Chi mi
conosce sa che da tempo sostengo la utilità di rileggere senza paraocchi
Antonio Gramsci. I Quaderni, in cui raccolse i suoi appunti in carcere, sono
una miniera in gran parte ancora inesplorata.
Oggi voglio
segnalare una breve nota di Alessadro Leongrande, pubblicata ieri sul sito http://www.minimaetmoralia.it . L’autore,
tramite una veloce rassegna bibliografica dei più recenti contributi critici
pubblicati, conferma la grande attualità di uno dei pochi pensatori marxisti
sopravvissuti al crollo dell’URSS.
Alessandro Leogrande - Passando
per forza da Gramsci
“Gramsci è
un classico, un autore che non è mai di moda eppure viene letto sempre”. La
frase di Fernandez Buey è riportata da Eric Hobsbawm in un saggio su
Gramsci contenuto in uno dei suoi ultimi libri, apparso in Italia da Rizzoli
appena un anno fa: Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità
del marxismo. Hobsbawn è stato tra più attenti interpreti della “Gramsci
Renaissance”, quel singolare fenomeno di ricezione globale protrattosi
nell’ultimo trentennio, a molti apparso sempre più strano dopo la crisi
(politica) del socialismo e (filosofica) del marxismo. Eppure Hobsbawn aveva
colto appieno cosa rendeva il pensiero di Gramsci tanto attraente, nonostante
l’inattualità di molte sue parti: innanzitutto, scriveva, egli è stato uno dei
rari esempi di pensatore marxista in cui riflessione teorica e azione politica
(culminata nei lunghi anni del carcere) si sono intrecciati strettamente tra
loro. Se si escludono gli artefici della rivoluzione russa e Rosa Luxemburg,
questa unione di pensiero e azione rivoluzionaria non ha certo riguardato
Lukács, Korsch, Althusser, Marcuse e tanti altri.
Ma non si
tratta solo questo. Proprio perché italiano (e sono molte le pagine che
Hobsbawn ha dedicato all’Italia, tra le sue più belle), Gramsci non era
pienamente “occidentale”. La sua forza deriva dall’essere stato l’interprete di
un peculiare laboratorio della società capitalistica, in cui centri dell’impero
e periferie terzo-mondiali convivono all’interno degli stessi confini
nazionali. Insomma Gramsci non sarebbe stato Gramsci se non fosse stato sardo,
se non avesse toccato con mano la fame, la miseria, la sofferenza degli esclusi
dalla Storia, e se non avesse avuto sotto gli occhi quella strana intelaiatura
socio-politica che è l’Italia, quel singolare modo di fare e disfare il potere,
i poteri.
Date queste
premesse, il suo maggior contributo è nell’aver elaborato una teoria della
politica e, in particolare, dello Stato: quella cosa che – in un’epoca in cui
il capitalismo si rigenera provocando crisi devastanti – appare quanto mai
oscuro, inafferrabile, apparentemente inutile eppure decisivo.
Mentre in
Italia la “Gramsci Renaissance” ha prodotto una miriade di saggi e volumi
concentrati sul periodo carcerario, i rapporti con la curia moscovita e
Togliatti, la stesura dei quaderni e delle lettere (ne cito alcuni tra quelli
usciti nell’ultimo anno: I due carceri di Gramsci di Franco Lo
Piparo, Vita e pensiero di Antonio Gramsci di Giuseppe
Vacca, Gramsci in carcere e il fascismo di Luciano Canfora…),
altrove è la riflessione sul “politico” a essere recuperata con forza (si veda,
ad esempio, il volume a più voci Studi gramsciani nel mondo. Gramsci in
America Latina, il Mulino, o il vastissimo dibattito all’interno del mondo
accademico indiano).
Scriveva
ancora Hobsbawn in Come cambiare il mondo: “Al pari di Machiavelli,
egli è un teorico di come le società andrebbero fondate e trasformate, non dei
dettagli costituzionali, per non dire delle minuzie che preoccupano i
corrispondenti parlamentari”. Era questa per Gramsci la linea discriminante tra
“grande politica” e “piccola politica” tanto che non è difficile dire: a) il
racconto e l’analisi di quale tra le due siano oggi diventati nettamente
dominanti; b) quanto questo trionfo del chiacchiericcio politico su ogni forma
di teoria critica della politica sia funzionale al mantenimento dello status
quo.
Le
riflessioni gramsciane su Machiavelli sono raccolte in un libro a cura di Carmine
Donzelli, Il moderno principe, recentemente ristampato con un nuovo
saggio introduttivo del curatore. In tanti si sono affannati su queste fitte
pagine (il famoso Quaderno 13) per stabilirne il rapporto con la “differenza”
del Pci rispetto al modello sovietico, e verificare se tale eterodossia avesse
effettivamente un suo fondamento in Gramsci o, al contrario, nella sua
neutralizzazione. Un dibattito ancora aperto, a giudicare dalla mole dei titoli
usciti di recente… Della centralità dell’autore dei Quaderni negli
sviluppi della nostra filosofia politica parla invece Dario Gentili in The
Italian Theory (il Mulino). Uno dei fili conduttori del pensiero
nazionale sarebbe proprio la continua interrogazione su Machiavelli, attraverso
la lente – più o meno passata al vaglio della critica – di colui il quale
riteneva che l’allargamento dell’indagine sul “politico” non si sarebbe mai
potuto disgiungere da una attenzione sempre maggiore alle condizioni di vita e
alla cultura delle “classi subalterne”. E qui siamo tornati al punto di
partenza. Come aveva notato Hobsbawn, è proprio questo intreccio militante a
mantenere aperta la riflessione e a segnare un’ideale linea di resistenza in
un’epoca buia.
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