna letteratura italiana, magari all’estero, se pensa che Gadda sia un autore proponibile, per di più a un pubblico di non italofoni. Parecchi sorriderebbero scoraggiati al solo pensiero.
Non si può negare che Gadda sia un autore difficile; ma il punto, messo a fuoco dalla critica specialmente negli ultimi anni, è che la straordinarietà della lingua gaddiana – tale da giustificare l’invenzione del paradigma storico-stilistico che chiamiamo, con Contini, «funzione Gadda» – fa ombra alla consistenza narrativa della sua scrittura. Credo occorra ripartire da lì per leggere (e probabilmente anche per insegnare) Gadda, da quella consistenza o meglio stratificazione, perché dietro a ogni scarto lessicale – arcaismi, dialettalismi, forestierismi, solecismi – si intravedono storie: della società in cui si inquadrano le vicende e dei personaggi coinvolti anche per un solo istante, un rigo o meno, nella macchina mimetica del narrare gaddiano. La complessità della lingua non è perciò la causa, ma la conseguenza della bulimia conoscitiva dello scrittore, che divora l’esperienza e ne restituisce i frammenti: brandelli di dialoghi, scorci descrittivi, cronache di fatti e persone. Per questo Gadda non è uno scrittore poco narrativo ma, all’opposto, è uno scrittore ipernarrativo; nelle sue opere, infatti, la moltiplicazione delle voci e delle prospettive serve a esprimere e quasi a rincorrere i mille rivoli reconditi attraverso cui le cause imponderabili sfociano in quell’effetto frastagliato che è il reale. Contini, che pure ha fabbricato le lenti formali con cui siamo abituati a leggere Gadda, l’aveva compreso da tempo: «Il Gadda narratore rischia perfino di essere più temerario del Gadda stilista» (così scriveva nell’85, alla fine della sua Introduzione ad «Accoppiamenti giudiziosi»).
 Proprio dagli Accoppiamenti ha preso avvio l’anno scorso, per Adelphi, la nuova edizione delle opere gaddiane, diretta da tre filologi di scuola pavese (Paola Italia, Giorgio Pinotti, Claudio Vela), che proseguono il lavoro già compiuto da Dante Isella. A quel volume si aggiunge ora L’Adalgisa. Disegni milanesi, Milano, Adelphi, pp. 432, euro 24,00. A curarla è Claudio Vela, un’autorità gaddiana, che fornisce una Nota al testo rigorosa e al tempo stesso arguta (si legga la divertente Microazione grammatical-redazionale a tre personaggi, nella quale il Curatore immagina di dialogare con il Perché, accento acuto, e il Perchè, accento grave, l’un contro l’altro armati in difesa delle rispettive soluzioni grafico-editoriali). Soprattutto, Vela ci permette di leggere (in questo senso, come dicevo prima, quasi per la prima volta) L’Adalgisa così come il libro è stato originariamente concepito dall’autore: l’opera viene infatti riproposta secondo il testo della princeps del 1944, che aveva visto la luce per i tipi di Le Monnier. Quell’uscita, al culmine della Seconda guerra, era apparsa intempestiva allo stesso autore, che quasi se ne scusava in una lettera a Carlo Linati: «Io mi rendo conto altresì che il libro è uscito in un momento poco propizio: cure gravi occupano l’animo dei miei concittadini: mentre gli scritti pubblicati risalgono ad anni relativamente sereni, in cui lo scherzo era esteticamente lecito».
Ma, come spiega Claudio Vela nella Nota al testo, L’Adalgisa più che un frutto fuori stagione era «un libro che chiudeva un periodo di Gadda ma guardava avanti». Al momento della sua uscita, infatti, la stagione milanese dell’autore, così ben descritta nei tipi e nei costumi (memorabile il catalogo dei notabili «coniugati fra loro, imparentati fra loro, associati fra loro»: «i Lattuada, i Perego, i Caviggioni, i Trabattoni, i Berlusconi…»), aveva già lasciato il posto a quella fiorentina. Anche l’idea di un romanzo che rappresentasse quella stessa società – Un fulmine sul 220 – era stata accantonata a favore di una narrazione frammentata nei dieci brani o ‘disegni’ che formano L’Adalgisa (la raccolta prende il titolo dall’ultimo, collocato a suggello di un progetto macrotestuale che l’edizione Vela contribuisce ora a chiarire e valorizzare). Anche in questo senso, il libro «guadava avanti», al futuro: perché, facendo di necessità virtù, dava forma alla narrazione propagginata e senza trama tipicamente gaddiana. Una narrazione in cui il fatto, se non scompare, viene dislocato fuori cornice: esemplare è il terzo disegno, Claudio disimpara a vivere, costruito intorno a un evento tragico, eppure (o proprio per questo) raccontato solo nelle note che l’autore aggiunge al testo: il crollo o «drammatico e anzi addirittura ferale mancamento di ponte verificatosi negli anni tra il 1920 e il 1930 in una laboriosa città della pianura padana», che provocò la morte di sette ragazzi.
Se l’edizione dell’Adalgisa presuppone un gruppo di lettori coltivato (e filologicamente attrezzato, nel caso voglia accedere pienamente alla Nota del curatore), un’altra recente uscita gaddiana potrebbe rivolgersi addirittura a un pubblico di non-lettori, o di lettori potenziali: si tratta infatti dell’audiolibro di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana letto da Fabrizio Gifuni e pubblicato in formato CD Mp3 nelle edizioni Emons di Roma. Una lettura nel vero senso della parola, condotta da un attore che vanta già un’esperienza gaddiana di grande rilievo (il monologo teatrale L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro, nato da un’idea dello stesso Gifuni per la regia di Giuseppe Bertolucci). Ma diciamo chiaramente, a scanso di equivoci, che il supporto digitale non autorizza in alcun modo il disimpegno intellettuale: il Pasticciaccio di Gifuni è una vera, pregevole interpretazione del romanzo che Gadda pubblicò in volume più di cinquant’anni fa, nel 1957, e mette voglia, ascoltandolo, di accedere al libro e leggerlo per la prima o per la centesima volta. La performance vocale di Gifuni è fuori dal comune: durante le 13 ore e mezzo della lettura, alterna le pose mimetiche (da imitatore d’alto rango, o meglio ri-creatore di timbri e dialetti quale sa anche essere) al tono di grisaglia di una studiatissima voce autoriale. Certo, il camaleontismo tra una calata regionale e l’altra, dal veneto al romanesco, diverte e ‘funziona’ anche se inevitabilmente carica di colori vivaci quelle che nel libro sono sfumature delicate tra discorso diretto e indiretto libero, tra le parole e i pensieri del narratore e quelli dei personaggi. Ma la lettura dà ai caratteri un corpo ed è come se riuscisse a tradurre in movimenti e posture quasi fisiche, sensibili, anche i tratti psicologici più sottili dei protagonisti o le allusioni meno esplicite del coro di figure vociferanti sulla ‘scena’ della pagina.

[Questo articolo è apparso su «Alias-il manifesto»].





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