Dal sito http://www.minimaetmoralia.it
prendiamo un estratto da Perdersi è meraviglioso. Interviste sul cinema di
David Lynch e vi ricordiamo il doppio appuntamento dedicato al regista: stasera
alla Santeria a Milano con il traduttore Francesco Graziosi e Marco
Rossari e domenica al Pisa Book Festival.
Un’intervista a David Lynch di Kristine McKenna
La seguente
conversazione con David Lynch ha avuto luogo nella sua casa sulle colline di
Hollywood la mattina dell’8 marzo 1992. Il giorno in cui abbiamo parlato, Lynch
era appena tornato a Los Angeles da New York, dove aveva lavorato insieme al
compositore Angelo Badalamenti alle musiche dell’imminente adattamento delle
sua serie televisiva I segreti di Twin Peaks; il giorno seguente doveva
ripartire per Berkeley, dove trascorrerà i prossimi mesi a missare il sonoro
del film. Lynch è perennemente in viaggio, e non sorprende che la sua vasta
casa a più piani dia la sensazione di una dimora il cui occupante è via per
buona parte del tempo. È quasi spoglia – qualche sedia anni Cinquanta, un
divano basso e un tavolino – dipinta con colori spenti, e non c’è nulla alle
pareti (di recente Lynch ha comprato due stampe della sua fotografa preferita,
Diane Arbus, ma non le ha appese). Nella cucina si trovano la sua preziosa
macchina del cappuccino insieme a pile ordinate di copioni, video e libri. È la
casa di un uomo indaffarato: non c’è alcuna traccia di ozio e relax.
Il fatto che
sia domenica mattina non impedisce che arrivino in continuazione telefonate di
lavoro, e parlando con Lynch fra una chiamata e l’altra si deduce che nella
vita di quest’uomo non ci sono pause; riesce ad ammassare in ogni singola
giornata una quantità straordinaria di attività altamente creative. Come si
vedrà nella conversazione seguente, la creatività e la vita di Lynch poggiano
su una solida struttura di convinzioni filosofiche. Si potrebbe arguire che è
questa struttura a dargli l’enorme vitalità che è alla base della sua opera
variegata e in continua espansione.
I tuoi
quadri sembrano raffigurare il mondo dalla prospettiva di un bambino in preda
al terrore; è una descrizione plausibile?
Direi
proprio di sì. Amo ciò che riguarda l’infanzia perché quando si è bambini il
mondo è così ricco di mistero. Persino una cosa semplice come un albero è
inspiegabile. Lo vedi da lontano e sembra piccolo, e invece man mano che ti
avvicini pare che cresca – da bambino non riesci ad afferrare le regole. Noi
crediamo di capirle quando diventiamo adulti, ma ciò che sperimentiamo in realtà
è un restringersi dell’immaginazione.
Come spieghi
il fatto di aver mantenuto una comprensione tanto nitida della prospettiva di
un bambino?
Credo di
aver subito molto l’influsso del mistero, da piccolo. Allora trovavo il mondo
totalmente affascinante, era come un sogno. Si dice che chi crede di aver avuto
un’infanzia felice in realtà stia reprimendo qualcosa, ma io credo di averla
avuta davvero. Ovviamente avevo le solite paure, come quella di andare a scuola
– sapevo che lì c’era qualche problema. Ma anche tutti gli altri sembravano
percepirlo, per cui le mie paure erano abbastanza normali.
Usi le
parole mistero e
paura: qual è il collegamento tra le due?
Là dove c’è
mistero c’è sempre la paura dell’ignoto. È possibile raggiungere una condizione
in cui ci si rende conto della verità della vita e la paura svanisce, e molti
hanno raggiunto questo stato, ma quasi nessuno di loro si trova sulla terra.
Probabilmente sono in pochi.
Chi
raggiungesse questo tipo di consapevolezza proverebbe ancora l’impulso alla
creatività?
Farebbe un
altro tipo di lavoro creativo, in totale accordo con le leggi della natura. La
sua opera sarebbe dedicata ad aiutare gli altri che non hanno ancora raggiunto
quella condizione e a elevare l’universo.
Le leggi
della natura sono crudeli?
Assolutamente
no; ci sembrano crudeli solo perché vediamo soltanto un piccolo frammento dello
schema complessivo. Viviamo in un mondo di opposti, di malvagità e violenza
estreme contrapposte al bene e alla pace. C’è un motivo per cui le cose stanno
così, ma noi fatichiamo a comprendere quale sia. E nello sforzo di comprenderlo
impariamo qualcosa sull’equilibrio, e che esiste una porta misteriosa proprio
nel punto di equilibrio. Possiamo varcarla ogni volta che ci uniamo.
Quanti anni
ti senti, emotivamente?
Quasi sempre
fra i nove e i diciassette, e a volte circa sei. Quando hai sei anni guardi in
fondo alla strada e magari sai che esiste un altro isolato, ma il tuo mondo ne
misura al massimo due.
Uno dei tuoi
quadri recenti, So This Is
Love, sembra esprimere una visione alquanto cupa dell’amore. L’immagine si
concentra su una figura solitaria dalle gambe smisuratamente lunghe, sormontate
da una testa persa in uno spazio tetro e vuoto. Accanto alla testa gli passa
scoppiettando un aeroplano che erutta fumo nel cielo notturno; puoi dirci
qualcosa di quest’opera?
È come
un’immagine in negativo della mia infanzia. In realtà il cielo era azzurro e in
Technicolor, e il velivolo era un grosso aereo militare che produceva un
ronzio. L’aereo ci metteva tanto ad attraversare il cielo, e il rumore che
faceva era molto sommesso. Il mondo sembrava più silenzioso quando passava.
È un ricordo
piacevole per te, eppure lo hai tradotto in un’immagine cupa; perché?
Perché da
allora l’oscurità si è fatta strada strisciando. È la presa di coscienza del
mondo e della natura umana e della mia natura, compresse in una palla di fango.
Molti dei
tuoi quadri fondono allusioni all’amore romantico, ferite fisiche e morte;
trovi qualcosa di erotico nella malattia e nel disfacimento?
Erotico? No,
ma la malattia e il disfacimento fanno parte della natura. La malattia su un
pezzo di ferro è ruggine. Se butti un pezzo di carta sotto la pioggia e dopo
qualche giorno vai a riprenderlo, ci troverai sopra delle muffe: è come se
accadesse una magia. La malattia è una cosa molto brutta, ma per causa sua la
gente progetta grandi edifici e inventa dei macchinari, dei tubicini e cose del
genere. Quindi proprio come in natura, dalla malattia nasce qualcosa di nuovo.
Hai paura
del corpo?
No, ma è una
cosa strana. La sua funzione più importante sembra essere quella di trasportare
il cervello da un posto all’altro, ma ci si possono fare anche altre cose
divertenti. Certo, può essere una tortura, a volte. A me non piace fare
attività fisica, per cui mi preoccupo di mantenere il corpo in forma
sufficiente a portare in giro il resto.
Qual è la
cosa più spaventosa della tua casa?
È un posto
dove le cose possono andare storte. Quando ero bambino la mia casa sembrava un
posto claustrofobico, ma non perché avessi una brutta famiglia. Una casa è come
un nido: è utile solo per un certo periodo, dopodiché non vedi l’ora di
andartene. Con questo non voglio dire che col tempo ogni affetto muore, però
cambia. Io voglio ancora bene a tutti quelli che ho amato.
Una volta ho
sentito definire l’amore come un miscuglio di compassione e desiderio; sei
d’accordo con questa affermazione?
Direi di no.
Perdere l’amore è come la luce ed è un problema solo quando se ne avverte
l’assenza. L’amore puro non chiede nulla in cambio e assomiglia più a una
sensazione o a una vibrazione, ma purtroppo molta gente non lo capisce.
Tendiamo ad addossare la responsabilità a un’altra persona, cosa che non dà
buoni risultati.
Chi ti ha
insegnato di più sulle arti visive?
Il mio primo
maestro davvero importante è stato un tizio di nome Bushnell Keeler, padre del
mio caro amico Toby Kee-ler. All’epoca avevo quindici anni e vivevo in
Virginia, e Bushnell è stato il primo artista professionista che ho incontrato.
Non avevo mai sentito parlare di una cosa del genere, e da quel momento ho
deciso che volevo essere un pittore; la sua vita mi sembrava quasi miracolosa.
La cosa più importante era che aveva uno studio e che dipingeva ogni giorno. Mi
ha anche fatto conoscere un libro di Robert Henri intitolato Lo spirito
dell’arte, che è diventato per me una specie di bibbia, perché era il libro
che stabiliva le regole della vita artistica.
Qual è stata
la prima opera d’arte che ti ha colpito?
Una mostra
di Francis Bacon che vidi a diciotto anni alla Marlborough Gallery di New York.
Erano immagini di carne e sigarette, e quello che mi colpì fu la bellezza della
pittura e l’equilibrio e i contrasti nei quadri. Era quasi la perfezione.
L’arte
alterna periodi fertili e sterili?
Sì,
dev’essere così, e ora sembra che siamo in un periodo di magra. Gli anni
Ottanta sono stati un buon periodo perché, anche se tutto il denaro che
circolava ha fatto sì che uscisse fuori un sacco di ciarpame, si sentiva che
nella pittura, finalmente, dopo tanto tempo si stava muovendo qualcosa.
Rivedendo i
quadri degli ultimi otto anni, sembra che la tua opera stia diventando sempre
più minimalista; sei d’accordo?
Sì, e il
motivo è che provo un anelito alla purezza. Man mano che la mia vita si fa
sempre più complicata, voglio che la mia arte diventi più semplice perché nella
vita tutto ruota intorno al mantenere un equilibrio.
Ho notato
anche che le superfici dei tuoi quadri diventano sempre più modellate e
scultoree; è una direzione che hai intrapreso deliberatamente?
Sì, e vorrei
dargli ancora più volume. Ora come ora l’idea della pittura su una superficie
piatta non mi stimola granché. Mi piace l’idea di un campo dove qualcuno ha
scaricato dei rifiuti – il mucchio spicca sulla superficie del campo, e la cosa
mi piace.
Hai mai
chiesto a un esperto di conservazione come invecchieranno i materiali che usi?
(Lynch incorpora nei suoi quadri cartone, cotone, cerotti e unguenti medicinali
oltre ai materiali pittorici consueti.)
Non
m’importa un bel niente di come invecchieranno. Su quei quadri la natura farà
il suo corso; non sono davvero finiti, e fra cinquant’anni saranno senz’altro
molto più belli.
Se i tuoi
quadri avessero un suono, quale sarebbe?
Dipende dai
quadri. So This Is Love avrebbe un suono attutito, come di qualcuno che
parla attraverso un guanto. A Bug Dreams avrebbe un suono molto stridulo
e penetrante, a una frequenza altissima. She Wasn’t Fooling Anyone, She Was
Hurt Bad avrebbe un suono di vetri infranti smorzato ed estremamente
rallentato.
Mi sembra
anche che le opere diventino sempre più crude e aggressive. Prima la violenza
nei tuoi lavori era più trattenuta, ora è assai esplicita; ne sei consapevole?
Mi
piacerebbe morderli, i miei quadri, ma non posso perché la pittura contiene
piombo. Il che vuol dire che sono un po’ un vigliacco. Sento di non essere
ancora arrivato a quel punto, e i quadri i sembrano ancora tranquilli e
rassicuranti – indipendentemente da quel che faccio io, hanno ancora una loro
bellezza.
Il fatto che
tu li trovi belli e rassicuranti mentre quasi tutti li trovano inquietanti fa
pensare che tu conviva in modo insolitamente pacifico col lato oscuro della tua
psiche; come mai?
Non ne ho
idea. Sono sempre stato così. Mi sono sempre piaciuti entrambi i lati e ho
sempre creduto che per apprezzarne uno devi conoscere l’altro: più tenebre sei
in grado di raccogliere, più riesci a vedere anche la luce.
Da dove
germogliano, per così dire, i tuoi quadri?
L’ispirazione
è come un batuffolo di lanugine: arriva e crea un desiderio e un’immagine che
mi fa venire voglia di dipingerla. Oppure capita che sono in giro e vedo per
strada un cerotto buttato via, hai presente come sono. Ha i bordi tutti sporchi
e sulla parte adesiva si sono formate delle pallottoline scure, e si vede una
macchiolina di pomata e forse della sporcizia giallastra. È lì sul marciapiede,
in mezzo alla polvere, accanto a un sasso e magari a un rametto. Se lo vedessi
in una fotografia senza sapere cos’è, lo troveresti incredibilmente bello.
Qual è la
tua politica riguardo al colore?
La mia
politica è che non mi piace, forse perché non ho imparato a usarlo
correttamente. Quale che sia il motivo, non mi stimola – mi sembra pacchiano e
ridicolo. Però mi piace usare il marrone, che è un colore. Mi piacciono anche i
colori della terra, e a volte uso il rosso e il giallo – il rosso soprattutto
per il sangue e il giallo per il fuoco.
Cosa c’è
nella tua pittura di spiccatamente americano?
I soggetti.
Molti dei miei quadri vengono dai miei ricordi di Boise nell’Idaho e Spokane
nello stato di Washington.
Quale
aspetto del futuro t’inquieta di più?
La spirale
discendente verso il caos. Una volta pensavo che il Presidente degli Stati
Uniti avesse sotto controllo il futuro e ciò che accadeva intorno a me, ma
adesso sappiamo che non è così. La nostra è un’epoca in cui hai la nitida
percezione di queste gigantesche presenze malvagie che corrono di notte,
all’impazzata. Più libertà gli concedi e più saltano fuori e corrono, e ormai
si muovono in ogni direzione. Ben presto saranno così tante che non potremo più
fermarle. È davvero un periodo critico.
Gli aspetti
violenti della nostra cultura sono aumentati o eravamo solo più bravi a
disciplinarli in passato?
Oggi sono
molto più sviluppati. Il male c’era anche prima, ma era nel giusto equilibrio
con il bene e la vita era più lenta. La gente viveva in piccole città e
fattorie dove ci si conosceva e non ci si spostava più di tanto, per cui era
tutto più pacifico. C’erano sì cose di cui avere paura, ma ora l’ansia della
gente è a livelli stratosferici. La tv ha accelerato le cose e ha fatto sì che
la gente senta molte più cattive notizie. I mass media hanno sovraccaricato la
gente di informazioni, e anche la droga ha un grosso peso. Con la droga la
gente può arricchirsi e andare fuori di testa, e così si è aperto tutto un
mondo balordo. Queste cose hanno creato un nuovo genere di paura in America.
Hanno avuto
anche un ruolo nel crollo dell’istituzione familiare?
Sì, tutte
queste cose fanno parte della stessa tensione. Se metti un martello pneumatico
sotto a un tavolo, ben presto tutto quello che c’è sopra inizia a vibrare e a
spaccarsi e a cadere giù. La gente non ha più la sicurezza del futuro. Se hai
un lavoro, è già tanto se riesci a tenertelo per una settimana. Macy’s è andato
in fallimento e non ci sono più certezze.
Qual è la
linea di condotta da tenere quando intorno tutto crolla?
Un
cambiamento di mentalità farebbe una differenza sostanziale. Se tutti si
rendessero conto che il mondo potrebbe essere un posto bellissimo, e dicessero
basta a tutte queste cose… divertiamoci.
Fra
cent’anni il mondo sarà migliore o peggiore?
Sarà un
posto molto migliore.
Qual è il
cambiamento più positivo che si è verificato nella tua vita in questi ultimi
anni?
Sento di
potermi avventurare su qualunque strada. Ricordo tempi in cui non avevo
abbastanza soldi per comprare le tele, e avevo delle idee per alcune sculture
ma non un posto in cui realizzarle. Non sono ancora al 100% – non ho una
bottega né una camera oscura – ma non mi sento più limitato da ostacoli
esterni, e tutte le direzioni in cui posso muovermi si arricchiscono a vicenda.
L’unico materiale che mi scarseggia ora è il tempo.
Qual è
l’aspetto più difficile del successo di massa che hai conosciuto con Twin Peaks?
È stato
abbastanza problematico. È bello quando alla gente piace una cosa che hai fatto,
ma in un certo senso è inevitabile che la gente dopo un po’ si stufi e si
appassioni al tormentone successivo. Sei impotente di fronte a questa dinamica,
e la senti come un dolore sordo. Non una fitta acuta – è più come una
malinconia, per il fatto di vivere nell’epoca in cui tutti sono a casa da soli.
I cinema d’autore stanno scomparendo. Al loro posto abbiamo le multisale dove
proiettano dodici film contemporaneamente, e sono quelli che la gente va a
vedere. La televisione ha abbassato il livello e ha reso popolari certi
prodotti, la tv ha un ricambio veloce, non ha molta sostanza, ha le risate
registrate e basta.
Una volta
hai osservato: «Questo è un mondo fatto di lezioni, ed è nostro dovere imparare
delle cose»; perché è nostro dovere?
Per poterci
diplomare. La scuola è emblematica del percorso che compiamo nella vita. Ci si
diploma e si arriva in un altro posto che è così incredibile da non poterlo
neanche concepire adesso. L’essere umano ha il potenziale di fare
quest’esperienza che non ha niente a che vedere con gang e automobili. È una
cosa stupenda che sta su un piano superiore. Ma bisogna sapersi organizzare per
accedere a quel mondo.
È
interessante che tu abbia questa serie di convinzioni stabili e ottimistiche, e
ciononostante scorga questa immensa tenebra nell’esistenza; come spieghi questa
disparità?
È come
essere rinchiusi in un edificio insieme a dieci pazzi. Sai che da qualche parte
c’è una porta e che dall’altro lato della strada c’è una stazione di polizia
dove possono darti aiuto, ma sei comunque nell’edificio. Non importa quello che
sai sull’esterno se sei comunque bloccato lì dentro.
Tu preghi?
Sì.
Hai mai
avuto un’esperienza religiosa?
Sì. Parecchi
anni fa ero al Los Angeles County Museum of Art, e c’era una mostra di sculture
indiane in pietra arenaria. Ero lì con la mia prima moglie e nostra figlia
Jennifer, e a un certo punto io me ne sono andato per i fatti miei. Non c’era
in giro nessuno, solo queste sculture, ed era tutto silenzioso. Ho girato un
angolo e lo sguardo mi è corso in fondo alla sala, dove c’era un piedistallo.
L’ho seguito con lo sguardo e in cima c’era la testa di un Buddha. Quando l’ho
guardata ha emesso un lampo di luce bianca che mi ha colpito agli occhi e boom!
Di colpo mi sono sentito invadere dalla gioia. Ho avuto altre esperienze
simili.
Quand’è che
ti senti potente?
Non tanto
spesso. Quando fai una cosa che viene bene provi felicità, ma non so se sia un
senso di potere. Il potere è una cosa che fa paura e non è quello che
m’interessa. Io voglio fare certe cose e farle bene secondo la mia idea, e
questo mi basta. Il fatto di dover uscire ed essere recensiti e avere cinema e
gallerie per mostrare il mio lavoro non c’entra nulla coi motivi per cui lo
faccio. Quella è una parte che mi procura angoscia.
Qual è il ricordo
più caro che hai di tuo padre?
Lui che va
al lavoro in completo e cappello da cowboy a falde larghe. Vivevamo in
Virginia, quindi per me era imbarazzante che portasse quel cappello, ma ora mi
sembra del tutto appropriato. Non era una cosa d’ordinanza, era un cappello
grigio-verde a falde larghe, da guardia forestale; lui se lo metteva in testa e
usciva dalla porta. Non prendeva l’autobus né la macchina, si metteva a
camminare e con quel cappello in testa arrivava in città, oltre il George
Washington Bridge, una scarpinata di parecchi chilometri.
Fino a che
punto romanziamo il nostro passato?
In tutti i
nostri ricordi tendiamo a essere indulgenti con noi stessi. Ricostruiamo un
passato in cui ci siamo comportati meglio, abbiamo preso decisioni migliori,
siamo stati più buoni verso gli altri e ci viene riconosciuto più di quanto
probabilmente meriteremmo – abbelliamo il tutto in modo pazzesco, per poter
andare avanti a vivere. Un ricordo veritiero del passato probabilmente ci
getterebbe nello sconforto.
Perché
cerchiamo di trovare un significato alla vita? Perché è tanto difficile
accettare la possibilità che l’esistenza sia priva di senso?
Perché al
mondo ci sono così tanti indizi da creare una sensazione di mistero, e ciò
significa che c’è un enigma da risolvere. E una volta che si inizia a ragionare
in questi termini, ci si accanisce a cercare un probabile significato, e nella
vita ci sono molte strade in cui ci sembra di trovare piccole indicazioni del
fatto che un giorno il mistero si potrà risolvere. Rinveniamo delle piccole
prove – non la prova definitiva – ma sono le piccole prove che ci spingono a
continuare la ricerca.
Quale
sarebbe la prova definitiva?
Una totale
beatitudine della coscienza.
Cosa credi
che accada dopo la morte?
È come
andare a dormire dopo un giorno di intensa attività. Nel sonno accadono molte
cose, poi ci si sveglia e c’è un altro giorno di attività, per come la vedo io.
Non so esattamente dove si va, ma ho sentito delle storie su quello che
succede, e non c’è dubbio che quella di morire sia la paura più grande. Non
sappiamo nemmeno quanto ci si mette a morire. Se uno smette di respirare sta
ancora morendo? Come facciamo a sapere quando ha finito e lo si può portare
via? Le religioni orientali dicono che all’anima servono alcuni giorni per
uscire dal corpo, e ho sentito dire che è un processo doloroso. Devi sfilarti,
per così dire, dalla tua esistenza terrena. È come togliere il nocciolo a una
pesca acerba. Quando George Burns morirà, sarà una pesca talmente matura che il
nocciolo non rimarrà attaccato. Sguscerà fuori come niente, e sarà una cosa
bellissima.
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