The Sick Child, Edvard Munch, 1896, litografia
Dal sito http://www.nazioneindiana.com questa
mattina mi piace prendere un bel pezzo di Antonella Lattanzi, già pubblicato
dal Corsera del 4 novembre scorso:
ANTONELLA LATTANZI – LA MIA VITA DA SBANDATA
«M’incastro,
io m’incastro troppo con la testa. E poi mi chiedo dove sta l’amore. Mi ritrovo
che perdo la testa, sempre, per persone complicate. Fanno la vita che faccio
io, quindi sono instabili come me. Oppure è il contrario, facciamo questa
vita perché siamo instabili? Io non lo so». È un sabato sera
di settembre, Elisa è molto bella, ha 26 anni e un corpo minuto, sembra la
Natalie Portman di Léon che usa come profile picture su
Facebook. Sedute a un tavolino Peroni davanti a Rosi, baretto nel cuore del
Pigneto, Roma, Italia, mi guarda con desolata dolcezza. Ma non c’entra con
quanto mi sta raccontando, è la sua espressione naturale. Capelli cortissimi
tranne un ciuffo che lambisce gli occhi, tre piercing neri — setto nasale,
labbra, lingua —, maglia celeste, shorts di jeans su collant neri tagliati,
anfibi, chiodo in cui si abbraccia perché inizia a far freddo, se volessi
catalogarla la chiamerei punkabbestia.
«Ma ci
soffro il triplo, perché sto sempre in bilico, e continuo a chiedermi dove sta
l’amore. Dove, sta, l’amore. Però quando sei completamente smarrito su
qualsiasi valore come mi sento io, ti trovi in situazioni che nemmeno tu riesci
più a capire. Se è giusto o sbagliato per te. Perché sei completamente perso
riguardo a tutto. Tutto. Rispetto a te stesso, a ciò che ti sta intorno,
all’amore, a ciò che ci dobbiamo vivere, che sia l’università, il lavoro, il
rapporto con le droghe, o il mondo artistico, soprattutto». Elisa è sarda, vive
nello studentato di Casal Bertone. Studia teatro di mattina, Scienze
dell’educazione il pomeriggio, e poi «mi sfascio, quasi ogni notte. Sono sempre
stanchissima». Cerca riscontro negli occhi della sua amica Anna, capelli rasati
da un lato, rosso fuoco dall’altro, codice a barre tatuato sul collo,
dilatazione all’orecchio, maglia stretta, leggings, cintura
borchiata, stivali, occhi lunghi e obliqui e un sorriso che riaffiora di
continuo ridisegnandole i caratteri del viso. Anna viene da Bracciano, si è
appena laureata in Scienze dell’educazione, lei ed Elisa si sono conosciute là,
adesso sta cercando di capire cosa fare. «In carcere è bellissimo ma
difficilissimo. E se vado a lavorare in comunità… finisce che mi rinchiudono»,
ride. Chaos, la cagnolina nera che dormicchia sotto di noi, si riscuote e
scodinzola per un po’ di pizza. Anna gliela dà, l’accarezza, ci riempie i
bicchieri di birra. Brindiamo. Da cosa si riconosce un punkabbestia?
Dallo
spaesamento nei confronti del normale? Dalla musica che ascolta, le
persone che frequenta, le droghe che usa? Dai vestiti, dal luogo in cui vive —
per strada, in uno squat, in una casa? Dal lavoro che ha o non ha? Dalla
tristezza? Dai cani, e da come si chiamano, e se sono grossi, se hanno o meno
il guinzaglio? Dall’ora in cui si sveglia?
Tra la fine
degli anni Novanta e i primi Duemila sono stata punkabbestia anch’io. Ma vivevo
a Bari e come tanti adolescenti baresi il mio mito erano le città del Centro
Nord. Credevamo che fuori dal Sud il mondo fosse più eccitante, ricco. Per
certi versi, almeno all’epoca lo era. Per esempio per la mentalità della gente,
di cui un punkabbestia (come un extracomunitario, o un barbone) è una cartina
al tornasole. Poiché ti costringe a rivelarti subito a te stesso: lo guardi
male, eviti di guardarlo, lo guardi bene. Essere punkabbestia negli anni
Novanta, poi, quando anche solo un piercing produceva sconcerto («Perché lo
fai?» «Sei autolesionista?»), era totalizzante. Capelli dai colori scioccanti,
catene per cinte, cani in libertà, collette, urla. Lo sforzo di apertura richiesto
alla gente normale non era indifferente. Come si riconosce un
punkabbestia? Da quanto è rissoso? Tatuato?
Da quando
vivo a Roma mi sono chiesta spesso come dev’essere crescere qui. Essere bambini
qui, schiacciati negli autobus pieni da scoppiare, asfissiati di odori e aliti
adulti. Essere adolescenti nella capitale, dove lo sai che hai tante
possibilità a portata di mano, e forse ti viene l’ansia da prestazione o il
rifiuto per questa città così eterogenea, è vero, ma anche così dura. E se, da
adolescenti o giovani, si è punkabbestia? Come si vive, in particolare, in un
quartiere come il Pigneto, dove in poco spazio coesistono realtà opposte?
«Se non sono
a teatro o allo studentato, io sto sempre buttata qua», Elisa mi indica con gli
occhi il Pigneto, «anche se, ti dico, ormai è pieno di radical chic». «E gli
altri?». «Dici gli altri come me, come noi?». «Sì», e abbasso la testa perché
mi vergogno. «Alcuni squattano. Altri stanno per strada, in camper,
o in casa. La sera tutti al Pigneto. Prima anche a San Lorenzo ma
mo’ c’è troppa polizia, è pericoloso. L’altra sera Anna l’hanno fermata, poi le
hanno fatto la perquisa (perquisizione, ndr) a casa». «Beh, casa»,
Anna si gratta il naso, «è tipo una comune, ci dorme chiunque», lei ed Elisa si
guardano complici. «A casa?», trasecolo, «ma, scusa, non ci vuole un mandato?»,
la mia cultura legale nasce e muore sul linguaggio delle serie tv. «Che ne so,
sono venuti. Immagina i vicini, mi vedono tornà all’alba con la finanza», Anna
s’interrompe per guardare qualcosa. Guarda anche Elisa, guarda anche Chaos,
guardo anch’io. Due poliziotti in divisa e uno in borghese hanno fermato un
paio di marocchini a qualche centinaia di metri da noi, li stanno perquisendo.
Rimaniamo zitte finché non scompaiono. «Se ne sono andati?», chiedo. «Li hanno
portati via». Subito dopo ci passano davanti dei giovani stranieri. Ridono,
chiacchierano, barcollano un po’. Elisa chiude gli occhi. «Ultimamente non ci
stiamo regolando, il ritorno romano è stato duro… Minchia, il mese che so’ stata
a casa ho bevuto solo filu ’e ferro. Da quando sto a Roma, invece,
sarò stata lucida due giorni. Ho ricominciato a fare lo schifo. Avevo pensato
beh, a casa mi sono ripresa. Niente. Sono tornata e: tutti i giorni. O questo o
quell’altro. Flashettino? Flashettino». «Dici che c’entra Roma, il
Pigneto?» «Sì. No. Cioè, c’entra andare via di casa ». «C’hai ragione, non ce
stàmo a regolà», Anna richiama Chaos che si è allontanata.
«Comunque la
ketamina è la nuova eroina. Va presa… con attenzione. È molto forte», Anna si
risiede. «Mo’ che l’hai detto… è vero», Elisa si scurisce, accarezza Chaos.
«Anche se, pure la roba… secondo me sta aumentando». «Avòglia…».
Stiamo zitte. «Posso?», Elisa indica il tabacco, Anna annuisce. Sino a lunedì
prossimo non ha soldi. La finanzia Anna, insiste perché mangi, «prendi ’sto
pezzo di pizza, devi mangiare, dài. Ogni tanto ci ricordiamo di mangiare, e
dormire», mi sorride. «A proposito Elì, vieni da me stanotte?». «Ma è da quando
sono tornata che sto da te!». «Dài tesò! se vieni sono felice». Quando servirà,
sarà Elisa a finanziare lei. «È che il tipo con cui Eli si fa le storie vive a
casa mia», mi dà di gomito. «Ah!», rido, «allora non è che vuoi andare a
dormire dalla tua amica, è che vuoi stare con lui…». Elisa abbassa la testa,
«Eh…», sorride. «Fai bene, io ci andrei», le faccio l’occhiolino. Da cosa si
riconosce un punkabbestia? E un fighetto? E un radical chic?
«Se serve,
scollettiamo», Anna scompare dentro a prendere altra pizza per Eli. Scollettare è
una parola che usavo anch’io. I nostri genitori ne avrebbero usata un’altra:
chiedere l’elemosina. Per loro, la differenza tra un barbone e un punkabbestia
non c’è. Me lo sono chiesto spesso: qual è la differenza? l’età? la possibilità
di scelta? i vestiti? Molti ci dicevano: siete una massa di viziati. Fate tanto
i duri e poi la notte dormite caldi a casa, e i vostri genitori vi danno la
paghetta. Scollettare per voi è una moda.
A volte, per
qualcuno, avevano ragione. Chaos guarda il punto in cui Anna è scomparsa. I
suoi padroni sono andati a una «festa», Anna la tiene per un po’. Rosi, la
padrona del locale, porta via bottiglie e piattini vuoti. Cosa distingue un
punkabbestia da un barbone? Il gergo? Colletta, festa (rave), svolta, fare lo
schifo (drogarsi troppo), bevuto (arrestato), flash (da droga), squattare (vivere
in uno squat) e altre parole?
Ce ne
andiamo perché tutte e tre dobbiamo comprare il tabacco. All’incrocio tra Vallo
ferroviario e Circonvallazione Casilina, il cuore del Pigneto si snocciola
davanti a noi. Operai, povertà, criminalità, Resistenza, Neorealismo, movida:
storicamente il Pigneto si lascia animare dalle differenze, si trasforma.
Passiamo la Fraschetta (specialità porchetta), Birra+ («qua stanno spesso i
punkabbestia»), un gruppo di africani fermo quasi sempre a quest’angolo
(«abitano qui»), Chiccen (vino, cibo, libri, musica), Primo («questo è il
tempio dei radical chic, Antonè»), Contesta Rock Hair (hair style alternativo
ed eventi). Sul confine con l’isola pedonale, passiamo un gruppo di immigrati
asiatici («Stanno sempre qua. Certi spacciano»). Molti altri gestiscono
Internet point e alimentari che costellano le traverse qui intorno. Non
chiudono mai.
Elisa, Anna,
Chaos e io passiamo un kebabbaro, una serie di locali pieni fino a notte
inoltrata di tardo-giovani di tutti i tipi («Aperitivo al Pigneto?» è il refrain),
qualche associazione culturale molto attiva e la scicchissima gioielleria
Iosselliani, aperta solo dalle 18 alle 24. Seduto sulla soglia della vetrina,
un crocchio di punkabbestia e cani — che, come tutti qui, si confonde col nero
della sera — si passa birre, canne, pizza, parlando ad alta voce. «Paladini del
cazzo!», sta urlando uno di loro rivolto a chiunque. Il viavai dell’isola si
ferma un attimo, guardiamo. «Ch’è successo?», chiedo a un uomo coi dread.
«Stava picchiando il suo cane, ma male oh, una ragazza gli ha fatto: “La pianti
de menàje?” e quello s’è messo a urlare». Il tipo continua a urlare e picchiare
il cane. Noi passiamo oltre. Cosa sarebbe giusto fare, invece? In 300 metri ci
avvicinano almeno tre persone: «Serve fumo?». E se il punto non fossero i
radical chic o i punkabbestia?
Se il punto
fosse essere «completamente smarriti»? Su via L’Aquila facciamo la fila al
distributore di sigarette. Davanti a noi, due donne e due uomini cercano di
inserire gli spiccioli nella macchinetta, gli cadono, ridono, riprovano, le
braccia come scivoli lungo i quali le borsette di pelle slittano sino a terra,
le giacche morbide sbottonate sulle camicie, i vestitini mossi appena dal
vento, gli occhi liquidi. Un po’ spaventata dai rumori, Chaos ci guarda con lo
sguardo tipico dei cani: che sta succedendo? Tu lo sai, vero?
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