Per vent'anni i dirigenti del PD hanno voluto assomigliare a
Berlusconi: logico che ora dicano "vogliamo governare con lui anche se è
condannato per frode fiscale".
Dall' editoriale de Il manifesto di oggi 31 luglio 2013
Siamo
messi male, lo sapevamo, ma in queste ore ne abbiamo vistosa conferma,
persino patetica, con quell'immagine dell'Italia, paese alla periphery
d'Europa, come con franchezza ci definisce, e deferisce, il Fondo
monetario. Che osserva, come del resto tutte le televisioni che
stazionano sulla scalinata del Palazzaccio romano, le istituzioni
repubblicane e le sorti del governo appese alle ultime battute di un
processo decennale.
Siamo arrivati a questo passaggio cruciale
mentre ancora brucia il risultato delle ultime elezioni politiche, con
l'autoaffondamento del centrosinistra e la disintegrazione delle liste
di alternativa. Il dopo-elezioni ha sparso altro sale sulla ferita,
rendendoci spettatori della rissa del gruppo dirigente del Pd e,
soprattutto, della scelta presidenziale delle larghe intese.
In
questo ultimo passaggio giudiziario la colonna sonora è oltretutto
scandita da un grande festival dell'ipocrisia, interpretato dai
ritornelli dei più accaniti fan del condominio con Berlusconi. Costoro
cantano in coro che non capiscono perché mai bisognerebbe proprio ora
rompere con l'alleato di palazzo Chigi solo per una eventuale sentenza
di condanna. Dicono che governare con il pregiudicato non cambia nulla,
anzi sostengono che fingendo indifferenza per i suoi destini penali, il
governo dà prova di difendere la propria autonomia. La verità
naturalmente è un'altra: amministrare con i berlusconiani non è una
necessità, ma l'approdo per cui il Pd, o larga parte del partito, ha
lavorato sodo. E ora, giustamente, il sudato traguardo viene difeso a
qualunque prezzo. Anche perché il non aver saputo battere politicamente
l'avversario degli ultimi vent'anni ha una spiegazione semplice, logica,
coerente: volergli somigliare. Fino a raggiungere la massima
condivisione con l'unico leader politico di riferimento, e regalargli
una rendita di posizione che né lui, né i suoi alleati hanno interesse a
dilapidare.
Il copione di questo ultimo atto si svolge avendo
sullo sfondo una situazione economica che ci colloca fuori dall'Europa.
Un piccolo esempio spiega meglio di un saggio la deriva nazionale: su
100 pannelli solari installati in Italia, 98 sono importati, 1 è
prodotto da un'impresa estera in Italia e 1 da un'impresa italiana. Una
struttura produttiva fuori gioco e la situazione sociale va di concerto.
Tuttavia
qualche segnale positivo la giornata di attesa l'ha prodotto: le azioni
Mediaset e Mondadori hanno messo le ali, come se il mercato avesse
annusato che per il Cavaliere tira buon vento. Se i lauti guadagni in
Borsa delle imprese berlusconiane fossero l'annuncio di una sentenza
favorevole, avremo solo la conferma dell'impunità che sempre ne ha
accompagnato la lunga carriera politica. Oltre a riconoscere che
spendere una fortuna in avvocati alla fine è un ottimo investimento. Del
resto quanti «berlusconi» sono ospiti delle nostre fatiscenti carceri?
Se pure per una volta la legge fosse uguale per tutti, sarebbe
l'eccezione che conferma la regola.
Naturalmente, una eventuale
assoluzione, totale o parziale (con il conseguente rischio della
prescrizione), è da escludere che sia frutto delle forsennate pressioni a
preservare un assetto di potere che si appresta a chiudere il cerchio
della crisi modellando l'impianto costituzionale nella forma più
aderente ai nuovi equilibri.
Norma Rangeri
“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
31 luglio 2013
LA POLITICA E' MORTA
Barbara Spinelli - L’immobilità della politica
L’HA detto pure papa Francesco, il 25 luglio nella cattedrale di San Sebastiàn a Rio de Janeiro: meglio fare casino, hacer lio, Ecco cos’è non lapolitica liquida che si sperde e che tanti decantano, ma la resilienzadi una materia dura che resiste, e sotto gli urti rimbalza. «Le parrocchie, le scuole, le istituzioni sono fatte per uscire fuori (…). Se non lo fanno diventano una Ong e la Chiesa non può essere una Ong».
Se il signor Sposetti sapesse quel che dice, sul partito democratico di cui è tesoriere dal 2001, non sosterrebbe senza arrossire: «Sarà la fine di tutto, se i giudici condannano Berlusconi: il Pd non reggerà l'urto e salterà come un birillo». Saprebbe la differenza che c’è tra il resiliente e l’acqua che si chiude intatta sulla barca che affonda. Fra l’intelligenza e quella che lui stesso chiama la «fase fessa» del proprio partito e della democrazia italiana.
Qualche giorno fa l’aveva detto anche Obama: che il suo paese è tuttora malato di razzismo, che l’Unione americana non sarà mai perfetta ma meno imperfetta può divenire. Che il divenire è tutto. Che tra gli americani, e non solo tra i loro politici, deve iniziare unesame di coscienza, dopo la mancata condanna di chi nel febbraio 2012 ammazzò a bruciapelo un disarmato diciassettenne afro-americano, Trayvon Martin. Che deve infine cominciare una «conversazione sulla razza», in grado di vedere nell’Altro o nel Diverso «non il colore della pelle, ma il contenuto del suo carattere». Altrettanto in Germania: fin dal 1999, quando Schröder divenne Cancelliere, fu cambiata la legge sulla concessione della nazionalità, adottando lo ius soli accanto allo ius sanguinis cui per secoli i tedeschi erano rimasti aggrappati. Il governo socialdemocratico-verde capì che, nella globalizzazione, l’omogeneità etnica era divenuta bieco anacronismo.
Non così in Italia, dove in politica regnano le cerchie scostanti, i clan che fuggono l’aria aperta, inaccessibili e sordi al resto della cittadinanza e al mondo che muta. Vent’anni di diseducazione civica, di leggi infrante, di immunità, hanno asserragliato politici e partiti nelle cantine dei propri clericalismi: immobili, disattenti alla società dove «si fa casino», si disturba e si fa baccano. Sono diocesi incapaci di correggersi, di entrare in quella che papa Bergoglio chiama l’onda della rivoluzione copernicana.
Cos’è per lui rivoluzione? «Ci toglie dal centro e mette al centro Dio. Apparentemente sembra che non cambi nulla, ma nel più profondo di noi stessi cambia tutto. La nostra esistenza si trasforma, il nostro modo di pensare e di agire si rinnova, diventa il modo di pensare e di agire di Gesù, di Dio. Cari amici, la fede è rivoluzionaria e io oggi ti chiedo: sei disposto, sei disposta a entrare in quest’onda rivoluzionaria?». E dove nasce l’onda? «Nelle periferie esistenziali», dove l’indifferenza dilaga. E come mai s’è andata formando l’indifferenza? «Vedete, io penso che questa civiltà mondiale sia andata oltre i limiti, perché ha creato un tale culto del dio denaro, che siamo in presenza di una filosofia e di una prassi di esclusione dei due poli della vita (gli anziani, i giovani), che sono le promesse dei popoli». Sui giovani ha aggiunto: «Abbiamo una generazione che non ha esperienza della dignità guadagnata con il lavoro».
Di simile trasformazione avrebbe bisogno la politica, affetta dall’isterico ristagno che è la stasi: non del liquido Renzi, ma della dura e antica materia che fa fronte alle scosse. Non di un Tony Blair che s’assoggetti al culto del denaro, alle guerre di Bush jr., e vinca uccidendo la sinistra. La destra ha le sue impassibilità morali, e non stupisce. Ha da difendere privilegi, clan, impunità: in particolare quella del proprio padre- padrone, senza il quale teme di morire. Vivrà anche se il capo, condannato per frode fiscale, estromesso dal Senato, comanderà da fuori: mentre i Democratici no, cadono come birilli a forza d’inconsistenze e tradimenti.
Il Pd è cresciuto in questo clima e ne è stato contaminato (non è vero che è stato troppo antiberlusconiano: il ventennio è stato tutto all’insegna della compromissione) ma tanti elettori e alcuni aspiranti leader sentono che bisogna far casino se non si vuol restare fessi. Perché se il Pd insiste nell’autodistruzione e nell’immobilità, chi guiderà coalizioni diverse, se sarà necessario, e cosa andrà messo «al centro»?
Qualche sera fa, il 26 luglio a una festa dei Democratici a Cervia, il ministro Kyenge, già chiamata orango non da un leghista qualunque ma dal vicepresidente del Senato Calderoli, è stata fatta bersaglio di un lancio di banane. Nel Pd: breve indignazione, presto dimenticata. È stata breve anche con Calderoli. Nessuno ha avuto l’ardire di rispondere: non entreremo in Senato, i giorni in cui a presiedere sarà lui.
Non sono mancati, come è giusto, gli elogi della reazione ironica di Cécile Kyenge (“Che spreco di cibo! Uno schiaffo alla povertà”). «Non c’è miglior modo di contrastare chi si sente razza superiore, che farlo sentire un cretino e mostrarlo al mondo», scrive Alessandro Robecchi. Ma i provocatori fascisti hanno potuto fare irruzione senza problemi, e i servizi d’ordine che alzino barriere non esistono da tempo. L’ironia è ignominia per un partito che seppe resistere, in ore gravi della storia italiana. L’esclusione va combattuta, assieme al razzismo. E che si aspetta per una legge sull’omofobia? Anche qui ascoltiamo Bergoglio, sull’aereo di ritorno da Rio: «Le lobby tutte non son buone. Ma se una persona è gay, chi sono io per giudicarla?».Basta un papa, per la rivoluzione copernicana che s’impone? Dante era convinto che occorresse il potere sovrano dell’imperatore,perché il pastore della Chiesa «rugumar può» – può ruminare le Scritture – ma non guidare laicamente la città dell’uomo. È una saggezza che vale ancora. Ma è difficile quando l’autorità laica non cura il bene pubblico ma solo i privilegi e il potere dei propri potentati. L’opposizione della dirigenza Pd a primarie aperte per la futura guida del Pd (e per la candidatura alla premiership) è segno di quest’otturazione di spazio, attorno a un centro che è stato tolto. Anche qui: meglio perdere e salvare la parrocchia, senza avventurarsi in alto mare alla ricerca non solo dei cari iscritti estinti ma degli elettori vivi.
Meglio il Regno della Necessità di Enrico Letta, che farà magari alcune leggi buone con alcuni buoni ministri ma è pur sempre figlio delle larghe intese che gli italiani non volevano. Né si può dire che Letta sia solo lì per fare una legge elettorale e risparmiarci immediati crolli economici. Il cantiere che ha messo in piedi prevede una vasta revisione della Costituzione. E con chi si trova a riformarla se non con un capo del Pdl per cui le larghe intese sono non un provisorium ma una pacificazione, dunque un appeasement, un salvacondotto. Come riscriverla se non con un Parlamento di nominati, che la Cassazione ha già dichiarato non legittimo, visto che potenzialmente incostituzionale è la legge elettorale da cui discende.
È una gran fortuna che il Vaticano non si intrometta nella città dell’uomo. Ma l’ipocrisia diminuirebbe un po’, se la politica venisse scossa, rimessa al centro, e, parafrasando Bergoglio, qualcuno chiedesse di non farne un frullato, perché «c’è il frullato di arancia, c’è il frullato di mela, c’è il frullato di banana, ma per favore non bevete frullato di politica». Anche la politica è intera, come la fede, «e non si frulla».che chiudersi dentro i recinti delle proprie parrocchie e immaginarsi potenti, anche se dentro già si è morti. Meglio «uscire fuori, per strada», e disturbare, e farsi valere, piuttosto che installarsi «nella comodità, nel clericalismo, nella mondanità, in tutto quello che è l’essere chiusi in noi stessi».
Da La repubblica 31 Luglio 2013
30 luglio 2013
GRAMSCI A MALAGA
Dalla
«Escuela de Verano» di Malaga parte l'idea di una rivista internazionale di
studi «gramsciana». Di seguito potete leggere il bel pezzo di Angelo D’ Orsi
pubblicato oggi da Il manifesto:
ANGELO D’ORSI -
GRAMSCI A MALAGA
La città
natale di Pablo Ruiz Picasso, oggetto negli ultimi decenni di una devastazione
ambientale che certo poco sarebbe piaciuta all'autore delle Demoiselles
d'Avignon, con costruzione di giganteschi alberghi (che i giornali locali
vantano come primato nazionale), non è solo luogo di vacanza, anche se,
malgrado la crisi economica, qui si percepisca ancora la dolcezza del vivere.
Malaga ha una università di medie dimensioni, nata quarant'anni fa, molto
vivace, e una cattedra Unesco, che organizza da sei anni dei corsi estivi, su
varie tematiche, in diverse discipline, sempre con finalità fortemente
connotate sul piano civile e indirettamente politico. Si crede, qui, insomma,
in una cultura che abbia come meta ultima non il mero accrescimento di
conoscenze, e men che meno l'acquisizione di competenze tecniche, bensì la
formazione della cittadinanza.
Quest'anno la "Escola de Verano" comprendeva dodici corsi, che coprivano discipline come il Diritto pubblico, la Comunicazione, la Pedagogia, la Biologia, il Diritto penale, la Scienza politica. E per la prima volta anche i fumetti, nella loro dimensione politica. Alcuni docenti che collaborano alla Cattedra Unesco, in memoria di Francisco Fernandez Buey, uno studioso morto prematuramente meno di un anno fa, proposero al direttore della cattedra, Bernardo Diaz Nosty, un corso su Antonio Gramsci. Qualcuno espresse perplessità giudicando il corso troppo specialistico, ma alla fine la proposta passò. Risultato: il corso su Gramsci ha avuto di gran lunga il maggior numero di iscritti, e addirittura il maggior numero di partecipanti di tutta la storia della Scuola estiva. Una sorpresa un po' per tutti, anche perché il titolo del corso, "La vigencia del pensamento de Antonio Gramsci", era molto "tagliato", e dava quasi un messaggio politico, al punto che qualche studioso italiano contattato per svolgere il ruolo di docente ha rifiutato. E ha fatto male. Perché il corso, diretto da Ana Jorge Alonso, ha rappresentato una esperienza entusiasmante. Innanzi tutto per il pubblico frequentante: persone di ogni età e professione, dagli studenti ai professori delle Superiori, dai docenti universitari (inimmaginabile da noi che dei docenti vadano a frequentare, come iscritti paganti, una Summer School della loro università) ai sindacalisti, dai militanti di sinistra a semplici appassionati. Ogni lezione era seguita da un dibattito intensissimo, pieno di curiosità, dove non si facevano comizi, ma si ponevano domande intelligenti, che traducevano un'autentica volontà di sapere. E molti cominciavano i loro interventi nella discussione spiegando il loro Gramsci: ossia come l'avevano conosciuto e che cosa sapevano di lui. Un insegnante di scuola media ha detto che di Gramsci sapeva a mala pena il nome, e quando ha visto qualche mese fa il programma del corso, è andato a cercare informazioni su Wikipedia e altri siti, ed è rimasto «impressionato» da ciò che ha trovato e letto (così ha detto). Ha deciso di iscriversi: ha seguito l'intera settimana, occupando sempre lo stesso posto - stessa fila, stesso banco - prendendo appunti, facendo domande, diligente e attivo, testimoniando, giorno dopo giorno, il proprio crescente entusiasmo. Notevole la presenza di laureandi, dottorandi, docenti di discipline che si potrebbero immaginare (sbagliando) estranee all'universo gramsciano, come il Diritto, la Linguistica, la Traduzione, la Psicologia.
In tutti i partecipanti (oltre 40, alcuni provenienti dal circondario, qualcuno addirittura da città distanti fino a un centinaio di chilometri), è visibilmente andato crescendo l'interesse per la vita, il pensiero e la fisionomia politica di questo rivoluzionario pensoso, di questo marxista critico, di questo comunista umanistico, la cui fortuna attuale scaturisce precisamente dalla differenza tra la sua posizione e il suo pensiero rispetto alla dogmatica marxista e il socialismo reale, la sua distanza da ciò che chiamiamo, semplificando, stalinismo. Si è insistito, da vari punti di vista, precisamente sulla «diversità» di Gramsci, e ci si è interrogati sulla sua «attualità», anche se la risposta che personalmente darei è di assoluta inattualità ma nel contempo di drammatica necessità. Difficile immaginare oggi, tanto a livello nazionale, quanto sovranazionale, una estraneità così assoluta: il rigore etico, l'onestà intellettuale, la coerenza politica, la stessa ricchezza umana, di cui la vita, l'azione e il pensiero di Antonio Gramsci sono prova provata, duramente provata, appaiono distanti anni luce dalle regole e dalle prassi del tempo presente. Eppure quanto bisogno vi sarebbe precisamente di questi tratti, per fare cultura, una cultura disinteressata, ossia non finalizzata a una carriera accademica o al mercato, ma nel contempo una cultura che miri a comprendere, come scriveva il giovane studente dell'università di Torino nel 1916, il nostro posto nel mondo, i nostri diritti e i nostri doveri, per acquisire consapevolezza, apprendere il principio di responsabilità. Tutti passi fondamentali per l'azione politica. Gramsci sarebbe utile, e direi necessario anche per tentare di fare una politica che ricuperi la propria nobiltà, che associ una concezione realistica dei rapporti di forza, con la spinta dell'utopia trasformatrice. Curiosamente, proprio in Italia questa "vigencia" di Gramsci sembra ignorata: una giovane ricercatrice che collabora alla Cattedra Unesco, ma ha rapporti con l'Università di Torino, mi racconta che, venuta appunto sotto la Mole, avendo annunciato il corso su Gramsci al gruppo di docenti e ricercatori torinesi, ha ricevuto un gelido commento: «Da noi Gramsci è superato». E costoro sono scienziati della politica...
A dispetto del giudizio di costoro, il corso malagueño ha confermato di vedere nell'elaborazione di Gramsci, una eccezionale ricchezza multiversa e un'assoluta originalità: del giornalista rivoluzionario, poi del dirigente politico, infine, nel prigioniero del fascismo che riflette sulla sconfitta del movimento operaio. Per Gramsci il marxismo costituisce una fonte essenziale, ma non è la sola; e il comunismo la prospettiva, ma con caratteri suoi propri: si tratta di due etichette insufficienti, in definitiva, anche se entrambe corrette. Con Gramsci ha inizio un'era nuova nella storia del pensiero occidentale: tale il messaggio che Malaga lancia oggi. Per diffonderlo, alla conclusione del corso, si è deciso, unanimemente, di radunare la comunità gramsciana nel luogo ideale in cui gli intellettuali sempre si incontrano e lanciano le loro idee: non un nuovo centro studi (ne esistono), non una cattedra (ce ne sono, specie in America Latina), non un'associazione (la International Gramsci Society nacque negli Usa nel 1989, grazie a Joseph Buttgieg, e ha una vivace Sezione italiana, presieduta fino alla morte dal compianto Giorgio Baratta, ora da Guido Liguori); nulla di tutto questo. Ma, semplicemente, una rivista, che si chiamerà classicamente Gramsciana, ospiterà contributi in diverse lingue, avrà un Consiglio di direzione e un Comitato scientifico internazionali. Alla rivista Malaga affida il compito di riprendere il discorso della "Escola de Verano" 2013.
Quest'anno la "Escola de Verano" comprendeva dodici corsi, che coprivano discipline come il Diritto pubblico, la Comunicazione, la Pedagogia, la Biologia, il Diritto penale, la Scienza politica. E per la prima volta anche i fumetti, nella loro dimensione politica. Alcuni docenti che collaborano alla Cattedra Unesco, in memoria di Francisco Fernandez Buey, uno studioso morto prematuramente meno di un anno fa, proposero al direttore della cattedra, Bernardo Diaz Nosty, un corso su Antonio Gramsci. Qualcuno espresse perplessità giudicando il corso troppo specialistico, ma alla fine la proposta passò. Risultato: il corso su Gramsci ha avuto di gran lunga il maggior numero di iscritti, e addirittura il maggior numero di partecipanti di tutta la storia della Scuola estiva. Una sorpresa un po' per tutti, anche perché il titolo del corso, "La vigencia del pensamento de Antonio Gramsci", era molto "tagliato", e dava quasi un messaggio politico, al punto che qualche studioso italiano contattato per svolgere il ruolo di docente ha rifiutato. E ha fatto male. Perché il corso, diretto da Ana Jorge Alonso, ha rappresentato una esperienza entusiasmante. Innanzi tutto per il pubblico frequentante: persone di ogni età e professione, dagli studenti ai professori delle Superiori, dai docenti universitari (inimmaginabile da noi che dei docenti vadano a frequentare, come iscritti paganti, una Summer School della loro università) ai sindacalisti, dai militanti di sinistra a semplici appassionati. Ogni lezione era seguita da un dibattito intensissimo, pieno di curiosità, dove non si facevano comizi, ma si ponevano domande intelligenti, che traducevano un'autentica volontà di sapere. E molti cominciavano i loro interventi nella discussione spiegando il loro Gramsci: ossia come l'avevano conosciuto e che cosa sapevano di lui. Un insegnante di scuola media ha detto che di Gramsci sapeva a mala pena il nome, e quando ha visto qualche mese fa il programma del corso, è andato a cercare informazioni su Wikipedia e altri siti, ed è rimasto «impressionato» da ciò che ha trovato e letto (così ha detto). Ha deciso di iscriversi: ha seguito l'intera settimana, occupando sempre lo stesso posto - stessa fila, stesso banco - prendendo appunti, facendo domande, diligente e attivo, testimoniando, giorno dopo giorno, il proprio crescente entusiasmo. Notevole la presenza di laureandi, dottorandi, docenti di discipline che si potrebbero immaginare (sbagliando) estranee all'universo gramsciano, come il Diritto, la Linguistica, la Traduzione, la Psicologia.
In tutti i partecipanti (oltre 40, alcuni provenienti dal circondario, qualcuno addirittura da città distanti fino a un centinaio di chilometri), è visibilmente andato crescendo l'interesse per la vita, il pensiero e la fisionomia politica di questo rivoluzionario pensoso, di questo marxista critico, di questo comunista umanistico, la cui fortuna attuale scaturisce precisamente dalla differenza tra la sua posizione e il suo pensiero rispetto alla dogmatica marxista e il socialismo reale, la sua distanza da ciò che chiamiamo, semplificando, stalinismo. Si è insistito, da vari punti di vista, precisamente sulla «diversità» di Gramsci, e ci si è interrogati sulla sua «attualità», anche se la risposta che personalmente darei è di assoluta inattualità ma nel contempo di drammatica necessità. Difficile immaginare oggi, tanto a livello nazionale, quanto sovranazionale, una estraneità così assoluta: il rigore etico, l'onestà intellettuale, la coerenza politica, la stessa ricchezza umana, di cui la vita, l'azione e il pensiero di Antonio Gramsci sono prova provata, duramente provata, appaiono distanti anni luce dalle regole e dalle prassi del tempo presente. Eppure quanto bisogno vi sarebbe precisamente di questi tratti, per fare cultura, una cultura disinteressata, ossia non finalizzata a una carriera accademica o al mercato, ma nel contempo una cultura che miri a comprendere, come scriveva il giovane studente dell'università di Torino nel 1916, il nostro posto nel mondo, i nostri diritti e i nostri doveri, per acquisire consapevolezza, apprendere il principio di responsabilità. Tutti passi fondamentali per l'azione politica. Gramsci sarebbe utile, e direi necessario anche per tentare di fare una politica che ricuperi la propria nobiltà, che associ una concezione realistica dei rapporti di forza, con la spinta dell'utopia trasformatrice. Curiosamente, proprio in Italia questa "vigencia" di Gramsci sembra ignorata: una giovane ricercatrice che collabora alla Cattedra Unesco, ma ha rapporti con l'Università di Torino, mi racconta che, venuta appunto sotto la Mole, avendo annunciato il corso su Gramsci al gruppo di docenti e ricercatori torinesi, ha ricevuto un gelido commento: «Da noi Gramsci è superato». E costoro sono scienziati della politica...
A dispetto del giudizio di costoro, il corso malagueño ha confermato di vedere nell'elaborazione di Gramsci, una eccezionale ricchezza multiversa e un'assoluta originalità: del giornalista rivoluzionario, poi del dirigente politico, infine, nel prigioniero del fascismo che riflette sulla sconfitta del movimento operaio. Per Gramsci il marxismo costituisce una fonte essenziale, ma non è la sola; e il comunismo la prospettiva, ma con caratteri suoi propri: si tratta di due etichette insufficienti, in definitiva, anche se entrambe corrette. Con Gramsci ha inizio un'era nuova nella storia del pensiero occidentale: tale il messaggio che Malaga lancia oggi. Per diffonderlo, alla conclusione del corso, si è deciso, unanimemente, di radunare la comunità gramsciana nel luogo ideale in cui gli intellettuali sempre si incontrano e lanciano le loro idee: non un nuovo centro studi (ne esistono), non una cattedra (ce ne sono, specie in America Latina), non un'associazione (la International Gramsci Society nacque negli Usa nel 1989, grazie a Joseph Buttgieg, e ha una vivace Sezione italiana, presieduta fino alla morte dal compianto Giorgio Baratta, ora da Guido Liguori); nulla di tutto questo. Ma, semplicemente, una rivista, che si chiamerà classicamente Gramsciana, ospiterà contributi in diverse lingue, avrà un Consiglio di direzione e un Comitato scientifico internazionali. Alla rivista Malaga affida il compito di riprendere il discorso della "Escola de Verano" 2013.
I CUSTODI DELLA CARTA
Salvatore Settis – I custodi
della Carta
Si può
cambiare la Costituzione, e come? Per tutto il 1947 la Costituente discusse
appassionatamente questo punto cruciale. Tutti erano d’accordo che la Carta è
«nelle sue grandi mura definitiva, e deve aver vita di secoli » (Meuccio
Ruini), e che va intesa come “rigida”, un insieme organico di cui non si può
cambiare un articolo senza incidere sull’insieme. Secondo il democristiano
Lodovico Benvenuti (più tardi Segretario generale del Consiglio d’Europa), i
principi della Carta «non possono esser rimessi all’arbitrio di qualsiasi
maggioranza parlamentare», anche per evitare che affrettate modifiche
richiedano «la complicità del presidente della Repubblica». Costantino Mortati
(Dc) osservò che «la Costituente fu eletta ad hoc e nel periodo della sua
formazione i partiti hanno presentato i loro programmi sulla nuova
Costituzione», mentre «una Camera avvenire, eletta per un compito normale di
legislazione», non sarà mai altrettanto legittimata a cambiarne il testo.
Si ritenne necessario «stabilire forti garanzie per evitare che la Costituzione sia modificata con leggerezza » (Lussu), ricorrendo a «una procedura straordinaria particolarmente complicata» per arginare colpi di maggioranza (così il liberale Martino, poi presidente del Parlamento europeo). Il 15 gennaio 1947 fu approvata la proposta del socialista Paolo Rossi (poi presidente della Corte costituzionale), secondo cui le Camere, dopo aver varato una modifica costituzionale, erano automaticamente sciolte, e la modifica entrava in vigore solo dopo essere stata riapprovata tal quale dalle nuove Camere. Dopo acceso dibattito si giunse a quello che è oggi l’art. 138, con le sue tre garanzie contro i colpi di mano. Prima di tutto, la doppia lettura da parte delle Camere, a tre mesi l’una dall’altra, onde «diluire nel tempo il procedimento di revisione al fine di accertarne la rispondenza ad esigenze veramente sentite e stabili» (Mortati), anche perché «tre mesi paiono sufficienti perché l’opinione pubblica si metta in moto»; in secondo luogo, la maggioranza di due terzi, e in difetto di questa «il ricorso alla fonte stessa della sovranità, il referendum popolare», fermo restando che «la legge, finché è legge, sia religiosamente osservata» (Rossi).
Questa calibratissima ingegneria istituzionale viene spazzata via dal disegno di legge 813, firmato da Enrico Letta e dai ministri Quagliariello e Franceschini. Secondo i proponenti, le Camere che oggi abbiamo, composte di membri nominati con la pessima legge elettorale che tutti deplorano e nessuno modifica, esprimeranno (con accordi fra i capigruppo e i presidenti delle Camere) una mini-Costituente di 40 membri. Tal Comitato esamina a tappe forzate («non sono ammesse questioni pregiudiziali, sospensive e di non passaggio agli articoli») le proposte di riforma della Costituzione «afferenti alla forma di Stato, alla forma di Governo e al bicameralismo», le elabora in quattro mesi e le trasmette alle Camere, che devono concluderne l’esame entro 18 mesi. Vengono mantenuti referendum e doppia lettura, ma l’intervallo è ridotto da tre mesi a uno. Il precedente è la Bicamerale del 1997, la cui unica funzione fu traghettare Berlusconi attraverso una legislatura di centrosinistra senza far nulla sul conflitto d’interesse.
Secondo Alessandro Pace (audizione al Senato, 21 giugno), un vizio di fondo inficia questo ddl. «Il Parlamento può modificare l’art. 138, ma finché quella procedura è in vigore deve rispettarla: l’art. 138 è bensì modificabile, ma non derogabile», il ddl 813 costituisce perciò «una modifica surrettizia con effetti permanenti». Ma le anomalie non si fermano qui: perché il governo ha nominato una commissione di “saggi” «incaricata di fornire i suoi input nel merito delle modifiche da apportare alla Costituzione »? Come mai gli emendamenti alle proposte di revisione costituzionale possono essere presentati dal governo e dai capigruppo, ma non da un singolo deputato come nella Costituente? Che vuol dire l’art. 4, secondo cui «qualora entro il termine non si pervenga all’approvazione di un progetto di legge costituzionale, il Comitato trasmette comunque un progetto di legge»? Quale progetto di legge, se nessuno è stato approvato? Perché infine (lo hanno incisivamente notato Eugenio Scalfari ed Ezio Mauro) al Comitato è rimesso anche l’esame delle leggi elettorali, come se il Porcellum fosse diventato un pezzo di Costituzione?
Perché tanta fretta, perché tante anomalie? Perché, ci informa la relazione del ddl 813, la Costituzione dev’essere adeguata al «mutato scenario politico, sociale ed economico ». Chi difende la Costituzione com’è pecca di «conservatorismo costituzionale », spiegano Letta-Quagliariello- Franceschini, poiché la forma dello Stato e del governo furono immaginate dalla Costituente «nella temperie della guerra fredda». Questo affondo storiografico è un’impronta digitale, rivela da dove vengono le certezze di chi ci governa: dalla party line, diffusa nell’attardato thatcherismo di ambienti finanziari e imprenditoriali, secondo cui la crisi economica nasce dalle troppe concessioni alle classi meno abbienti. Come ha ricordato Barbara Spinelli in queste pagine (26 giugno), chi ha divulgato questa linea in Italia è Berlusconi, secondo cui la nostra Costituzione «fu scritta sotto l’influsso della fine di una dittatura da forze ideologizzate », è una “Costituzione sovietica”. Ancor più chiaro è il rapporto sull’area euro della società finanziaria J.P. Morgan (28 maggio), secondo cui «all’inizio della crisi, si pensava che i problemi nazionali fossero di natura economica, ma si è poi capito che ci sono anche problemi di natura politica. Le Costituzioni e i sistemi politici dei Paesi della periferia meridionale, sorti in seguito alla caduta del fascismo, hanno caratteristiche non adatte al processo di integrazione economica, (…) e sono ancora determinati dalla reazione alla caduta delle dittature. Queste Costituzioni mostrano una forte influenza socialista, riflesso della forza politica che le sinistre conquistarono dopo la sconfitta del fascismo. Perciò questi sistemi politici periferici hanno, tipicamente, caratteristiche come: governi deboli rispetto ai parlamenti, stati centrali deboli rispetto alle regioni, tutela costituzionale del diritto al lavoro, consenso basato sul clientelismo politico, diritto di protestare contro ogni cambiamento. La crisi è la conseguenza di queste caratteristiche. (…) Ma qualcosa sta cambiando: test essenziale sarà l’Italia, dove il nuovo governo può chiaramente impegnarsi in importanti riforme politiche ».
La finanza internazionale comanda, il governo italiano esegue, come usa alla periferia del mondo. Leggendo il ddl 813 in filigrana sul documento di JP Morgan (un ordine di servizio che viene da lontano), dobbiamo aspettarci un governo più forte e centralizzato, un parlamento più debole, la compressione dei diritti dei lavoratori e di ogni protesta, l’archiviazione dell’antifascismo. Se ciò è contrario alla Costituzione basta cambiarla, e in fretta: perciò, capovolgendo il responso delle urne e le priorità dichiarate, la riforma del Porcellum è stata messa in soffitta, la riforma della Costituzione in corsia preferenziale.
«Ci sarà pure un giudice a Berlino», diceva il mugnaio di Potsdam che arrivò fino al Re di Prussia per avere giustizia. Ci sarà pure a Roma un custode della Costituzione, dicono oggi i cittadini. A chi chiederemo se davvero la crisi economica è un frutto dell’antifascismo? Se per risolverla occorre stravolgere la Costituzione modificando «la forma di Stato e di governo » generata dalla Resistenza? Se dobbiamo rassegnarci a quel che Barbara Spinelli ha chiamato il «giudizio universale» di JP Morgan, a «demolire la Costituzione in nome della cosmica giustizia dei mercati»?
Si ritenne necessario «stabilire forti garanzie per evitare che la Costituzione sia modificata con leggerezza » (Lussu), ricorrendo a «una procedura straordinaria particolarmente complicata» per arginare colpi di maggioranza (così il liberale Martino, poi presidente del Parlamento europeo). Il 15 gennaio 1947 fu approvata la proposta del socialista Paolo Rossi (poi presidente della Corte costituzionale), secondo cui le Camere, dopo aver varato una modifica costituzionale, erano automaticamente sciolte, e la modifica entrava in vigore solo dopo essere stata riapprovata tal quale dalle nuove Camere. Dopo acceso dibattito si giunse a quello che è oggi l’art. 138, con le sue tre garanzie contro i colpi di mano. Prima di tutto, la doppia lettura da parte delle Camere, a tre mesi l’una dall’altra, onde «diluire nel tempo il procedimento di revisione al fine di accertarne la rispondenza ad esigenze veramente sentite e stabili» (Mortati), anche perché «tre mesi paiono sufficienti perché l’opinione pubblica si metta in moto»; in secondo luogo, la maggioranza di due terzi, e in difetto di questa «il ricorso alla fonte stessa della sovranità, il referendum popolare», fermo restando che «la legge, finché è legge, sia religiosamente osservata» (Rossi).
Questa calibratissima ingegneria istituzionale viene spazzata via dal disegno di legge 813, firmato da Enrico Letta e dai ministri Quagliariello e Franceschini. Secondo i proponenti, le Camere che oggi abbiamo, composte di membri nominati con la pessima legge elettorale che tutti deplorano e nessuno modifica, esprimeranno (con accordi fra i capigruppo e i presidenti delle Camere) una mini-Costituente di 40 membri. Tal Comitato esamina a tappe forzate («non sono ammesse questioni pregiudiziali, sospensive e di non passaggio agli articoli») le proposte di riforma della Costituzione «afferenti alla forma di Stato, alla forma di Governo e al bicameralismo», le elabora in quattro mesi e le trasmette alle Camere, che devono concluderne l’esame entro 18 mesi. Vengono mantenuti referendum e doppia lettura, ma l’intervallo è ridotto da tre mesi a uno. Il precedente è la Bicamerale del 1997, la cui unica funzione fu traghettare Berlusconi attraverso una legislatura di centrosinistra senza far nulla sul conflitto d’interesse.
Secondo Alessandro Pace (audizione al Senato, 21 giugno), un vizio di fondo inficia questo ddl. «Il Parlamento può modificare l’art. 138, ma finché quella procedura è in vigore deve rispettarla: l’art. 138 è bensì modificabile, ma non derogabile», il ddl 813 costituisce perciò «una modifica surrettizia con effetti permanenti». Ma le anomalie non si fermano qui: perché il governo ha nominato una commissione di “saggi” «incaricata di fornire i suoi input nel merito delle modifiche da apportare alla Costituzione »? Come mai gli emendamenti alle proposte di revisione costituzionale possono essere presentati dal governo e dai capigruppo, ma non da un singolo deputato come nella Costituente? Che vuol dire l’art. 4, secondo cui «qualora entro il termine non si pervenga all’approvazione di un progetto di legge costituzionale, il Comitato trasmette comunque un progetto di legge»? Quale progetto di legge, se nessuno è stato approvato? Perché infine (lo hanno incisivamente notato Eugenio Scalfari ed Ezio Mauro) al Comitato è rimesso anche l’esame delle leggi elettorali, come se il Porcellum fosse diventato un pezzo di Costituzione?
Perché tanta fretta, perché tante anomalie? Perché, ci informa la relazione del ddl 813, la Costituzione dev’essere adeguata al «mutato scenario politico, sociale ed economico ». Chi difende la Costituzione com’è pecca di «conservatorismo costituzionale », spiegano Letta-Quagliariello- Franceschini, poiché la forma dello Stato e del governo furono immaginate dalla Costituente «nella temperie della guerra fredda». Questo affondo storiografico è un’impronta digitale, rivela da dove vengono le certezze di chi ci governa: dalla party line, diffusa nell’attardato thatcherismo di ambienti finanziari e imprenditoriali, secondo cui la crisi economica nasce dalle troppe concessioni alle classi meno abbienti. Come ha ricordato Barbara Spinelli in queste pagine (26 giugno), chi ha divulgato questa linea in Italia è Berlusconi, secondo cui la nostra Costituzione «fu scritta sotto l’influsso della fine di una dittatura da forze ideologizzate », è una “Costituzione sovietica”. Ancor più chiaro è il rapporto sull’area euro della società finanziaria J.P. Morgan (28 maggio), secondo cui «all’inizio della crisi, si pensava che i problemi nazionali fossero di natura economica, ma si è poi capito che ci sono anche problemi di natura politica. Le Costituzioni e i sistemi politici dei Paesi della periferia meridionale, sorti in seguito alla caduta del fascismo, hanno caratteristiche non adatte al processo di integrazione economica, (…) e sono ancora determinati dalla reazione alla caduta delle dittature. Queste Costituzioni mostrano una forte influenza socialista, riflesso della forza politica che le sinistre conquistarono dopo la sconfitta del fascismo. Perciò questi sistemi politici periferici hanno, tipicamente, caratteristiche come: governi deboli rispetto ai parlamenti, stati centrali deboli rispetto alle regioni, tutela costituzionale del diritto al lavoro, consenso basato sul clientelismo politico, diritto di protestare contro ogni cambiamento. La crisi è la conseguenza di queste caratteristiche. (…) Ma qualcosa sta cambiando: test essenziale sarà l’Italia, dove il nuovo governo può chiaramente impegnarsi in importanti riforme politiche ».
La finanza internazionale comanda, il governo italiano esegue, come usa alla periferia del mondo. Leggendo il ddl 813 in filigrana sul documento di JP Morgan (un ordine di servizio che viene da lontano), dobbiamo aspettarci un governo più forte e centralizzato, un parlamento più debole, la compressione dei diritti dei lavoratori e di ogni protesta, l’archiviazione dell’antifascismo. Se ciò è contrario alla Costituzione basta cambiarla, e in fretta: perciò, capovolgendo il responso delle urne e le priorità dichiarate, la riforma del Porcellum è stata messa in soffitta, la riforma della Costituzione in corsia preferenziale.
«Ci sarà pure un giudice a Berlino», diceva il mugnaio di Potsdam che arrivò fino al Re di Prussia per avere giustizia. Ci sarà pure a Roma un custode della Costituzione, dicono oggi i cittadini. A chi chiederemo se davvero la crisi economica è un frutto dell’antifascismo? Se per risolverla occorre stravolgere la Costituzione modificando «la forma di Stato e di governo » generata dalla Resistenza? Se dobbiamo rassegnarci a quel che Barbara Spinelli ha chiamato il «giudizio universale» di JP Morgan, a «demolire la Costituzione in nome della cosmica giustizia dei mercati»?
Da La
Repubblica del 28-7-2013
29 luglio 2013
SULLA DITTATURA DEI NEURONI
Si delinea il progetto di decifrare e descrivere l’insieme delle interazioni cerebrali. Ma le difficoltà tecniche restano enormi
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Nel labirinto dei neuroni
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Dal genoma al «connettoma», la mente umana senza segreti
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di Sandro Modeo
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Nel 1986, il grande biologo sudafricano Sydney Brenner pubblica uno studio-spartiacque, la cui versione abbreviata si intitola The Mind of a Worm,
«La mente di un verme». È l’esito di un «corpo a corpo» durato un
quarto di secolo con un nematode trasparente lungo un millimetro, Caenorhabditis elegans,
di cui Brenner e il suo team riescono a descrivere nei dettagli i 302
neuroni e le relative 7.000 connessioni (il suo «connettoma»):
l’intricata rete nervosa che consente al verme di nutrirsi, riprodursi e
fuggire davanti a una minaccia.
Secondo
Sebastian Seung, neurobiologo computazionale del Mit e autore del libro
Connettoma (Codice edizioni), l’impresa di Brenner è solo l’innesco di
un’operazione molto più ambiziosa: riuscire a descrivere e decifrare
l’insieme di tutte le connessioni neurali di un cervello umano; in una
parola, il «connettoma» di ognuno di noi. Integrazione e prosecuzione
del genoma (cioè dei 3 miliardi di nucleotidi che scrivono in ogni
cellula la nostra identità genetica), il connettoma arriverebbe a
mostrarci la mappatura dinamica di ogni stato e processo mentale: non
solo schemi motori e percezioni, ma anche ricordi, fluttuazioni
affettivo-emotive, pensieri complessi, fino a individuare le
«connettopatie» (deficit o anomalie di trasmissione sinaptica) estese
dalle sindromi autistiche a quelle degenerative. Quanto l’obiettivo sia
utopico e remoto, lo riassume la disperante evidenza dei dati, con i 100
miliardi di neuroni del nostro cervello che intessono un miliardo di
sinapsi per millimetro cubo. È una foresta impenetrabile, simile —
chiarisce Seung—non tanto a quelle nordiche, con le loro conifere
uniformi e quasi stilizzate,quanto a quelle tropicali, con la loro varietà frastornante di vegetali.
Per inciso,
questa accensione metaforica (una delle tante impiegate da Seung, spesso
geniali) riassume bene la tonalità di un libro, per così dire, in stile
«Wired», come quelli del guru del nano-tech Eric Drexler, dove i molti
pregi (il coraggio intellettuale e la qualità letteraria) scontano
tuttavia una certa fragilità teorica e una visionarietà a rischio New
Age; confinata per fortuna, nel caso di Seung, agli ultimi due capitoli
sul cyber-sogno di un’immortalità transumana.
Nell’avvicinamento
al connettoma, Seung descrive, come pochi altri neuroscienziati, il
groviglio della foresta e i singoli alberi (i neuroni), con sinapsi e
impulsi elettrici, neurotrasmettitori e recettori a cadenzare un
«respiro» in cui costruzione ed eliminazione (attivazione e inibizione
degli stimoli) coesistono incessantemente. È una modulazione attenuata
della «distruzione creatrice» del neonato, che produce, tra i due e i
quattro mesi, mezzo milione di sinapsi al secondo, poi sottoposte
— secondo il «darwinismo neurale» di Edelman, giustamente richiamato da
Seung — al setaccio di una spietata competizione. In particolare, Seung
riassume questo «respiro» nell’invarianza di «quattro R»: i neuroni
ripesano le connessioni, rinforzandole o indebolendole; si riconnettono,
creando o eliminando sinapsi; si ricablano, facendo crescere o
ritraendo le ramificazioni; e si rigenerano, con nuovi neuroni che
prendono il posto dei vecchi.
Tra gli
esempi delle infinite gradazioni di un simile intreccio
chimico-elettrico troviamo, da un lato, le sinapsi che si rafforzano,
come nella memoria, con i ricordi archiviati e latenti (ripesati) pronti
a essere «espressi» secondo i contesti e le situazioni: vedi il canto
d’amore «cristallizzato» di un uccellino (il diamante mandarino), emesso
con la pulizia di un Cd e con la precisione di «un pattinatore che
esegua sul ghiaccio traiettorie obbligatorie»; o vedi, nell’uomo, la
permanenza del ricordo prolungato della propria identità. Dall’altro,
troviamo invece gli stimoli abortiti e le informazioni soppresse, come
nelle incertezze decisionali: se l’inconscio neurale non provvedesse a
inibire certe catene sinaptiche, saremmo preda di paralisi amletiche. In
sintesi, nell’intreccio sinaptico i silenzi contano quanto i suoni, i
vicoli ciechi quanto le strade imboccate.
Decisivo,
nell’ottica del connettoma, è poi il rapporto tra localizzazione e
plasticità, tra le aree specializzate in precise funzioni (quelle del
linguaggio) e le possibilità che il cervello ne surroghi eventuali
lesioni con un ricablaggio neurale. Dopo discussioni secolari, si è
arrivati a una buona messa a fuoco. È indubbio che il cervello sia più
plastico del previsto, come mostrano i casi di «compensazione» narrati in libri come II cervello infinito
di Norman Doidge (Ponte alle Grazie): ma sono eccezioni, perché la
norma riguarda perlopiù recuperi in età precoce, come mostrano i criceti
neonati (che, privati sperimentalmente della vista, convertono le vie
uditive in visive) o i bambini epilettici sottoposti a resezione
dell’emisfero sinistro, capaci di un recupero del linguaggio —con
riconversione di quello destro—proibitivo per adulti sottoposti allo
stesso intervento. Se ci fosse una plasticità assoluta, si guarirebbe,
per esempio, da ogni forma di ictus; mentre simili shock cerebrali,
sintetizza Seung, sono come l’infortunio di un giocatore in una squadra
di calcio rimasta senza cambi, con i dieci in campo che ridisegnano
tattica e compiti. La cadenza neurale tra costruzione-eliminazione e il
rapporto localizzazione-plasticità sono i veri obiettivi della
«connettomica», sia per illuminare meglio gli alberi e la foresta, sia
per trame nuove vie diagnostico-terapeutiche. Ma si presentano due
ordini di difficoltà.
La prima è
data dai limiti tecnologico-osservativi, descritti da Seung in capitoli
rivelatori. Pur disponendo di risonanze magnetiche (Mri) sempre più
sofisticate, o di «ultra-microtomi» in grado di «affettare» il cervello
in sezioni di 50 nanometri (mille volte più sottili di un capello) da
leggersi poi con microscopi elettronici seriali, non riusciamo ancora a
ricostruire i connettami umani. Ci vorrebbero computer istruiti a
discriminare le immagini (una forma di intelligenza artificiale oggi impensabile)
o strumenti in grado di trasmettere le sequenze del cervello a una
velocità superiore a quella dell’Lhc di Ginevra, che accelera i protoni
portandoli a un miliardo di collisioni al secondo. Al momento, possiamo
limitarci a inquadrare connettomi «regionali», sezioni di un atlante in
divenire.
Il secondo
ordine di difficoltà è concettuale, e coinvolge la prospettiva stessa
del connettoma. È scontato, infatti, che il connettoma sia «più del
genoma» (di cui peraltro è in larga parte l’espressione) e che la sua
decifrazione — fotografando gli esiti della casualità e dell’esperienza
sul cervello, incluso il dialogo dei neuroni con se stessi, cioè
l’introspezione—possa restituirci le pieghe più intime del substrato
biologico dei nostri eventi mentali. Ma Seung, pur descrivendoli molto
bene, sembra sottovalutare i vincoli esercitati a monte dalla selezione
naturale e dalla genetica, che trasmette in eredità tratti e
comportamenti adattativi scremati proprio dalla selezione. Lo vediamo
bene nelle neuropatologie. Molte «connettopatie» indagate da Seung (si
tratti di anomalie morfologiche o di interazione sinaptica, dalle
microcefalie all’autismo) sono infatti l’esito di errori di copiatura
del Dna (mutazioni), con cui la vita si diversifica per affrontare ogni
tipo di pressione ambientale. Alla radice, cioè, molte patologie del
cervello (specie le più gravi) sono il prezzo individuale da pagare a
dinamiche adattative della specie, e più in generale del vivente. E lo
stesso vale per molte malattie neurodegenerative, le cui evidenze
genetiche hanno spinto la ricerca verso la genomica e la medicina
rigenerativa.
Non c’è
dubbio che il dispiegarsi del connettoma — se e quando possibile—aprirà
molte porte e spalancherà nuovi paesaggi. Ma intanto, ricordarsi di quei
vincoli non significa negare le incidenze ambientali/culturali
sull’identità e la malattia, o abbracciare un determinismo tirannico.
Significa solo, in attesa di mappe migliori, non perdere contatto col
territorio.
.
L’autore
Esce in
libreria il 1 agosto il saggio di Sebastian Seung «Connettoma. La nuova
geografia della mente» (traduzione di Silvio Ferraresi, Codice
edizioni, pagine 386, € 15,90) L’autore, americano di origini coreane,
insegna al Mit di Boston. I suoi lavori sono usciti sulle maggiori
riviste scientifiche
La formula
Il termine
«connettoma» è stato coniato nel 2005 dal neuroscienziato tedesco Olaf
Spurns, dell’indiana University. Sull’argomento, lo studioso italiano
del King’s College Marco Catani ha pubblicato con Michel Thiebaut de
Schotten «Atlas of Human Brain Connections» (Oxford University Press,
2012)
Corriere della Sera – la Lettura
28 luglio 2013
.
DIETOLOGIE IERI E OGGI
Dietologie. I greci e la modica quantità
Così con il cibo si sconfigge l’hybris. Da Aristotele a Plutarco il mangiare sostenibile è segno di civiltà e ideale politico
.
Marino Niola
.
È l’uomo a fare la dieta o è la dieta a
fare l’uomo? È vera la seconda. Perché l’umanità nasce nel momento in
cui inventa il suo regime alimentare. Come dire che homo sapiens e homo
edens sono la stessa persona. Mentre i nostri antenati pre-umani si
comportavano come animali e mangiavano quel che offriva madre natura.
Sostanzialmente carne cruda e vegetali. Un menù per individui forti, ma
letale per i più deboli. Ed è proprio il fatto di scegliere cosa, come e
quanto mangiare a far evolvere la specie. Insomma siamo a dieta da
sempre. Molto prima che arrivassero i Dukan, Messegué, Atkins, Oshawa. E
gli innumerevoli profeti del benessere che oggi dispensano ammonimenti,
comandamenti e suggerimenti. Aglio olio e sermoncino.
In realtà non abbiamo inventato nulla che
gli antichi non sapessero già. Senza la moderna nutraceutica, ma in
compenso dall’alto di una superiore concezione dell’uomo e del suo posto
nella natura e nella società. Così, se noi consideriamo la dietetica
una parte della medicina, per il grande Ippocrate invece è il contrario.
È la medicina a esser parte della dietetica. Semplicemente perché dare a
ciascuno il cibo che serve a tenere in equilibrio corpo e anima è il
primo e indispensabile presupposto di ogni cura. Il celebre motto
ippocratico «il cibo sia la tua terapia e la tua terapia sia il cibo» è
giunto fino ai nostri giorni come leit motif di un’etica dietetica.
Proclamata a chiare lettere nel primo punto del rituale giuramento di
Ippocrate, in cui i medici promettono ad Apollo, Asclepio, Igea e
Panacea, i numi tutelari della loro arte, di regolare la dieta per il
bene dei malati. Dove però la parola diaíta non significa
semplicemente modo di mangiare ma forma di vita. Ed è qui la differenza
con la nostra idea di regime alimentare. Che per lo più si risolve in un
controllo meramente quantitativo delle calorie, del peso e delle
misure. Laddove i Greci parlano di vita, noi riduciamo tutto a girovita.
Ecco perché le privazioni che ci infliggiamo per avere il ventre piatto
e gli addominali a tartaruga spesso non producono altro se non
frustrazione e depressione, anoressia e bulimia.
Pericoli che gli antichi intravvedono benissimo. Tant’è vero che nelle Epidemie,
un importante testo ippocratico, si cita come esempio estremo di
accanimento salutistico, il caso quasi mostruoso di Eradico. Che
costringeva i suoi pazienti a fare jogging anche con la febbre, li
sfiancava con incontri di lotta e li estenuava con bagni di vapore che
li prosciugavano. Magri e scattanti ma spesso agonizzanti. E lui stesso
era il primo a imporsi questa disciplina dissennata, fatta di poco cibo e
moltissima palestra. Senza il minimo strappo alla regola, nemmeno il
più innocente peccato di gola. Finendo per condurre una vita da
moribondo in perfetta salute. Un antenato di quegli ayatollah della
leggerezza che oggi vivono da malati per morire sani.
Platone, nemico di ogni eccesso,
rimprovera a questo tipo di ortoressici un’attenzione esagerata al
proprio corpo che li rende un inutile peso per la polis. Su questo
l’autore della Repubblica non ha dubbi. Le diete non servono a
prolungare la vita all’infinito né a produrre highlander performanti e
superdotati. Ma a essere felici, operosi e in possesso del giusto
equilibrio psicofisico. Che non dipende dall’applicazione pedissequa di
format nutrizionali, come facciamo spesso noi, quando ci proponiamo di
perdere sette chili in sette giorni. Ma è il risultato di un circolo
virtuoso. Fatto di conoscenza di sé e dei propri limiti. L’effetto di un
negoziato tra bisogni e desideri, tra prevenzione e soddisfazione. È in
questo senso che la massima socratica «conosci te stesso» va letta
anche alla luce dell’idea platonica della cura di sé. Intesa prima di
tutto come capacità di leggere e di ascoltare il proprio organismo, di
decifrarne i segnali. E di conseguenza stabilire ciò che è bene e ciò
che è male per la salute di ciascuno. Per questo, secondo Platone, un
cittadino responsabile è il miglior medico di se stesso. Nessun luminare
può saperne di più e meglio dell’interessato. Siamo a distanza siderale
da quell’idea anfetaminica della forma fisica che oggi chiamiamo
fitness. E dalle tante mode alimentari rilanciate dai guru della
nutrizione. Queste sarebbero state considerate delle forme di dietologia
per schiavi dagli Ateniesi dell’età di Pericle. Che non a caso
distinguono due tipi di medici. Quelli per gli uomini liberi, che
dialogano e negoziano le prescrizioni con il malato. E quelli per gli
schiavi, che impongono ricette e ordinano regimi come dogmi
indiscutibili.
Se dunque i Greci non amano gli eccessi,
non è certo per sudditanza al diktat della magrezza. Ma per una ragione
sociale e politica. Perché abbuffarsi è il segno di una dismisura
disdicevole. Una hybris sempre stigmatizzata, sia sul piano
morale che su quello fisico. Perché a fare gli uomini è proprio la
misura, la regola. Gli appetiti sregolati sono tipici dei bruti e delle
bestie. Come Polifemo che non a caso mangia come un maiale e beve fino a
ubriacarsi. E come Erissíttone, mitico re della Tessaglia, che dopo
aver letteralmente divorato tutti gli averi di famiglia, vende perfino
sua figlia in cambio di cibo. E alla fine mangia se stesso per placare
la sua voracità bulimica. E perfino l’etimologia della parola bulimia—da
boûs bue e limós fame—fa capire che gli antichi
considerano le grandi abbuffate un comportamento antisociale. Un
aggiotaggio delle risorse politicamente scorretto. Molto meglio una
dieta sobria ed equilibrata. Come quelle suggerite da Socrate e dal
neoplatonico Porfirio, pane, miele, olio, frutta, verdura, legumi,
formaggio. Pochissima carne, poco pesce. E una modica quantità di vino
che fa volare il pensiero.
Insomma mangiare di tutto un po’ aiuta a
mantenere peso e forma stabili. Evitando le dannosissime diete yo-yo,
che fanno male alla salute e alla condotta, su questo sono tutti
concordi. Da Aristotele a Galeno, da Pitagora a Plutarco. È un mangiare
sostenibile che diventa contrassegno di civiltà. Critica culturale e
ideale politico. Con qualche millennio di anticipo sulla nostra
abbondanza frugale.
1-continua
* * *
la Repubblica lunedì 29 luglio 2013
.
Dietologie. Quello che passa il convento
Perché la religione vuole il digiuno
purificatore. Cristiani, ebrei, musulmani e anche induisti tutti sono
chiamati all’astensione rituale dal cibo come penitenza e momento di
iniziazione
Marino Niola
.
Più che
sulla bilancia il cibo pesa sulla coscienza. Lo dimostrano le privazioni
cui ci sottoponiamo da millenni. In principio per la salvezza
dell’anima, oggi per la salute del corpo. Una volta in nome di dio,
adesso in nome dell’io. Ma al di là delle motivazioni, spesso gli
argomenti e i comportamenti si somigliano in maniera sorprendente. Certo
è che da che mondo è mondo religione fa rima con restrizione. Penitenza
con astinenza. Magrezza con purezza.
Ne erano
arciconvinti i Padri della Chiesa, come Tertulliano che considerava il
digiuno un passaporto per la vita eterna. Di fatto il moralista di
Cartagine trasforma peso e taglia in misure spirituali. Sostenendo che i
corpi superslim passano più agevolmente per la porta del Paradiso, che è
notoriamente stretta come la cruna di un ago. Oltretutto, se si è molto
leggeri, il giorno del giudizio la resurrezione della carne sarà
rapida.
E non era
da meno sant’Atanasio, per il quale «il digiuno guarisce le malattie,
libera il corpo dalle sostanze superflue, scaccia i demoni, espelle i
cattivi pensieri, purifica il cuore». Insomma depura l’anima e redime la
carne. Come dire che l’Onnipotente è il supremo dietologo dell’umanità e
allontanarsi dalle sue prescrizioni non solo nuoce gravemente alla
salute ma è anche di ostacolo alla salvezza. Non a caso san Tommaso
d’Aquino nella Summa Teologica teorizza la necessità di
eliminare dal regime del buon cristiano tutti quei bocconi prelibati che
danno piacere e predispongono al peccato. Perché appetito e desiderio
sono due facce della stessa medaglia. Lo diceva anche Platone,
cinquecento anni prima del Cristianesimo, quando considerava copule e
crapule, “etère e manicaretti”, due bombe a tempo per la Repubblica. E
in fondo dall’antica cena di Trimalcione ai più recenti Bunga Bunga
corre un lungo filo rosso che unisce letti e tavole. E questo resta vero
perfino in una società apparentemente secolarizzata come la nostra. A
dirlo è l’antropologa femminista Elspeth Probyn dell’Università di
Sidney nel suo Carnal Appetites: Foodsexidentities che
individua negli chef televisivi – come Gordon Ramsey, Jamie Oliver e
Carlo Cracco – i sex symbol del nostro tempo proprio in quanto
dispensatori di piaceri, ancorché alimentari.
Su questa
linea rigorista sono sempre state d’accordo tutte le religioni,
monoteiste e non solo. Se gli antichi Greci erano tenuti ad astenersi
dal cibo per prendere parte ai Misteri Eleusini e a quelli Orfici, i
Farisei non mangiavano per ben due giorni alla settimana, il lunedì e
giovedì. Gli Ebrei invece praticano l’astinenza in occasione dello Yom
Kippur, il giorno dell’Espiazione. Mentre i Musulmani lo fanno durante
il periodo del ramadan, quando la doppia rinuncia, alimentare e
sessuale, purifica l’uomo eliminando i principali fattori di corruzione
spirituale e di contaminazione fisica. E nell’Induismo, come diceva
Gandhi, non c’è preghiera senza digiuno.
Stare a
stomaco vuoto diventa una sorta di misura immunitaria e al tempo stesso
iniziatica. Una sacra quarantena. Come quella di Pitagora che per
quaranta giorni non tocca neanche una foglia d’insalata alla vigilia del
suo viaggio in Egitto per compiere il suo percorso sapienziale di
pensatore-guaritore. Idem per Mosè che resta a bocca asciutta “quaranta
dì e quaranta nott” – per dirla con il grande Enzo Iannacci – prima di
ricevere le Tavole della legge. E ripete la dieta quando si prepara a
distruggere il vitello d’oro. Stessa durata ha il digiuno di Gesù nel
deserto e quello di san Francesco prima di dettare la frugalissima
regola del suo Ordine. Mendicante e rinunciante. Al punto da vietare ai
confratelli di possedere terra da coltivare, scorte in dispensa e
cantine piene. Un tantino più concessivi i laboriosi Benedettini, i
pazienti Certosini e i sapienti Domenicani che in ogni caso devono
accontentarsi di quel che passa il convento. E comunque nei monasteri
tirare la cinghia è un atto di devozione quotidiana, a metà tra terapia e
liturgia.
Insomma il
minimo comune denominatore di tutti questi stenti e patimenti è che
diminuire il peso del cibo compensa quello eccedente dei peccati. Una
bilancia metà fisica che mette su un piatto la carne e sull’altro lo
spirito. La sacralizzazione di un principio dietologico. Come dire che
il drenaggio del corpo elimina le tossine dell’anima. E rende buoni,
puliti e giusti. Più adatti all’incontro con Dio. È per questo che i
cristiani osservano il cosiddetto digiuno eucaristico prima della
comunione. E per la stessa ragione le grandi sante, Caterina da Siena,
Chiara d’Assisi, Teresa d’Avila, sono passate alla storia per il loro
ascetismo estremo. Che trasforma le privazioni in un superamento dei
limiti del corpo. Il celebre storico americano Rudolph Bell, professore
all’Università del New Jersey, ha parlato di “santa anoressia”. Una
volta la chiamavano anorexia mirabilis, cioè miracolosa, quasi fosse opera divina. È questo il modello cui si ispirano le cosiddette fasting girls,
le ragazze inappetenti che nell’Inghilterra vittoriana trasformano il
digiuno in un gesto di contestazione dell’ordine patriarcale. Una sorta
di femminismo alimentare che svuota letteralmente il loro corpo per
renderlo inadatto alle funzioni e alle mansioni cui sarebbe destinato.
Come dire che se la società maschilista vuole chiudere la bocca alle
donne, loro non la aprono neanche per mangiare. Facendo di questo
singolare sciopero della fame la fragorosa rottura di un format etico ed
estetico. Così la privazione si smarca dalla religione. E lascia il
campo alla medicina, alla politica, all’estetica. E alla dietetica. Che
fa dell’astinenza un cammino di salvezza terrena, una forma di ascetismo
secolarizzato. Un decalogo della wellness. Fatto di comandamenti
igienisti e di fioretti laici. Che trasformano ancora una volta il cibo
in un campo di battaglia tra bene e male, mascherati da salute e
malattia. Esasperando il culto del benessere fino a farne una forma di
penitenza, con il Bio al posto di Dio. È quel che facciamo un po’ tutti
noi quando ricorriamo al tè verde come esorcismo e alla prugna umeboshi
come vade retro. Rischiando qualche volta di vivere da malati per morire
sani.
2-continua
Da la Repubblica sabato 27 luglio 2013
.
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