Chi ci segue sa che gli autori classici per noi sono gli eterni contemporanei. Anche per questo accogliamo con gioia la notizia data oggi dal Corriere della sera con un bell’articolo di Cesare Segre che riproponiamo di seguito:
Cesare Segre - Quel «Fiore» sospeso
tra Dante e Guittone
Intorno
al 1921, sesto anniversario della morte del poeta, l’operosità dei dantisti
toccò un picco straordinario: a studiosi e amanti della poesia venne offerto un
volume, diretto da Michele Barbi, contenente, in edizione critica, tutte le
opere di Dante. Nell’approssimarsi del settimo centenario, il Centro Pio Rajna
di Roma avvia una nuova edizione (sigla Necod: Nuova Edizione Commentata delle
Opere di Dante, pubblicata dalla Salerno Editrice).
A
quasi cent’anni dall’impresa di Barbi, questa nuova edizione permetterà non
solo di fare il punto sulle principali acquisizioni dell’ultimo secolo,
escludendo il troppo e il vano, ma anche di trarre il meglio, in un commento
compatto ed esauriente, dalla massa di contributi linguistici, ermeneutici,
storici che ormai riempiono gli scaffali.
La
Necod persegue un altro obiettivo non secondario: che tutti i volumi appaiano
entro un ridotto arco cronologico, così da evitare sfasamenti
nell’informazione. Il coordinatore (Enrico Malato) e i collaboratori danno le
migliori garanzie in merito alla tempestività (punto debole di tutte le collane
di classici), ed è facile prevedere che quest’opera, pianificata in otto
volumi, alcuni divisi in più tomi, si concluderà in tempi ragionevoli.
Si
parte ora, con due volumi di eccezionale interesse: il Fiore,
«attribuibile» a Dante (Luciano Formisano), e il De vulgari eloquentia, fondazione,
e progetto quasi profetico, di una poesia italiana auspicata e poi avviata in
prima persona (Enrico Fenzi, con L. Formisano e F. Montuori).
Iniziando
dalla struttura dei volumi, noteremo che la Necod offre innovazioni di grande
utilità pratica. Per il De vulgari, ad esempio, le carte geografiche ci
aiutano a ricostruire l’aspetto politico dell’Italia del primo Trecento e a
focalizzare la poco fortunata ma geniale idea di Dante di far prevalere, nel
censimento dei dialetti, le contrapposizioni verticali (sinistra o destra
dell’Appennino) rispetto a quelle orizzontali, adottate anche oggi dai
linguisti (nord-centro-sud). Nella prima appendice del volume appare preziosa
l’edizione, con versione italiana e commento, dei testi poetici provenzali e
francesi citati da Dante. Quanto al volume dedicato al Fiore, la cui
lingua si caratterizza per un vistoso impasto franco-italiano, è utilissimo
l’indice dei gallicismi presenti nel testo. Un’altra novità è la Tavola delle
corrispondenze tra il poemetto e il Roman de la Rose, di cui il Fiore
è una sintesi.
Appunto
di questo volume, magnifico nella stampa e nella legatura (Il
Fiore e il Detto d’Amore, a cura di L. Formisano, pp. CVI- II-480, €
39), vogliamo parlare qui. Il punto di partenza è il celebre Roman de la
Rose, di cui, intorno al 1230, uno sconosciuto Guillaume de Lorris compose
i primi 4.000 versi; poi, verso il 1270-80, il parigino Jean de Meun, vicino
agli ambienti universitari e ben al corrente della situazione politica e
religiosa dell’epoca, continuò il testo per oltre 18.000 versi. In forma di
sogno, il Roman racconta la passeggiata primaverile del protagonista,
ventenne, sino al giardino di Piacere, un piccolo paradiso chiuso tra alte
mura, su cui sono rappresentati i vizi, personificati, che si oppongono alla
Cortesia (Odio, Fellonia, Villania, ecc.). Nel giardino, dove Piacere danza con
le sue compagne Allegria, Cortesia, Bellezza, il protagonista viene attratto da
un cespuglio di rose, e in particolare da un bocciolo. Il Dio d’Amore lo
colpisce con le sue frecce, facendolo innamorare del bocciolo, evidente simbolo
dell’amata e del suo sesso. Il sogno prosegue con i tentativi di cogliere il
bocciolo, tra consigli e moniti di tematica amorosa. Alla fine la Rosa viene
chiusa in una torre, sorvegliata da una vecchia e da altre personificazioni,
come Vergogna, Paura, Maldicenza. Lungo quest’esile filo narrativo, gli
insegnamenti fanno del Roman de la Rose un «trattato d’amore», conforme
a un progetto didattico in voga nel tardo Medioevo; ma l’opera ci offre anche,
in qualche modo, una vera enciclopedia del sapere dell’epoca. Da aggiungere che
Guillaume de Lorris muove da un’ispirazione cortese e idealizzante, mentre Jean
de Meun gli subentra con una concezione naturalista, se non positivista, e
sostanzialmente misogina.
Uno
sconosciuto autore toscano ha provato ben due volte a ricreare questa grande
costruzione didattico-enciclopedica; usava il suo volgare, ma inserendovi
moltissime parole francesi, anche indipendentemente dal modello che traduceva.
Ne sono venuti fuori il Detto d’Amore, in coppie di settenari, e di
gusto allegorico; e il più ampio Fiore, costruito, con più netto
andamento narrativo, in forma di catena di 232 sonetti. I due testi anonimi,
scoperti nel 1878 in un manoscritto conservato a Montpellier, hanno fatto
subito deflagrare una polemica che dura ancora. Perché essi presentano affinità
anche tematiche con la Commedia, e alcuni filologi li attribuirono
senz’altro a Dante, mentre altrettanti, e altrettanto autorevoli studiosi
esclusero subito questa paternità. La polemica covava sotto le ceneri quando, a
partire dal 1965, Contini iniziò a riproporre l’attribuzione a Dante e, con il
suo immenso prestigio, parve mettere un sigillo di autenticità
all’attribuzione. Invece, ripresero gli interventi degli increduli, sempre più
scaltriti.
Di
solito, quando si affrontano problemi attributivi, frequenti anche in pittura,
si cercano negli autori del tempo affinità formali o procedimenti tecnici o
dati culturali che autorizzino a pensare che il testo anonimo e quello ritenuto
affine risalgano a una stessa mano. Così, per il Fiore, si è pensato a
Rustico Filippi, a Folgòre da San Gimignano, ad Antonio Pucci, a Brunetto
Latini. Ma poi, si sa, le sensibilità agli elementi formali variano, e ciò che
appare decisivo ad uno può non sembrarlo ad altri. Formisano per esempio, pur
difendendo nei limiti del possibile la tesi di Contini, guarda con interesse
alle rassomiglianze del Fiore con gli scritti di Brunetto. Ci sembra che
tutti questi raffronti confermino una comunanza di ambiente e di stile tra
poeti contemporanei; niente di più. Ma poi vari indizi compromettono
l’attribuzione dantesca: tra i molti, l’abuso di rime equivoche e di
scomposizione «enigmistica» del verso, caratteristici del Detto d’Amore,
che sicuramente è della stessa mano del Fiore. Sono proprio le tecniche
di Guittone e seguaci, che Dante detestava. Segnaliamo anche, nel Fiore,
la scarsa ricerca espressionistica, che la mescolanza delle due lingue avrebbe
potuto stimolare; e l’abbondanza di metafore oscene di grana più grossa delle
poche, efficacissime, del vero Dante.
Comunque,
dato che i raffronti con altri autori non risultano concludenti, è inutile
continuar a cercare un’identità già nota. Si potrebbe pensare che il poeta del Fiore
sia un outsider appassionato di poesia che, dopo l’exploit dei due rifacimenti
della Rose, intraprese una diversa carriera, per esempio di mercante,
come tanti altri fiorentini all’opera tra l’Italia e la Francia delle grandi
fiere commerciali (il manoscritto del Fiore è sempre rimasto in
Francia): il curioso mélange di toscano e francese dei due testi
rispecchierebbe, quasi in caricatura, il bilinguismo «professionale» del loro
autore, che potrebbe anche esser morto poco dopo la stesura del poemetto.
Comunque, piuttosto che dargli un nome, è meglio impegnarsi a leggerne l’opera,
notevolissima, con l’aiuto, eccellente, di Luciano Formisano.
Corriere della Sera
23 novembre 2012
"e se l'infimo grado in sé raccoglie
RispondiEliminasì grande lume, quanta è la larghezza
di questa rosa ne l'estreme foglie!
la vista mia nell'ampio e nell'altezza
non si smarriva ma tutto prendeva
il quanto e 'l quale di quell'allegrezza"
Commedia, iii XXX 115-120