07 luglio 2013

GIOVANNI FIANDACA SULLA TRATTATIVA STATO-MAFIA








 Si è svolto l'altro giorno allo Steri un interessante confronto tra studiosi diversi sulla controversa presunta trattativa Stato-Mafia. Tra gli intervenuti c'era anche il Prof. Giovanni Fiandaca, ordinario di diritto penale all' Università di Palermo. 
Il nostro punto di vista è diverso da quello di Fiandaca. Ma questo non ci impedisce di leggere un suo recente saggio sull'argomento, ripreso oggi dal sito www.minimaetmoralia.it:

GIOVANNI FIANDACA - SULLA COSIDDETTA TRATTATIVA STATO-MAFIA

  
1. Premessa
La vicenda giudiziaria relativa alla cosiddetta trattativa Stato-mafia, assai nota anche per l’ampia copertura ricevuta dai media, offre lo spunto per riflessioni che si collocano su piani diversi e, in parte, convergenti. Ci sono ragioni per considerare tale vicenda come una sorta di metafora emblematica di una serie di complesse, e per certi versi patologiche, interazioni tra un certo uso antagonistico della giustizia penale, il sistema politico-mediatico e il tentativo di fare maggiore chiarezza, sotto l’aspetto storico-ricostruttivo, su alcuni nodi assai drammatici della nostra storia recente. Da questo punto di vista, non si rinnova soltanto, con toni forse ancora più enfatizzati, quel conflitto fra politica e giustizia che nell’ultimo ventennio ha disturbato il funzionamento della democrazia italiana. Nello stesso tempo, a tornare in discussione è l’interrogativo di fondo circa gli scopi del processo penale, come pure il connesso problema relativo al ruolo della magistratura, considerato anche nella percezione soggettiva che ne hanno in particolare alcuni magistrati d’accusa molto combattivi e pubblicamente esposti.
Ci sono sul tappeto, inoltre, impegnative questioni tecnico-giuridiche che hanno a che fare con quella che dovrebbe costituire la normale premessa di una indagine, prima, e di un processo penale, dopo: cioè la previa individuazione di plausibili figure di reato. Questo è in realtà un punto non controvertibile, ma nel caso della trattativa probabilmente trascurato – o non sufficientemente lumeggiato – specie nell’ambito della comunicazione mediatica. Si è, invero, assistito ad un insistente bombardamento televisivo accreditante l’idea della trattativa come un crimine gravissimo. Ma, se questo è il messaggio più o meno confusamente arrivato al grosso pubblico, le cose stanno in verità alquanto diversamente sul piano dell’ipotesi accusatoria formulata dai pubblici ministeri. L’organo dell’accusa, muovendo pregiudizialmente da un giudizio di grave disapprovazione etico- politica della presunta trattativa, si è infatti imbattuto – come meglio vedremo in seguito – in una oggettiva difficoltà tecnica: nella difficoltà cioè di trasporre questa ‘precomprensione’ in una cornice criminosa idonea a coinvolgere insieme, avvinti anche simbolicamente come complici di un medesimo delitto, boss mafiosi e membri delle istituzioni. Da qui la ricerca, nella complessa e oscura trama delle vicende oggetto di giudizio, di qualche momento o frammento fattuale che fosse suscettibile di assumere parvenze di illecito penale; una ricerca tutt’altro che semplice, come è confermato dal fatto che altri uffici giudiziari (in particolare di Firenze e Caltanissetta) che si sono occupati delle medesime vicende nel più ampio contesto delle indagini sulle stragi, non hanno ritenuto di ravvisare ipotesi di reato tecnicamente gestibili.
Nonostante la difficoltà dell’impresa, i pubblici ministeri palermitani – coordinati dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia – si sono spinti fino ad oltrepassare la soglia dinanzi alla quale i colleghi di altre sedi si sono arrestati: la tesi accusatoria, infine escogitata dalla procura di Palermo, ipotizza che alcuni specifici momenti della cosiddetta trattativa configurino un concorso criminoso nel reato di violenza o minaccia a un corpo politico (art 338 c.p.).
Ipotesi plausibile in termini tecnico-giuridici?
2. Una vicenda storico-politica molto complessa e ambigua, suscettibile di valutazioni non univoche (anche alla luce del principio della divisione dei poteri)
Non è questa la sede per ricostruire in dettaglio l’insieme eterogeneo dei fatti suscettibili di essere ricondotti sotto l’etichetta di una ‘trattativa’, o di più ‘trattative’ che sarebbero intercorse fra la mafia e lo Stato nei primissimi anni Novanta dello scorso secolo: con il duplice obiettivo – secondo l’ipotesi ricostruttiva dell’accusa – di un ‘ammorbidimento’ della strategia di contrasto della
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criminalità mafiosa (grazie, ad esempio, ad una attenuazione del rigore carcerario per i condannati sottoposti al regime di cui all’art 41 bis ord. penit.) e, più in generale, della stipula di un nuovo patto di convivenza, di una nuova intesa compromissoria tra Stato e Cosa nostra (nel solco, peraltro, di una tradizione storica di ‘non belligeranza’ risalente al secondo Ottocento). In sintesi, l’ipotesi storico-ricostruttiva privilegiata dal gruppo di pubblici ministeri guidati da Antonio Ingroia – ribadita in scritti o interviste dello stesso Ingroia e, altresì, recepita nell’ambito di una letteratura saggistica ‘fiancheggiatrice’ (1) – è riassumibile nel modo seguente.
Dopo la conferma in Cassazione il 30 gennaio 1992 delle pesanti condanne inflitte dai giudici del maxiprocesso, la quale ha avuto l’effetto di mettere in crisi, anche simbolicamente, la tradizionale impunità dei boss, Cosa nostra avrebbe reagito ideando e in parte realizzando un programma stragista avente come fine ultimo la ricostruzione di un rapporto di pacifica convivenza tra il sottomondo mafioso e il mondo politico-istituzionale: le stragi costituivano, in questa prospettiva, uno strumento necessario per piegare psicologicamente il ceto politico di governo, nel senso di indurlo a desistere da una lotta a tutto campo contro la mafia, in vista di nuove intese basate sulla vecchia logica della reciprocità dei favori. Secondo fonti informative di matrice segreta, questo piano stragista – iniziato con l’omicidio del parlamentare siciliano Salvo Lima nel marzo del 1992 – prevedeva l’uccisione di importanti uomini politici come Giulio Andreotti, Claudio Martelli, Calogero Mannino e altri: tutti colpevoli di aver voltato le spalle a Cosa nostra, di averla tradita e di non aver mantenuto le promesse di ‘aggiustamento’ del maxiprocesso presso la Corte di Cassazione. È in questo fosco e angosciante orizzonte, denso di mortali minacce incombenti e nello stesso tempo imprevedibili, che nascerebbe l’iniziativa dei carabinieri del ROS – sollecitata, secondo la prospettazione accusatoria dei pm, da uno dei politici minacciati (cioè Calogero Mannino) – di contattare l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino come possibile tramite di comunicazione con il vertice mafioso corleonese. Questa presa di contatto sfociata in più incontri, e
ammessa peraltro nel corso delle indagini dagli stessi ufficiali dei carabinieri (Mori e De Donno) che ne sono stati protagonisti, avrebbe avuto uno scopo esplorativo finalizzato a tentare qualche strada per far desistere la mafia dal portare a termine le azioni criminali programmate. In termini più espliciti: tastare il terreno per verificare cosa i capi-mafia potessero richiedere e cosa lo Stato, dal canto suo, potesse ragionevolmente ‘concedere’ per bloccare le minacce stragiste.
Quanto fin qui succintamente accennato delinea lo scenario complessivo in cui si colloca la cosiddetta trattativa Stato-mafia, nel cui ambito – come si è anticipato – i pubblici ministeri palermitani hanno ritenuto di poter ravvisare, a carico dei protagonisti coinvolti (da un lato boss mafiosi, dall’altro ufficiali dei carabinieri e uomini politici), un’ipotesi di concorso criminoso nel reato di cui all’art. 338 c.p. . Ma, prima di entrare nel merito di questa specifica contestazione, siano consentite alcune considerazioni a carattere preliminare, che hanno a che fare con la logica della divisione dei poteri istituzionali.
La prima considerazione da cui prendere le mosse, e che potrebbe anche apparire superfluo esplicitare, è questa: il perseguimento dell’obiettivo di far cessare le stragi, in sé considerato, mai potrebbe essere giuridicamente qualificato come illecito; al contrario, esso può apparire doveroso sotto un profilo sia politico che giuridico. E, in base al principio della divisione dei poteri, compete al potere esecutivo e alle forze di polizia ricercare le strategie di intervento necessarie a prevenire la commissione di atti criminosi o a interromperne la prosecuzione. Senza che, peraltro, la legittimità di tali interventi possa considerarsi condizionata a forme di preventiva autorizzazione o di preventivo assenso da parte dell’autorità giudiziaria. A maggior ragione in momenti di grave e drammatica emergenza, connotati da un diffuso e imprevedibile rischio stragista (come furono, appunto, quelli vissuti nel ’92-’93) rientra nella discrezionalità politica del governo valutare i pro e i contro, in termini di bilanciamento costi-benefici, della scelta di fare eventuali ‘concessioni’ ai contropoteri criminali in cambio della cessazione delle aggressioni mortali.
Posto che una simile scelta politica risulterebbe – piaccia o non piaccia – penalmente non censurabile (tranne, ovviamente, che si incorra in violazioni palesi e in ogni caso ingiustificabili della legalità penale), sembra per questa stessa ragione difficile ipotizzare che ricadrebbe in un’area di illiceità penale il comportamento di quanti a vario titolo, sul versante politico-istituzionale, prestano un contributo alla realizzazione di iniziative finalizzate ad arginare la violenza mafiosa. Ma in proposito i magistrati della procura di Palermo manifestano un convincimento contrario, cioè incline alla criminalizzazione di quegli esponenti politico-istituzionali che avrebbero avuto un ruolo nel favorire la presunta trattativa (o le presunte trattative). Assai verosimilmente, una simile propensione criminalizzatrice muove – come già accennato – da una ‘precomprensione’ etico- politica (ed ancor prima emotiva) orientata nel senso di una assoluta disapprovazione: sino al punto di avvertire ogni ipotesi di possibile trattativa come una eventualità da far «rabbrividire» (2). In questa ottica di incondizionata condanna politica e morale, il rispetto del principio costituzionale della divisione dei poteri non trova alcuno spazio; e l’unica legalità possibile finisce con l’essere quella ritagliata sul modello di una lotta alla mafia che vede come unica istituzione competente la magistratura, stigmatizzando come interferenza illecita ogni intervento autonomo di ogni altro potere istituzionale. Sulla base di questi presupposti, implicitamente diventa dunque la magistratura l’unico organo depositario del potere di stabilire cosa competa (o non competa) al governo e agli organi di polizia per salvaguardare anche in forma preventiva l’ordine pubblico, fronteggiando il rischio di future aggressioni criminali. Ogni deviazione da questo schema, oltre ad essere censurabile sul piano etico-politico, non potrebbe non risultare altresì sindacabile alla stregua di una legalità penale concepita però – come vedremo – in un’ottica più ‘sostanzialistica’, che rispettosa dei vincoli formali della tipicità delle fattispecie incriminatrici.
È vero che si potrebbe a questo punto obiettare che l’enfasi fin qui posta sul principio della divisione dei poteri non tiene conto di un dato: cioè che le iniziative volte a venire in qualche modo a patti con Cosa nostra, lungi dall’essere deliberate in forma ufficiale dal governo, sarebbero state realizzate in maniera occulta, e avrebbero avuto, per di più, come presunti registi o interlocutori personaggi politici che avevano anche un interesse egoistico a salvare la propria pelle (come, ad esempio, nel caso emblematico di Calogero Mannino, che rientrava nel novero dei politici direttamente minacciati di morte) o, comunque, a ripristinare rapporti di interessata convivenza con la mafia (come sarebbe stato il caso di Marcello Dell’Utri, anche nel ruolo di fondatore della nascente “Forza Italia” e dunque di possibile collegamento politico con Silvio Berlusconi). Ora, che elementi di forte ambiguità e interessi non sempre nobili abbiano contribuito a rendere meno chiaro e trasparente lo scenario trattativista, è molto verosimile. Ma ciò basta a modificare il carattere di intrinseca liceità (se non di doverosità) dei tentativi di arginare il rischio stragista , trasformando i negoziatori istituzionali in una cricca privata in combutta con la mafia per il perseguimento di interessi egoistici e ignobili?
Verosimilmente, non basta. Che il contesto trattativista abbia presentato, nonostante tutto, momenti inevitabili di coinvolgimento dei piani alti delle istituzioni, sono gli stessi autori dell’indagine giudiziaria a metterlo in evidenza, a cominciare dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia, il quale espressamente sostiene: «Appena la trattativa viene avviata la necessità di salvare i politici (e con essi si ha la pretesa di salvare la repubblica) assume una grande rilevanza istituzionale, e lo Stato si attiva per rimuovere tutti i possibili ostacoli al riguardo»(3). Ma, se così si dà per scontato un impegno dello Stato in quanto tale, per altro verso ignoranza e incertezza tornano a prevalere rispetto sia all’esistenza di una regia unitaria dei tentativi di accordo con la mafia, sia all’individuazione di tutti i co-protagonisti impegnati nelle corrispondenti attività preparatorie. In base agli elementi di conoscenza disponibili, sembrano consentite soltanto congetture o ipotesi. Tra queste, quella di una entrata in campo dei servizi di sicurezza unitamente a un intervento dell’allora capo della polizia Parisi, il quale avrebbe – a sua volta – ricercato e rinvenuto «un’autorevole sponda istituzionale» nel Presidente della Repubblica Scalfaro. E si sospetta un possibile ruolo proprio del Presidente Scalfaro nel far sì che Giuliano Amato, da lui incaricato nel giugno del 1992 di formare un nuovo governo, sostituisse i precedenti ministri dell’interno e della giustizia Scotti e Martelli (mostratisi troppo combattivi contro la mafia) con i nuovi ministri Mancino e Conso, considerati più disponibili ad allentare il rigore antimafioso(4).
A ben vedere, ipotesi ricostruttive di questo tipo confermerebbero in realtà che, pur in un quadro poco chiaro da arcana imperii, ci si è comunque trovati di fronte a scelte politico-discrezionali imputabili a soggetti istituzionali in qualche modo e misura competenti, ancorché operanti in modo poco trasparente. Ma, se di opzioni politico-istituzionali pur sempre riconducibili ad organi competenti ad adottarle si è davvero trattato, ancora una volta non si vede – appunto – come si possa pretendere di esercitare un sindacato penale con riferimento anche alle sole attività preparatorie che hanno precostituito il terreno favorevole ad un esercizio di discrezionalità politico- governativa pro-negoziato.
Rimane, peraltro, da chiedersi a questo punto quali concessioni lo Stato abbia in concreto finito col fare all’esito del tortuoso percorso trattativista, e quali effettivi vantaggia ne abbia tratto Cosa nostra. Proprio in un’ottica di risultato, quel che rimane sfumato e che i pubblici ministeri non si sono sforzati di chiarire è se i diversi approcci finalizzati allo scellerato patto abbiano prodotto frutti sostanziosi, o siano rimasti allo stadio di tentativi privi di esiti tangibili (5). Per quanto se ne sa, se c’è un beneficio concreto che la mafia ha conseguito, questo viene dall’organo dell’accusa individuato nella revoca di alcuni provvedimenti ex art. 41 bis ord. penit. disposta dal ministro della giustizia Giovanni Conso nell’anno 1993 nei confronti di circa trecento mafiosi di livello però tutto sommato modesto. Non risultano, per il resto, altre forme di cedimento riconducibili a decisioni del governo o di suoi esponenti. La montagna ha dunque partorito un topolino? Tanto rumore per nulla? Ma, per comprendere meglio il senso complessivo dell’impostazione accusatoria dei pubblici ministeri, bisogna in realtà compiere un passo indietro e spiegare anche la intrigante genesi dell’indagine giudiziaria sfociata infine nella richiesta di rinvio a giudizio per i presunti protagonisti della trattativa.
3. Un passo indietro: l’ambiziosa inquisitio generalis sui “sistemi criminali integrati”
L’indagine predetta ha come retroterra una cornice investigativa ben più ampia e ambiziosa, intitolata dagli stessi pubblici ministeri «sistemi criminali» . Questa insolita e curiosa intitolazione faceva riferimento ad una investigazione dai confini assai estesi – una vera e propria inquisitio generalis, che andava alla ricerca di (assai più di quanto non prendesse le mosse da) ipotesi specifiche di reato – incentrata, precisamente, su di un lungo arco temporale che partiva dalla seconda metà degli anni Ottanta e giungeva quasi alla fine degli anni Novanta , includendo dunque fasi antecedenti e successive alle stragi mafiose: l’intuizione di fondo sottostante a questa grande indagine (poi, invero, sfociata in diversi provvedimenti di archiviazione) consisteva nell’idea di un intreccio e di una interazione tra un sistema criminale mafioso e un sistema criminale non mafioso, costituito da «massoneria deviata, finanza criminale, destra eversiva e frange dei sevizi segreti» (6). Questa coesistenza di sistemi criminali diversi avrebbe avuto alla base, più che un’unica regia, una «convergenza di interessi» in vista del comune obiettivo di «rifondare il rapporto con la politica». Sicché, pur trattandosi di entità criminali autonome, si sarebbe assistito ad una oggettiva confluenza e integrazione di più sistemi criminali in un unico sistema criminale complesso. In questo tessuto composito, avrebbero rivestito un ruolo-chiave di elementi di collegamento uomini-cerniera come Marcello Dell’Utri (7).
Per completare il quadro, rimane a questo punto da aggiungere che, nella visione dei pubblici ministeri, una funzione decisiva sarebbe spettata alla nascita e all’affermazione del nuovo soggetto politico rappresentato da “Forza Italia”. Nel senso che questa forza emergente avrebbe finito per interpretare, facendosene carico, quella esigenza di rinnovato compromesso tra politica e poteri criminali che la strategia stragista aveva violentemente manifestato a suon di bombe. Non a caso, l’iter argomentativo sviluppato fino in fondo dai pubblici ministeri perviene alla conclusione che la strategia stragista della mafia si sarebbe infine arrestata, per il progressivo esaurimento delle sue ragioni ispiratrici, proprio con l’avvento del governo berlusconiano: il quale, secondo questa suggestione accusatoria, avrebbe infatti assolto la funzione di dare rappresentanza o di fornire copertura legale a interessi criminali di natura eterogenea ma convergente. E, in questo quadro ricostruttivo a tinte assai fosche, ha perfino fatto capolino il sospetto di un possibile coinvolgimento nelle azioni stragiste del ’93-’94 ( di Roma, Firenze e Milano) degli stessi Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. Un’ipotesi accusatoria così enorme, infine archiviata (8), aveva in origine una sua autentica plausibilità o era soprattutto frutto di un pregiudizio demonizzante? In effetti, a meno di cedere a una incoercibile tentazione di leggere gli eventi secondo un’ottica omnicriminalizzatrice, non sembrano esservi motivi oggettivamente forti per supporre che il passaggio dal vecchio assetto di potere basato sulla DC a quello nuovo (impersonato da Berlusconi) avesse bisogno di stragi come condizione necessaria del suo compimento(9).
Non c’è, forse, bisogno di essere storici o politologi di professione per diagnosticare nel tipo di narrazione sviluppata dalla magistratura requirente un eccesso (per dir così) di precomprensione ‘mafiocentrica’ e, più in generale, criminalizzatrice. L’arco temporale di storia italiana fatta oggetto di inquisitio generalis nell’abito dell’indagine sui «sistemi criminali» può essere davvero ricostruito in una chiave penalistica, così finendo col trascurare la complessità e l’eterogeneità dei fattori di contesto che contribuivano a spiegare, in questo come del resto in quasi tutti i periodi storici, l’avvicendamento delle forze politiche al potere e dei relativi protagonisti? La tentazione giudiziale di rileggere le dinamiche storico-politiche del nostro paese come se la loro chiave di volta fosse da rinvenire nell’influenza soverchiante esercitata dai poteri criminali riflette, verosimilmente, una tendenza semplificatrice frutto di una sorta di deformazione professionale tipica della magistratura più impegnata sul fronte dell’antimafia. Si tratta, del resto, di forzature interpretative già stigmatizzate da valorosi storici di professione (come Salvatore Lupo), i quali mettono criticamente in guardia dalla facile propensione a dare per scontato l’intervento di poteri e mandanti occulti (mai peraltro provato in sede giudiziaria) e a congetturare legami sistemici tra questi poteri e l’universo mafioso(10). In proposito, è stato significativamente osservato proprio da Salvatore Lupo: «Continuo a non capire, per fare un esempio, per quale ragione i grandi poteri affaristico-politici, spesso chiamati in causa avrebbero dovuto affidare a Cosa nostra il mandato per la strage degli Uffizi». Sarebbe fin troppo facile, proseguendo nella critica alla tendenza giudiziale ad evocare perversi quanto indefiniti intrecci tra poteri criminali ed entità occulte (servizi segreti, massoneria deviata, finanza criminale et similia), avanzare il sospetto che neppure i magistrati dell’accusa siano immuni da quella sindrome nota come “ossessione del complotto”, che incessantemente alimenta – di epoca in epoca – le teorie cosiddette cospirative della storia: le quali tendono a spiegare avvenimenti che hanno cause plurime e complesse, e perciò difficili da individuare, come se fossero appunto frutto di diabolici disegni e di strategie unitarie nelle mani di Signori del male o del crimine (12).
Comunque sia, è forse superfluo a questo punto esplicitare che, agli occhi di un giurista sensibile ai principi, un’indagine giudiziaria di così grande ampiezza come quella incentrata sui «sistemi criminali» non può non apparire poco ‘ortodossa’ (s non proprio abnorme). Sarebbe quindi il caso che vi soffermassero la loro attenzione critica gli studiosi del processo penale, e ciò allo scopo di verificare i limiti di compatibilità di imprese investigative di tale vastità con le regole che disciplinano il processo penale nell’attuale ordinamento. Che in proposito potesse sorgere qualche problema non è certo sfuggito ad un esperto magistrato dell’accusa come Antonio Ingroia, il quale ha a questo riguardo ammesso: «Era un’indagine molto ambiziosa, che spingeva fino al limite le potenzialità dello strumento della giurisdizione penale. E forse anche per questo non siamo riusciti ad arrivare fino in fondo con un processo. Occorreva trovare prove concrete nei confronti di persone determinate rispetto a reati specifici e non ci siamo risusciti»(13). Come sembra comprovato da questa franca ammissione, l’avvio di indagini ad amplissimo spettro secondo il modello dell’inquisitio generalis, lungi dal muovere dalla previa individuazione di ipotesi specifiche di reato, funge da sonda esplorativa diretta in primo luogo ad accertare fenomeni criminali di cui si congettura l’esistenza, mentre la possibilità di scoprire concreti fatti illeciti e i relativi autori rimane un obiettivo eventuale ed incerto. Da questo punto di vista, l’approccio ricostruttivo appare più simile a quello di uno storico o di un sociologo impegnati nello studio di contesti di ampio respiro, che non a quello di un magistrato vincolato alle regole e alle finalità dell’indagine giudiziaria e del processo penale concepito in senso stretto.
Ma, per tornare ancora alla questione cruciale del tipo di copertura che il governo berlusconiano avrebbe finito col fornire ai poteri criminali, in particolare a quelli a carattere mafioso, viene da chiedersi: che cosa effettivamente sta dietro alla tesi – per dirla ancora una volta con Ingroia – di una «legalizzazione degli interessi criminali passata attraverso l’azzeramento della vecchia classe politica» (14)? Una tale legalizzazione andrebbe intesa in senso effettuale o in un senso (per dir così) simbolico-culturale? È verosimile che sia più pertinente la seconda accezione, che può essere esplicitata nei seguenti termini: la cultura politica del berlusconismo, privilegiando il libero dispiegamento dell’individualismo egoistico e dispregiando di conseguenza il valore delle regole, ha di fatto alimentato un clima propizio al diffondersi degli illegalismi, cagionando un gravissimo decadimento dell’etica pubblica; in questo senso ha poco contribuito al potenziamento di una cultura antimafiosa e non si è certo impegnata per l’affermazione del primato della legalità (15). Ma è altrettanto vero, per altro verso, che nessun colpo demolitore è stato inferto alla legislazione antimafia; e che, nonostante l’aspro e duraturo conflitto esploso fra politica e giustizia, alla magistratura penale non è stato affatto impedito di proseguire nella sua attività repressiva, né le è stato impedito di dirigere e portare a termine indagini che hanno condotto alla cattura di boss anche di prima grandezza. Ciò, sul piano dei fatti, non va trascurato: la trattativa, da questo punto di vista, non ha in realtà procurato ai mafiosi i vantaggi sperati.
Alla fine di tutti i rilievi che precedono, ci sono motivi per prospettare – volenti o nolenti – questo interrogativo di fondo alquanto imbarazzante: è stato opportuno immettere e diffondere nella sfera pubblica gli assai infamanti sospetti giudiziari di possibili connessioni fra lo stragismo mafioso e l’affermazione politica di Silvio Berlusconi, e ciò prima che si procedesse ad una approfondita verifica (anche preventiva) del loro grado di fondatezza? In realtà, si è creata una interazione criminalizzatrice all’insegna dell’antiberlusconismo tra settori della magistratura di punta, settori del sistema mediatico inclini ad un lavoro di sponda e settori dell’opposizione politica, la quale ha provocato un effetto perverso: quello di esacerbare oltremisura il conflitto politico, veicolando come dimostrata l’ipotesi, in realtà tutta da dimostrare, dell’orrenda complicità di Berlusconi e Dell’Utri nello stragismo. Questa micidiale tossina, capace di avvelenare il funzionamento della democrazia italiana, provocando atteggiamenti di sfiducia e di delegittimazione reciproca fra i versanti politici in conflitto, non è stata efficacemente contrastata nemmeno dalla parte più vigile e critica del mondo intellettuale. È come se la cultura di orientamento antiberlusconiano, inclusa quella universitaria, avesse in larga misura preferito non impegnarsi sul serio nel dibattere pubblicamente la credibilità degli scenari sconvolgenti azzardati nei laboratori giudiziari, così sottraendosi al disagio di prendere di petto questioni molto drammatiche e imbarazzanti, o talvolta prestando fede con corrività alle verità oscene congetturate nel chiuso delle procure (16). Comunque, l’impressione complessiva è che, all’esterno dei recinti della magistratura antimafia, l’ipotesi di un Berlusconi complice delle stragi non sia riuscita a imporsi come verità accettabile da parte di un’ampia maggioranza di cittadini. E non soltanto perché si sarebbe trattato di qualcosa di inaccettabile per un senso comune diffuso. A prestar fede all’idea di un criminoso connubio tra stragismo mafioso e successo politico berlusconiano, come continuare a convivere con un governo generato dal crimine, seguitando ad osservare tranquillamente i riti di un’apparente normalità democratica? Fuori da ogni cinismo ipocrita, di fronte ad una così intollerabile abnormità, coerenza e sensibilità etico-politica avrebbero imposto di scendere nelle piazze e di combattere il criminale al potere con ogni mezzo, perfino con le armi (17).
4. La scarsa plausibilità della specifica figura di reato (art. 338 c.p.) ipotizzata a carico dei protagonisti della trattativa.
Il quadro fin qui riassunto, per quanto carente degli elementi di dettaglio, delinea l’orizzonte in cui viene a collocarsi l’indagine più specifica sfociata nella richiesta di rinvio a giudizio di dodici
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presunti protagonisti della trattativa per il reato di violenza o minaccia a un corpo politico dello Stato (art. 338 e 110 c.p.).
Va subito rilevato che la prospettazione di quest’ipotesi criminosa è frutto di una escogitazione a posteriori e in via residuale, nel senso che essa è sembrata apparire ai pubblici ministeri l’unico ancoraggio per conferire una veste delittuosa ad alcuni segmenti di una vicenda molto articolata e complessa, ma irriducibile a qualificazioni penalistiche sicure ed univoche alla stregua di paradigmi di incriminazione meno eccentrici rispetto a quello infine escogitato. In termini più semplici ed espliciti: per dare legittimazione giuridica al preconcetto della sostanziale illiceità della trattativa , una qualche figura di reato cui ancorarsi doveva essere rinvenuta ad ogni costo, e dunque anche al prezzo di possibili forzature. Che si tratti di una imputazione strumentale a obiettivi di pregiudiziale incriminazione è, d’altra parte, comprovabile mediante una rigorosa analisi della impostazione accusatoria e delle argomentazioni sottostanti.
Orbene, si imputa in sintesi ad alcuni esponenti di vertice di Cosa nostra ( Riina, Provenzano, Brusca, Bagarella e Cinà), a tre alti ufficiali del ROS (Subranni, Mori e De Donno) e a due uomini politici (Mannino e Dell’Utri) di avere insieme concorso a turbare la regolare attività del governo italiano con minacce consistite nel prospettare l’organizzazione e l’esecuzione di omicidi e stragi (alcuni dei quali effettivamente commessi), e finalizzate a esercitare pressioni psicologiche in vista dell’accoglimento di benefici richiesti da Cosa nostra (18). Una imputazione così congegnata è tale da giustificare davvero una sussunzione del fatto sotto l’ipotizzata fattispecie incriminatrice di cui all’art. 338 c.p.? A ben guardare, sono avanzabili obiezioni critiche sul duplice versante dell’elemento oggettivo e dell’elemento soggettivo.
Ma, prima di esplicitarle, è appena il caso di avvertire che nei confronti dei concorrenti mafiosi la prospettazione del reato predetto si traduce in una modalità di incriminazione aggiuntiva rispetto alla ben più pesante forma di responsabilità penale che su di essi già comunque grava per le azioni stragiste alla cui realizzazione hanno a vario titolo contribuito; mentre il ricorso all’art 338 c.p. assolverebbe una funzione incriminatrice primaria solo nei confronti degli altri protagonisti della trattativa estranei all’universo mafioso: per cui è soprattutto la perseguita punibilità di questi ultimi a spiegare l’escogitazione, altrimenti poco spiegabile, di una forma di imputazione così eccentrica. In aggiunta, non è forse superfluo tornare ad evidenziare l’effetto simbolico di forte etichettamento censorio di un’accusa che consente di accomunare, quali complici di uno stesso reato, da un lato grandi boss mafiosi e dall’altro soggetti appartenenti al mondo della politica e delle istituzioni.
4.1. Fatte queste premesse, allo scopo di analizzare più da vicino il ragionamento giudiziale sviluppato per giustificare l’applicabilità della fattispecie di cui all’articolo 338 c.p., è utile fare riferimento alle argomentazioni contenute nella memoria del 5 novembre 2012, che la procura di Palermo ha presentato a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio.
Questa memoria (non particolarmente lunga: una ventina di pagine) contiene una prima parte a carattere più generale, dove prevalgono considerazioni di sfondo di tipo storico-politico e socio- criminologico volte a inserire il tema della trattativa in un contesto ben più ampio, inclusivo delle presunte implicazioni che la caduta del muro di Berlino avrebbe avuto sulle dinamiche del rapporto mafia-politica; e una seconda parte, nella quale viene più direttamente affrontata la «sostanza giuridica» (sic!) della contestazione.
Per quanto più generale e generica, anche la prima delle due parti va letta con attenzione perché – a prescindere dalla condivisibilità delle interpretazioni storico-politiche prospettate – concorre a spiegare la logica sottostante all’imputazione, specie dove i pm cercano di chiarire che cosa intendano per ‘trattativa’. Invero, cominciando dall’arco temporale di riferimento, quest’ultima si sarebbe dispiegata in più fasi collocate nel biennio 1992-1994. Ciò solleva immediatamente il dubbio, se si possa parlare di una trattativa unica, o di più trattative avvinte da un qualche disegno o nesso unificante. La risposta dipende, ovviamente, dal tipo di angolazione visuale che si presceglie; e da tale scelta possono anche derivare indicazioni sul modo di ricostruire le condotte candidabili ad assumere rilievo penale.
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È da notare che in proposito la lettura della memoria scritta della procura evidenzia qualche oscillazione (se non proprio incoerenza) nel modo di argomentare dell’accusa. Per un verso, i pubblici ministeri affermano che le prove raccolte appaiono sufficienti «per ricostruire la trama di una trattativa, sostanzialmente unitaria, omogenea e coerente, ma che lungo il suo iter ha subito molteplici adattamenti, ha mutato interlocutori e attori, da una parte e dall’altra, allungandosi fino al 1994, allorquando le ultime pressioni minacciose finalizzate ad acquisire benefici ed assicurazioni hanno ottenuto le risposte attese» (quali tipi di risposte appaganti i mafiosi abbiano ricevuto, e in particolare da parte di chi non viene però esplicitato; e questa non è certo una omissione irrilevante in un contesto argomentativo che dovrebbe sorreggere una imputazione penale). Mentre in una parte successiva della stessa memoria si legge: «la stipula del patto politico-mafioso si dispiegò attraverso vari tentativi in successione [...]. Nel piano criminale di quella stagione non ci fu una progressione rigidamente predeterminata, almeno da parte di Cosa nostra, che dimostrò al contrario la capacità di adattarsi agli eventi, secondo la sua migliore tradizione». Ancora, in un altro passo del medesimo testo si sostiene che, in aggiunta alla trattativa in cui si inserisce la vicenda del c.d. “papello” (contente le richieste di benefici, in termini di alleggerimento della pressione repressiva da parte dello Stato, in cambio dei quali Cosa nostra avrebbe posto fine alla strategia omicidiaria avviata nel 1992), si sarebbe verificata nella stessa fase temporale un’ “altra trattativa”, apparentemente autonoma e distinta, ma in realtà connessa alla prima, avente come specifico oggetto – questa volta – la promessa da parte della mafia di restituire al patrimonio pubblico pregiatissime opere d’arte rubate e, come contropartita, la concessione degli arresti domiciliari ad alcuni boss di vertice.
Orbene, dall’insieme di tutti questi rifermenti contenuti nella memoria redatta dall’accusa si desume un quadro trattativista molto complesso e articolato, che si presta in verità a letture non univoche già in punto di fatto. Non ci troviamo di fronte a vicende suscettibili di essere ricondotte, con un grado di certezza al di là di ogni ragionevole dubbio, ad una sola e unitaria narrazione processuale; la possibilità di più letture parrebbe non esclusa, in particolare, rispetto alla controvertibile esistenza di un unico e coerente disegno, condiviso nei contenuti da tutti i protagonisti, capace davvero di fungere da “colla” idonea a tenere insieme tentativi di intesa che si frammentano in episodi diversi, si collocano in contesti temporali differenziati e si impersonano, di volta in volta, in attori mutevoli. Non è un caso che siano gli stessi pubblici ministeri – come si è visto – a mettere in evidenza la propensione di Cosa nostra ad adattare i suoi piani di azione ai cambiamenti contingenti del contesto di riferimento, al di fuori di schemi rigidi e predeterminati in anticipo.
Se le cose stanno così, ne deriva allora come possibile risvolto tecnico-giuridico un notevole incremento di difficoltà nel giustificare, non ultimo sul piano dell’elemento soggettivo, la configurabilità di un concorso penalmente rilevante da parte dei presunti attori politico- istituzionali nelle minacce o violenze realizzate dai mafiosi ai danni del governo. In termini più espliciti: i protagonisti esterni a Cosa nostra erano costantemente consapevoli degli obiettivi via via perseguiti dalla mafia con una chiarezza tale da rendere plausibile un loro dolo di concorso nelle minacce rivolte al governo)? (v. anche infra, 4.5).
4.2. Ma procediamo per gradi, a partire dall’elemento oggettivo del reato contestato.
A questo scopo, è utile richiamare la seconda parte della memoria dell’accusa, quella in cui – come anticipato – si procede alla costruzione della impalcatura giuridica dell’imputazione, preliminarmente puntualizzando : «il presente procedimento non ha per oggetto in senso stretto la trattativa. Nessuno è imputato per il solo fatto di aver trattato. Non ne sono imputati i mafiosi e neppure gli uomini dello Stato». Piuttosto, seguitano a precisare i pubblici ministeri, la contestazione si riferisce a «precise e specifiche condotte di reato realizzate nell’ambito della trattativa» ed attribuite, rispettivamente, a soggetti intranei ed estranei alla mafia.
Ai primi (cioè ai mafiosi di vertice Riina, Provenzano, Brusca, Bagarella e al “postino” Cinà), si imputa in realtà un ruolo di «autori immediati del delitto principale, in quanto hanno commesso, in tempi diversi, la condotta tipica di minaccia ad un corpo politico dello Stato, in questo caso il Governo, con condotte diverse, ma avvinte da un medesimo disegno criminoso». Ora, volendo sorvolare su una certa approssimazione di linguaggio tecnico, quel che l’accusa sembra voler dire è che gli uomini di mafia chiamati in causa sarebbero stati gli esecutori di condotte tipiche di minaccia. Ma è lecito chiedersi: mediante quali modalità esecutive concrete? In effetti, a prendere sul serio l’esigenza di precisione della contestazione, innanzitutto quale riflesso del principio penalistico di tipicità, sarebbe onere dell’accusa circoscrivere anche in dettaglio i fatti addebitati. Ma quest’onere nel caso di specie non risulta assolto così come in teoria si dovrebbe.
Invero, in base a quanto è dato comprendere, le condotte realizzate dai mafiosi avrebbero una valenza minacciosa in un primo tempo implicita e, successivamente, anche esplicita.
L’inizio della strategia criminale di condizionamento del governo, secondo i pubblici ministeri, coincide coll’assassinio dell’europarlamentare siciliano Salvo Lima nel marzo del 1992: ma in questa fase sembrerebbe trattarsi di una minaccia manifestata in forma non espressa, simbolica, per facta concludentia. Nessun dubbio sulla configurabilità in punto di diritto di manacce attuate anche in forma implicita; solo che, al di là della forma di manifestazione utilizzata, la valenza e la direzione minacciosa del fatto dovrebbero in ogni caso poter essere colte in maniera sufficientemente univoca. È così anche nel caso del delitto Lima? In effetti, se si considera la fase temporale in cui quest’omicidio si colloca, insieme con la catena di eventi che immediatamente lo precede, la sua obiettiva leggibilità in chiave di manifesto annuncio di una strategia del terrore tendente a piegare lo Stato mediante la prospettazione di omicidi futuri di altri uomini politici (prospettazione che si vorrebbe implicita nella presunta valenza in questo senso simbolica del medesimo delitto Lima), appare tutt’altro che scontata. Piuttosto, nel marzo 1992 (e cioè a poca distanza dal passaggio in giudicato delle severe condanne inflitte nel maxiprocesso), l’eliminazione di Lima poteva ben essere interpretata come una punizione a carattere retrospettivo, cioè come una semplice vendetta per il mancato ‘aggiustamento’ in Cassazione dei pesantissimi esiti repressivi del lavoro giudiziario di Falcone e Borsellino: una ritorsione, dunque, anche per la umiliante smentita della tradizionale fama di impunità dei boss.
Nella narrazione ricostruttiva dell’accusa, alla presunta minaccia implicita nel delitto Lima avrebbero fatto seguito momenti di minaccia anche espressa, coincidenti in particolare con la predisposizione e l’ inoltro del c.d. ‘papello’, cioè del testo contenente le richieste dei benefici che il governo avrebbe dovuto concedere in cambio dell’interruzione degli attacchi stragisti. Secondo i pubblici ministeri, l’inoltro di tale documento costituirebbe «un ulteriore momento esecutivo della condotta tipica » (in mancanza di ulteriori precisazioni, è da presumere della condotta tipica ai sensi dell’art 338 c.p.). Senonché, a questo punto sorge un problema di qualificazione penalistica che sembra sfuggire ai magistrati palermitani. Cioè, se è vero che la trattativa è in sé stessa priva di rilevanza penale; e se è vero che una trattativa per aver svolgimento presuppone uno scambio comunicativo fra le parti, finalizzato ad accertare le rispettive condizioni dell’intesa da stipulare, come può allora l’inoltro del papello costituire, di per sé, momento esecutivo di una minaccia penalmente rilevante?
Riprendendo il filo della narrazione accusatoria, dopo la presentazione delle richieste mafiose si sarebbero succeduti ulteriori episodi di minaccia realizzati di nuovo in forma implicita, e di entità gravissima, perché sfociati (oltre che nell’uccisione prima di Giovanni Falcone e poi di Paolo Borsellino, nel maggio e nel luglio 1992) in attentati mortali in luoghi pubblici ai danni di vittime innocenti nel corso del 1993. Al riguardo, è appena il caso di rilevare che – sebbene la memoria dei pubblici ministeri si astenga dal fare le dovute precisazioni in proposito – i capi di Cosa nostra menzionati nel capo di imputazione difficilmente poterebbero essere tutti ugualmente qualificati come esecutori materiali di condotte violente riconducibili (oltre che a ben più gravi figure di reato, anche) alla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 338 c.p.: delle condotte violente in questione, tradottesi in eventi stragistici dotati pur sempre secondo l’accusa di valenza coartante rispetto alle decisioni del governo, i grandi capi di Cosa nostra sono stati verosimilmente mandanti, piuttosto che esecutori materiali. Ed è sempre in veste di concorrenti morali, e non già di esecutori, chepotrebbero essere chiamati a rispondere non solo di omicidi e stragi in sé considerati, ma altresì di omicidi e stragi interpretati come violenza o minaccia ai sensi dell’art. 338 c.p..
Non è da escludere che queste distinzioni tecniche siano state pretermesse nella sintetica memoria dei pubblici ministeri perché forse considerate implicite e, perciò, superflue. Ciò non toglie, tuttavia, che l’approccio complessivo dell’accusa risulti in molte parti generico e approssimativo nel descrivere le condotte oggetto di imputazione (con conseguente sottovalutazione del principio di tipicità penale, anche nei suoi risvolti garantistici a carattere processuale); e, sotto alcuni aspetti, assai carente. Tra i profili non secondari trascurati, rientra ad esempio quello relativo al potenziale di idoneità delle minacce mafiose: erano oggettivamente tali da poter condizionare il governo, annullandone o riducendone il potere di autonoma e libera determinazione, o da turbarne comunque l’attività? Per verificare in positivo tale idoneità, senza darla presuntivamente per scontata, occorrerebbe in realtà prendere in considerazione più analiticamente i singoli episodi violenti realizzati nelle diverse fasi della strategia mafiosa e accertare se in ciascuno di essi possa davvero riconoscersi un significato intimidatorio nei diretti confronti del governo, percepibile come tale da soggetti istituzionalmente legittimati a impersonare il potere esecutivo. È tutt’altro che dimostrato infatti che, nella situazione drammatica e oggettivamente confusa di quell’angosciante biennio, all’interno delle compagini governative che si sono succedute fossero sempre percepibili in termini chiari e univoci gli obiettivi perseguiti con la strategia stragista, peraltro nel dubbio – allora come oggi irrisolto – circa la fonte e la regia uniche o plurime (mafia, servizi segreti deviati, gruppi della destra eversiva, entità esterne con interessi convergenti non meglio definite, ecc.) delle aggressioni criminali che si succedettero nel tempo. Insomma, guardando agli eventi con la prospettiva di allora, non è affatto detto che emergesse con sufficiente chiarezza che le ripetute azioni criminali avrebbero perseguito sempre il medesimo obiettivo – come, con logica ex post, ha ipotizzato l’accusa – di piegare i governi di turno a venire a patti col potere mafioso. Ma, se non si è sicuri al di là di ogni ragionevole dubbio che a quel tempo questo tipo di chiarezza vi fosse, manca in realtà il presupposto per potere verificare il grado di idoneità oggettiva della strategia intimidatrice mafiosa. Tanto più che il destinatario delle minacce non sarebbe stato un semplice consiglio comunale o una commissione di concorso, bensì il governo della Repubblica italiana: cioè un organo costituzionale, dotato di poteri, di competenze, di risorse e di forze anche militari tutt’altro che inidonee (almeno in teoria) a contrastare anche attacchi di tipo stragista.
4.3. Ma vi è di più. Secondo il modo di ragionare sviluppato dall’organo dell’accusa, la valenza minacciosa della strategia stragista di Cosa nostra, così come avviata col delitto Lima, avrebbe avuto due destinatari più immediati (rispetto al governo come tale) nelle persone di Giulio Andreotti e Calogero Mannino, entrambi componenti del governo allora in carica: il primo nella qualità di presidente del Consiglio, il secondo nel ruolo di ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno, nonché «successiva e ormai designata vittima del progetto omicidiario in danno dei politici che non avevano mantenuto i patti».
Orbene, alla stregua di una simile ricostruzione, il governo finisce col fungere da destinatario indiretto delle intimidazioni mafiose: lo diviene cioè attraverso il tramite rappresentato dalle persone dei due rappresentanti governativi Andreotti e Mannino. Il che in effetti non contrasta con l’interpretazione dominante dell’art 338 c.p., la quale ritiene sufficienti che la condotta tipica sia indirizzata a singoli componenti dell’organo collegiale, ma a una condizione: purché la violenza o minaccia siano dirette a incidere sul funzionamento dell’organo come tale. Esiste nel nostro caso la prova che i mafiosi intendevano inequivocabilmente indirizzare le loro minacce all’istituzione- governo in quanto tale? A parte i possibili dubbi in proposito, la complessiva impostazione accusatoria incappa, con specifico riferimento all’allora ministro Mannino, in una vistosa contraddizione il cui peso è tale da avvalorare l’assunto della scarsa plausibilità dell’intero ricorso alla fattispecie di cui all’art. 338 c.p.. A ben vedere, la contraddizione risiede nel fatto che l’accusa, argomentando così come ha argomentato, finisce coll’attribuire a Calogero Mannino il doppio ruolo di vittima e complice di uno stesso reato: cioè egli rivestirebbe, da un lato, la condizione di soggetto passivo delle minacce mafiose rilevanti ex art. 338 c.p. (nonché, di persona fisica ‘privata’ minacciata di morte) e, dall’altro, il ruolo di concorrente nella realizzazione del medesimo reato di violenza o minaccia al governo. Come spiegare questo pirandelliano sdoppiamento di Mannino, che da (per dir così) delinquente privato contribuirebbe a realizzare un reato ai danni di sé stesso nella funzione di ministro? Il paradosso troverebbe spiegazione nel fatto che, secondo la ricostruzione accusatoria, Mannino si sarebbe attivato «per sollecitare i propri terminali nel territorio per richiedere a Cosa nostra la contropartita per interrompere la strategia di frontale attacco alle istituzioni politiche, così di fatto proponendosi come intermediario dell’organizzazione mafiosa nella ricerca di nuovi equilibri con la politica»: proprio questo ruolo di intermediazione – secondo il ragionamento giuridico dei pubblici ministeri – si tradurrebbe in un contributo atipico di sostegno, penalmente rilevante ex art 110 e ss. c.p., alle condotte tipiche di violenza o minaccia realizzate direttamente dai mafiosi (questo schema di responsabilità concorsuale basato sul ruolo di intermediazione varrebbe, oltre che per Mannino, anche per Marcello Dell’Utri come esponente politico intervenuto quale intermediario in fasi successive, nonché per gli ufficiali dei carabinieri Subranni, Mori e De Donno). A supporto di una tale costruzione giuridica, che appare invero ben lungi dall’esibire cogenza e persuasività immediate, la stessa accusa prospetta una presunta analogia con la punibilità a titolo di concorrente – ammessa in giurisprudenza – dell’intermediario di una estorsione: nel senso che così come concorre in quest’ultimo reato colui il quale trasmette alla vittima le richieste dell’estorsore, analogamente concorrerebbero nel reato di cui all’art 338 c.p. quanti si incaricano di far pervenire al governo le richieste minacciose di Cosa nostra.
A ben vedere, l’analogia è più apparente che reale (a parte l’inammissibilità, in linea di principio, di una analogia in malam partem). A differenza che nell’estorsione, in cui l’estraneo che funge da tramite di solito condivide l’obiettivo illecito perseguito dall’estorsore, gli intermediari non mafiosi della trattativa Stato-mafia agivano sorretti dalla prevalente intenzione di contribuire a bloccare futuri omicidi e stragi: un obiettivo, dunque, in sé lecito, addirittura istituzionalmente doveroso. E ancora: se la trattativa in sé – come ammesso dagli stessi pubblici ministeri – non può assumere come tale rilievo penale, come può invece risultare penalmente vietata una attività di intermediazione funzionale ad una trattativa in sé lecita?
D’altra parte, che la funzione di intermediazione svolta dagli esponenti politici e dagli ufficiali dei carabinieri mirasse all’obiettivo salvifico di porre argine alle violenze mafiose – e non già di supportare Cosa nostra nei suoi attacchi contro lo Stato – sembra confermato proprio da quella che sarebbe stata l’evoluzione politica degli eventi secondo gli stessi pubblici ministeri. Dopo l’attivazione degli apparati di sicurezza e la loro presa di contatto con l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, nei piani alti delle istituzioni avrebbe preso sempre più piede il progetto di mettere in salvo i politici contingentemente minacciati e le potenziali vittime innocenti , sollecitando ogni azione utile a rimuovere possibili ostacoli e a favorire il conseguimento dell’obiettivo (dalla sostituzione del ‘rigido’ ministro dell’interno Vincenzo Scotti col presuntamente più ‘morbido’ Nicola Mancino, all’attenuazione, nel 1993, del regime di cui all’art 41 bis ord. penit. ad opera di Giovanni Conso, succeduto nel ruolo di ministro della giustizia al più intransigente Claudio Martelli, ecc.) (19).
4.4.Tutto ciò premesso, rimane ancora da affrontare un nodo ermeneutico per nulla secondario, inerente sempre alla struttura oggettiva dell’art 338 c.p.: ci si riferisce alla possibilità di far rientrare, in un concetto quale quello di “corpo politico”, un organo costituzionale come il governo (cioè l’organo appunto che, secondo il ragionamento dell’accusa, sarebbe stato nel caso di specie destinatario ultimo delle minacce stragiste). Infatti, secondo una consolidata interpretazione dottrinale e giurisprudenziale basata su argomenti sia semantici sia sistematici (20), la nozione di corpo politico non può ricomprendere gli organi costituzionali (come il governo o le assemblee legislative o la Corte costituzionale), dal momento che ad essi appresta esplicitamente tutela la diversa fattispecie di cui all’art. 289 c.p.: la quale, così come modificata dal legislatore del 2006 (21), sotto la rubrica “attentato contro organi costituzionali e contro assemblee regionali” sanziona (con la reclusione da uno a cinque anni) la commissione di atti violenti diretti ad impedirne in tutto o in parte, anche temporaneamente, l’esercizio delle funzioni. Mentre la precedente formulazione normativa di questa stessa fattispecie risultava in effetti di portata più ampia, e ciò per due ragioni: da un lato, perché il fatto tipico era più genericamente indicato con la formula “fatto diretto a …”, senza menzione espressa del connotato della violenza; dall’altro, era esplicitamente preso in considerazione (e sanzionato con pena più lieve) anche l’effetto meno grave del mero turbamento dell’esercizio delle funzioni costituzionali. Orbene, è abbastanza verosimile che a orientare i pubblici ministeri a favore dell’applicabilità al caso di specie (non già dell’art. 289, bensì) dell’art. 338 c.p. sia stata, appunto, la constatazione della (sopravvenuta per effetto dell’intervenuta modifica normativa) impossibilità di ricondurre all’attuale e più ristretto testo dell’art. 289 c.p. condotte di valenza soltanto minacciosa, e idonee come tali a turbare (più che a impedire) il funzionamento di un organo quale il governo ovvero a influenzarne in qualche modo le deliberazioni.
Ma l’intento accusatorio di attribuire rilievo penale alle ‘minacce’, cui i mafiosi sarebbero ricorsi per esercitare pressioni sul governo allo scopo di piegarlo alla trattativa, giustifica la palese forzatura ermeneutica di qualificare “corpo politico” lo stesso governo, al pari di un consiglio comunale o di una commissione elettorale? Contro una simile assimilazione interpretativa non depone soltanto il confronto testuale con l’art. 289 c.p., ma è altresì adducibile un argomento logico-sistematico di notevole peso: cioè l’art. 393 bis c.p. prevede espressamente l’applicabilità della scriminante della reazione legittima al caso in cui la violenza o minaccia a un corpo politico (art. 338 c.p.) siano commesse per reagire a un atto arbitrario di un soggetto pubblico, mentre una analoga causa di non punibilità non è prevista in relazione al reato di cui all’art. 289 c.p. Questa differenza di disciplina, spiegabile considerando che sarebbe più difficilmente ipotizzabile una reazione legittima del privato contro un atto arbitrario proveniente da un organo costituzionale come il governo, conferma indirettamente in realtà che quest’ultimo non è sussumibile sotto la nozione di corpo politico di cui all’art. 338 c.p.
4.5. I rilievi fin qui svolti consentono di accennare in poche battute agli aspetti problematici relativi all’elemento soggettivo: i quali emergono, in particolare, riguardo alla configurabilità di un vero e proprio dolo di concorso nel reato di cui all’art. 338 c.p. in capo ai concorrenti ‘non mafiosi’.
In termini più espliciti: è attribuibile agli esponenti politici e agli ufficiali dei carabinieri, interagenti nel ruolo di intermediari istituzionali della trattativa, una autentica coscienza e volontà di concorrere con i mafiosi nella realizzazione di violenze e minacce ai danni del governo? Non è un caso che, in proposito, l’accusa non si sforzi di fornire esplicite motivazioni, preferendo implicitamente ripiegare su di una sorta di dolo in re ipsa. Sennonché, il dolo di concorso andrebbe in questo caso accertato senza presunzioni e con particolare scrupolo, e ciò per una ragione evidente che è forse superfluo esplicitare: la volontà di svolgere ruoli di intermediazione tendenti all’obiettivo (salvifico) di arginare le stragi, di per sé infatti non implica – né direttamente, né indirettamente – la ulteriore volontà di supportare Cosa nostra nella realizzazione della sua strategia criminale volta alla trattativa.
D’altra parte, se tale ulteriore volontà risultasse davvero provata, coerenza imporrebbe di aggravare la qualificazione giuridica delle presunte condotte concorsuali in questione: nel senso, ad esempio, di elevare anche a carico di Mannino, Dell’Utri, Mori e De Donno un’imputazione di concorso esterno nell’associazione mafiosa, analogamente a quanto contestato all’altro “intermediario” Massimo Ciancimino. Ma vi è di più. Perché non spingersi sino al punto di ipotizzare forme di concorso nelle stesse azioni stragiste, se fosse vero che gli intermediari – come l’accusa sostiene – avrebbero con il loro comportamento rafforzato in Cosa nostra il convincimento che la prosecuzione del suo programma criminoso violento risultava efficace in vista della trattativa? Interrogativi come questi, proprio perché derivanti da un organico e coerente sviluppo logico delle stesse premesse accusatorie, necessiterebbero di un più adeguato vaglio giudiziale.
5. Le intercettazioni “indirette” del presidente della Repubblica, il conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale e il conseguente ‘tormentone’ politico-mediatico
L’indagine sulla trattativa è stata anche occasione di un grosso ‘tormentone’ politico-mediatico- giudiziario protrattosi dal luglio 2012 alla fine dello stesso anno: causa scatenante un’attività di intercettazione telefonica nei confronti dell’ex ministro Nicola Mancino, nell’ambito della quale venivano “indirettamente” captate conversazioni tra quest’ultimo e il capo dello Stato. Il grave conflitto istituzionale derivatone non si è incentrato soltanto sulla delicata questione costituzionale relativa alla definizione delle prerogative del presidente della Repubblica (in particolare, sotto il profilo di una legittima intercettabilità delle sue conversazioni per fini di giustizia), rispetto alla quale sono non a caso subito emersi nel pubblico dibattito orientamenti contrastanti (22). Il contrasto è sfociato in una vera e propria contrapposizione tra il Quirinale e gli uffici giudiziari palermitani in seguito alla decisione del presidente Napolitano – che ha finito con il cogliere di sorpresa i pm del capoluogo siciliano (23) – di sollevare un conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale. Tale decisione, oltre a essere percepita dai magistrati siciliani come una inattesa dichiarazione di guerra istituzionale, è stata addirittura interpretata in alcuni ambienti politico-giornalistici favorevoli alla procura di Palermo come sintomatica di una inammissibile volontà di interferenza del capo dello Stato, volta a mettere al riparo dall’azione giudiziaria esponenti politici in qualche modo coinvolti nella vicenda della trattativa. Ecco che la complessa e controvertibile questione giuridico-costituzionale sul tappeto ha finito, così, con l’essere contingentemente strumentalizzata in vista di obiettivi politici più generali (precisamente, nel senso che la perseguita delegittimazione di Giorgio Napolitano risultava, al momento, funzionale a una più ampia contestazione del suo complessivo ruolo politico-istituzionale, non ultimo quale ispiratore e garante del cosiddetto governo dei tecnici presieduto da Mario Monti, inviso a più settori politici non soltanto di sinistra)(24).
Il clima di esasperata contrapposizione amplificava le già forti valenze politiche dell’azione dei pm palermitani. In loro difesa, e contro un loro temuto isolamento, il Fatto Quotidiano lancia un pubblico appello che raccoglie centinaia di migliaia di adesioni (25). E seguono iniziative politiche pubbliche cui partecipa il procuratore aggiunto Antonio Ingroia nonostante che, nel corso del loro svolgimento, continui ad aver corso la campagna di sospettose insinuazioni sul conto del capo dello Stato (26).
Nell’aspro conflitto finiscono – volenti o nolenti – con l’essere coinvolti esponenti molto qualificati della cultura giuridica di matrice accademica, i quali, intervenendo nel dibattito giornalistico, assumono posizioni ora di adesione ora di critica rispetto alla scelta del presidente della Repubblica di chiamare in causa la Consulta. A favore della procura di Palermo si schierano in particolare Gustavo Zagrebelsky (27) e Franco Cordero (28), mentre in soccorso del presidenza della Repubblica prendono posizione – tra altri – Andrea Manzella (29), Valerio Onida (30) e Gianluigi Pellegrino (31).
Ma al di là del merito della questione giuridico-costituzionale, considerata sia in se stessa sia nelle sue implicazioni di ordine politico-istituzionale, vale la pena anche qui segnalare un evento di più ampia portata (per dir così) politico-culturale. Cioè un importante quotidiano di ispirazione progressista come Repubblica, in genere favorevole all’azione della magistratura inquirente, intorno alla querelle estiva delle intercettazioni presidenziali si spacca invece in due orientamenti contrapposti: il fondatore Eugenio Scalari (32) duella contro l’illustre collaboratore e costituzionalista di vaglia Gustavo Zagrebelsky, a difesa del presidente Napolitano sospettato di delegittimare i magistrati d’accusa; mentre dal canto suo il direttore Ezio Mauro (33), senza sconfessare nessuno dei contendenti, ragiona sul problema del grave conflitto tra politica e giustizia, prospettando come tesi che un certo populismo giudiziario diffusosi anche nella cultura di sinistra avrebbe finito col far propri mentalità, pulsioni e linguaggi che sarebbero oggettivamente di destra (34).
Senza potere qui entrare nel merito degli eterogenei fattori (anche culturali) che hanno più in generale contribuito, nella storia italiana dell’ultimo ventennio, ad elevare notevolmente il tasso di politicità dell’intervento della magistratura penale, quanto alla recente vicenda interna al quotidiano la Repubblica una cosa sembra fuori discussione: essa testimonia dello stretto e perverso intreccio che è venuto a stringersi tra un’indagine giudiziaria come quella sulla trattativa, i divergenti giudizi sull’operato di Giorgio Napolitano quale promotore del governo Monti (responsabile di una politica di “sacrifici” sofferti soprattutto dai ceti sociali più deboli) e il modo di concepire l’azione delle forze di sinistra anche nella difficile interazione tra politica e giustizia penale.
Comunque sia, la specifica questione oggetto del conflitto di attribuzione è stata infine sciolta con un verdetto costituzionale (sent. 15 gennaio 2013, n.1) che ha, com’è noto, riconosciuto in pieno la fondatezza delle ragioni sottostanti al ricorso del presidente della Repubblica. Com’era da attendersi, questa presa di posizione della Consulta è stata diversamente accolta, da commentatori di opposti versanti, sulla base di valutazioni che vanno ben al di là del suo impianto motivazionale sul piano tecnico-giuridico. Non sorprende, quindi, che dal fronte più vicino alle procure si sia levata l’accusa di una Corte costituzionale «cortigiana» (35). E neppure sorprende molto che, per parte sua, il procuratore aggiunto Ingroia abbia nel corso di un’intervista dichiarato di sentirsi «profondamente amareggiato» a causa di una sentenza costituzionale «bizzarra», spiegabile soltanto grazie al prevalere delle «ragioni della politica» su quelle del diritto (36).
Forse non è superfluo puntualizzare che, al momento dell’amara intervista, il coordinatore dell’indagine sulla trattativa si trovava già in America centrale a ricoprire il nuovo incarico, conferitogli dall’ ONU, di capo dell’unità investigativa della Commissione internazionale contro l’impunità in Guatemala. Ma, meno di due mesi dopo, l’ex procuratore aggiunto di Palermo faceva ritorno in Italia per partecipare, come candidato premier di un nuovo movimento politico di sinistra radicale (emblematicamente denominato Rivoluzione civile), alle elezioni nazionali del febbraio 2013 (v. anche infra, par.6).
Una singolare evoluzione professionale che ha, alla fine, portato allo scoperto una vocazione politica in verità da qualche tempo sospettabile in un pm così combattivo e pubblicamente esposto?
6. Il magistrato dell’accusa come attore politico-mediatico: un ruolo ambivalente tra giustizia e politica
Tra gli aspetti più interessanti e meritevoli di analisi del procedimento sulla trattativa Stato-mafia rientra, indubbiamente, l’accentuato attivismo politico-mediatico in particolare del magistrato che ha coordinato il gruppo dei pubblici ministeri assegnatari dell’inchiesta: il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, appunto. Questo ruolo iper-attivistico all’esterno delle aule giudiziarie non si è tradotto soltanto – come era già accaduto, forse però non nella stessa misura, ad altri magistrati d’accusa divenuti ben noti al grosso pubblico – in una frequente e insistita presenza nei media scritti e parlati. La specificità dell’interventismo di un magistrato come Ingroia è dipesa da fattori aggiuntivi, legati al convincimento di dovere e potere prendere posizione in pubblico proprio sugli stessi temi oggetto di contemporanea indagini giudiziaria: sino al punto di illustrare (per dir così didatticamente), in interviste rilasciate ai maggiori quotidiani o in pezzi scritti di proprio pugno, il senso e le finalità del procedimento sulla trattativa, talvolta persino tentando di filosofeggiare su questioni ardue come quella dei rapporti tra giustizia e “ragion di stato”(37).
A lungo andare, questo eccesso di esposizione pubblica dall’impatto non poco confusivo, tale da rendere viepiù evanescente la distinzione tra un Ingroia-magistrato d’accusa e un Ingroia-attore politico tout court, ha finito per suscitare (non è mai troppo tardi?) le reazioni critiche di Magistratura democratica (corrente di originaria appartenenza del Nostro), dell’Associazione nazionale magistrati e dello stesso Consiglio superiore della magistratura: reazioni invero convergenti nel sottolineare che il pur legittimo intervento pubblico del magistrato non deve sovrapporsi al lavoro giudiziario e deve, comunque, essere svolto in modo da non offuscare l’immagine di terzietà della giurisdizione, specie quando si sia titolari di procedimenti penali su cui si concentra l’attenzione della pubblica opinione (38).
Sennonché, queste critiche di indebita sovraesposizione mediatica incontrano la resistenza del magistrato che ne è diretto destinatario (39), e ciò per motivazioni di fondo che sembra opportuno qui esplicitare. Esse infatti si ricollegano alla particolare concezione che un pm come Ingroia ha maturato del proprio ruolo professionale, e che egli ha in qualche modo cercato anche di teorizzare. In sintesi, si tratta dell’idea che il magistrato, in particolare quello d’accusa, sia nella realtà italiana di oggi chiamato a svolgere una funzione (che lo stesso Ingroia definisce) simile a quella di un «tribuno del popolo» (sic): si allude a una figura di magistrato che interloquisca direttamente con l’opinione pubblica, spieghi al popolo le collusioni tra potere politico e poteri criminali, educhi i cittadini al rispetto della legalità e contribuisca ad additare (agli stessi politici di mestiere) i principi di una buona politica (40).
Una tale visione del ruolo del pubblico ministero, etichettabile – volendo – in termini di “populismo giudiziario”, tradisce una ideologia professionale che finisce, in ogni caso, con l’esasperare la vocazione politico-pedagogica dei titolari dell’azione penale. Ciò sino al punto, in effetti, di innescare rapporti di sostanziale contiguità (se non proprio continuità) tra agire giudiziario ed agire politico: come se la differenza tra la giustizia penale e la politica riguardasse più i mezzi impiegati, che non i fini ultimi presi di mira.
Una visione siffatta, che certamente contrasta non poco con la concezione liberaldemocratica del principio della divisione dei poteri (almeno così come prevalentemente intersa nel contesto europeo-continentale), può probabilmente contribuire a spiegare un fenomeno «unico nella storia dell’Italia repubblicana: quello di un magistrato che, in sostanziale continuità con la sua precedente attività, ha fondato un partito, gli ha dato il suo nome e s’è candidato alla guida del governo. Nessuna toga passata alla politica – e ce ne sono state diverse, in tutte le epoche, fino a Di Pietro e De Magistris, per l’appunto – aveva tentato un salto tanto ardito e repentino. Ingroia sì»(41).
Tanto ardimento non è, però, stato premiato dai cittadini elettori: alle elezioni nazionali del 24 e 25 febbraio 2013, Rivoluzione civile e il suo leader-simbolo Antonio Ingroia non hanno raggiunto la soglia di voti necessaria per fare ingresso in Parlamento. E’ verosimile che questo fallimento sia in realtà, e non a caso, dipeso dalla percezione diffusa di un’ispirazione eccessivamente ‘punitiva’ del progetto politico ingroiano (che dava infatti l’impressione di identificarsi con programma repressivo incentrato su manette, sequestri e confische di patrimoni e di essere, viceversa, povero di proposte a contenute positivo e di ampio respiro).
Comunque, per l’ex procuratore aggiunto elettoralmente sconfitto si prospetta, ormai, il dilemma tra il ritorno in magistratura (ma non più come pm) e l’abbandono definitivo della toga per continuare a impegnarsi nell’attività politica.
7. Il processo penale ‘polifunzionale’ (e il ruolo marginale del diritto?)
Quale che sarà il futuro destino del magistrato coordinatore delle indagini, il processo sulla trattativa seguirà d’ora in avanti il suo corso sotto la gestione di altri magistrati, non solo inquirenti ma anche giudicanti. Con decreto del 7 marzo 2013, il Gip del Tribunale di Palermo Piergiorgio Morosini ha infatti disposto il rinvio a giudizio di dieci imputati, chiamati a rispondere di concorso nel reato di violenza o minaccia a un corpo politico dello stato.
È da segnalare che il provvedimento di rinvio a giudizio, mentre si astiene dal prendere posizione sui problematici profili di diritto penale sostanziale connessi alla applicabilità nel caso di specie dell’ipotesi criminosa di cui all’art. 338 c.p. (v. supra, par. 4), muove invece critiche all’approccio dei pubblici ministeri in particolare sotto l’aspetto di una mancata indicazione delle fonti di prova relative ai diversi e complessi temi della piattaforma accusatoria e alle differenti posizioni giudiziarie (a tale deficit cerca di supplire il Gip, provvedendo egli stesso a indicare, nelle trentaquattro pagine del decreto che dispone il giudizio, tutte le circostanze considerate probatoriamente rilevanti, desumendole da novanta faldoni di materiali probatori contenenti – a loro volta – un numero di pagine abbondantemente superiori alle 300.000!).
Ad avviso di chi scrive, come rilevato in precedenza, il lavoro dei pubblici ministeri risulta in realtà non meno deficitario anche sotto il profilo preliminare di una mancata contestazione di precisemodalità di condotta concorsuale a ciascuno dei presunti protagonisti dell’intesa trattativista; e risulta, altresì, censurabile a causa del mancato approfondimento dei presupposti di applicabilità della fattispecie di cui all’art. 338 c.p., non ultimo dal punto di vista della legittima riconducibilità alla nozione di “corpo politico” di un organo costituzionale quale il governo (cfr. supra, 4.4).
Come già detto, si riceve più in generale l’impressione che l’accusa sia venuta meno all’impegno di mettere alla prova, in maniera sufficientemente meditata, tutte le potenziali capacità di prestazione dello strumentario penalistico al cospetto delle complesse e ambigue vicende più o meno forzatamente sussunte sotto la comoda etichetta della trattativa. Discutibile per le ragioni tecniche già evidenziate, l’opzione qualificatoria prescelta in termini di concorso nel reato di cui all’art. 338 c.p. ha, comunque, consentito all’accusa di perseguire un obiettivo politico-simbolico inedito nella storia giudiziaria italiana: chiamare per la prima volta a rispondere insieme, come concorrenti di un medesimo delitto, ex ministri, alti ufficiali dei carabinieri e boss mafiosi(42). Ma, al di là del formale (e discutibile) inquadramento giuridico-penale dei fatti, il senso sostanziale dell’addebito – come messaggio accusatorio indirizzato soprattutto all’esterno del circuito giudiziario – suona così: lo scellerato patto Stato-mafia si è tradotto in un disegno politico eversivo, è equivalso a un doloso tradimento della legalità democratica in vista della stipula di un rinnovato accordo di opportunistica convivenza tra le istituzioni statali e il potere mafioso.
Se tale è il senso sostanziale dell’ipotesi accusatoria, tra gli obiettivi di maggiore conoscenza da perseguire nella futura fase dibattimentale rientrerebbe, innanzitutto, una più approfondita verifica dell’insieme dei reali obiettivi presi di mira nel tentare di bloccare l’ escalation stragista, esplorando in contraddittorio l’effettivo ruolo svolto dai principali soggetti responsabili dell’azione di governo nei drammatici e oscuri primi anni Novanta. Si prospetta dunque una sorta di processo alla politica governativa di allora, prima ancora che a singoli esponenti politico-istituzionali sospettabili di comportamenti penalmente rilevanti. Ma questo tendenziale sovrapporsi tra giudizio politico e giudizio penale è tutt’altro che nuovo nella storia e, più in particolare, nella storia giudiziaria. Invero, elementi di ambivalenza e ragioni di intreccio tra ottica repressiva e disapprovazione etico- politica tendono – sia pure in misura differente a seconda dei diversi casi storici – a presentarsi come costanti tipiche dei processi che coinvolgono vicende politicamente rilevanti, come è comprovato anche da esperienze processuali di un passato ormai lontano, tra le quali alcune ben note risalenti agli ultimi secoli della Roma repubblicana(43). E non è certo un caso che l’interferenza tra paradigmi politici e paradigmi penalistici di giudizio si sia da allora storicamente riproposta in pressoché tutti i casi, in cui si sono celebrati importanti procedimenti giudiziari aventi ad oggetto reali o presunte violazioni del diritto commesse da esponenti politici o detentori di pubblici poteri nell’esercizio delle rispettive funzioni: come, per fare riferimento alla più recente storia italiana, nell’esperienza giudiziaria per vari aspetti emblematica di Mani Pulite(44).
Il rischio di forte sovrapposizione tra prospettiva giudiziaria e prospettiva politica si aggrava viepiù allorché, come pure è accaduto e continua ad accadere, prendono piede tendenze dichiaratamente populistico-giustizialiste che teorizzano l’uso del potere punitivo come strumento di palingenesi politico-sociale o come leva per promuovere il ricambio delle classi dirigenti. Ma, anche fuori da ogni tentazione di esplicita finalizzazione politica dell’azione giudiziaria, il pericolo che il processo funga da strumento aperto a usi impropri (o che comunque il valore garantistico dell’imparzialità venga sacrificato alla logica strategica di una preconcetta opzione repressiva), è sempre latente in tutti i casi in cui si tratta di far luce su complesse vicende storico-politiche di possibile ma controvertibile rilevanza criminale(45): come, appunto, nel caso della presunta trattativa Stato- mafia. Far luce o maggior luce su una vicenda siffatta vuol dire fare del processo uno strumento di indagine storica ad ampio spettro; e, nello stesso tempo, un laboratorio di analisi politologica, un teatro mediatico in cui si contrappongono dinanzi al grosso pubblico narrazioni contrapposte di eventi oscuri e in cui, altresì, si proiettano immaginarie dietrologie di tipo complottistico alimentate da ansie e paure collettive. Un sovraccarico funzionale del processo, dunque, che sarebbe però illusorio pensare di poter azzerare, riguadagnando una completa separazione ‘purista’ tra sfera giuridica in senso stretto e angolazioni ‘altre’. Piuttosto, nella società della giustizia mediatizzata incui viviamo, il diritto gestito in senso rigorosamente tecnico, oltre ad apparire una astruseria concettuale per iniziati, rischia di scadere a paradigma di giudizio secondario, se non proprio marginale.
E’ nondimeno auspicabile che, nella futura evoluzione del processo sulla trattativa, la magistratura sia d’accusa che giudicante punti a un equilibrato contemperamento tra l’ esigenza di ampliare l’orizzonte conoscitivo sugli scenari storico-politici di un ventennio addietro, e le ragioni del diritto (da tenere in conto nel rispetto dei limiti anche formali delle fattispecie legali). Un maggiore impegno nell’affrontare, con coerenza e rigore, i complessi profili di diritto penale sostanziale potrà giovare in più direzioni. Da un lato, ai fini di un più attento vaglio della plausibilità giuridica della contestazione incentrata su di un’ipotesi di concorso nel reato di cui all’art. 338 c.p.; ma, dall’altro, anche in vista della ricerca di eventuali paradigmi criminosi alternativi più adatti a inquadrare i fatti in questione. Ove una verifica più approfondita, in punto di diritto penale sostanziale, dovesse invece sfociare nel riconoscimento dell’irrilevanza penale dei fatti oggetto di giudizio, un tale esito rischierebbe invero di frustrare aspettative di punizione indotte da un bombardamento informativo
sulla trattativa finora attuato secondo un taglio decisamente criminalizzatore. Ma questa preoccupazione, almeno in teoria, non dovrebbe da sola costituire motivo sufficiente per avallare alla fine forme di penalizzazione impropria.
E’ realistico auspicare che le ragioni del diritto, come tali, facciano ancora sentire la loro voce e trovino in qualche misura ascolto?

Giovanni Fiandaca

NOTE
(1) Cfr. INGROIA, La “trattativa”. Giusto indagare, ne l’Unità del 20 giugno 2012; ID., Io so, libro-intervista a cura di G. Lo Bianco e S. Rizza, Milano, 2012, 29 ss.; LO BIANCO e RIZZA, L’agenda nera della seconda Repubblica, Milano, 2010, 17 ss.
Per un approccio non privo di dubbi critici nei confronti delle ipotesi ricostruttive dei magistrati palermitani v., invece, DEAGLIO, Il vile attentato, Milano, 2012, 78 ss.
(2) In questi termini si esprime, da magistrato con esperienza di lavoro presso la procura nissena, TESCAROLI, Se le bombe pagano. Breve storia della trattativa Stato-mafia, in Micro-Mega, n. 8/2012, 61.
(3) INGROIA, Io so, cit., 29.
(4) INGROIA, Io so, cit., 30 ss. In merito alla vicenda della sostituzione dei ministri dell’interno e della giustizia si veda il libro autobiografico di SCOTTI, Pax mafiosa o guerra? A venti anni dalle stragi di Palermo, Roma, 2012, 227 ss.
(5) In proposito, nella memoria della procura di Palermo del 5 novembre 2012 si parla, in modo molto generico, di «cedimento, seppure parziale, dello Stato».
(6) INGROIA, Io so, cit. 25.
(7) INGROIA, Io so, cit., 24 ss.
(8) Dopo una lunga indagine, è stata formulata una apposita richiesta di archiviazione in data 7 agosto 1998 a firma del procuratore aggiunto di Firenze Francesco Fleury, dei sostituti Gabriele
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Chelazzi, Giuseppe Nicolosi, Alessandro Crini e dell’allora sostituto procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso: per riferimenti a tale provvedimento archiviatorio cfr. LO BIANCO e RIZZA, L’agenda nera, cit., 403 s.
(9) Si veda MACALUSO, Politicamente scorretto, intervista con P. Calderola, Roma, 2012, 36.
(10) LUPO, Potere criminale, intervista con G. Savatteri, Roma-Bari, 2010, 157 ss.
(11) LUPO, Potere crimnale, cit., 169.
(12) Per recenti e lucidi riferimenti alle teorie cospirative cfr. PANEBIANCO, Malati di complottismo, in Sette (Supplemento del Corriere della sera) del 7 dicembre 2012.
(13) INGROIA, Io so, cit., 24.
(14) INGROIA, Io so, cit., 20.
(15) Cfr. GALLI C., Il diritto e il rovescio, Udine, 2010.
(16) Emblematico di un simile atteggiamento, ad esempio, l’articolo della giornalista SPINELLI, La patria dell’oblio collettivo, ne La Stampa del 6 giugno 2010.
(17) In senso analogo cfr. l’intervista del sociologo RICOLFI, Compagnia di giro, a cura di A. Calvi, ne Il Riformista del 18 dicembre 2009.
(18) Differenti, invece, gli addebiti rispettivamente relativi a: Massimo Ciancimino (figlio dell’ex Sindaco di Palermo Vito Ciancimino), accusato di concorso esterno in associazione mafiosa per avere rafforzato Cosa nostra fungendo da tramite di comunicazione tra quest’ultima, il proprio padre e i carabinieri del Ros; Nicola Mancino, ex ministro dell’interno, sospettato di falsa testimonianza; l’ ex ministro della giustizia Giovanni Conso, indagato per false informazioni al pubblico ministero.
(19) In proposito, più diffusamente, INGROIA, Io so, cit., 29 ss.
(20) Ci si limita a rinviare al quadro di dottrina e giurisprudenza tracciato in CRESPI-FORTI-
ZUCCALA’ (a cura di), Commentario breve al codice penale, Padova, 2008, 830 s.
(21) Al riguardo v. NOTARO, Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione, in
Legisl.pen., 2006, 401 ss.
(22) Nell’ambito del vivace dibattito subito accesosi nella stampa si è persino assistito – evento, certo, inconsueto – a un confronto diretto tra le contrapposte posizioni del procuratore-capo di Palermo e di un celeberrimo giornalista: cfr., rispettivamente, MESSINEO, Le intercettazioni indirette non sono lesive dell’immunità e SCALFARI, Ma l’ordinamento vieta di violare le prerogative del capo dello Stato, entrambi ne la Repubblica dell’11 luglio 2012.
(23) Cfr. MARTINARO, Ingroia: non mi aspettavo il ricorso del Colle, nel Corriere della sera del 23 settembre 2012.
(24) Che la strumentalizzazione politico-mediatica della questione delle intercettazioni indirette con Nicola Mancino tendesse a coinvolgere in senso delegittimante il Quirinale, è stato riconosciuto e
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denunciato dallo stesso presidente della Repubblica nell’ambito del discorso di inaugurazione della Scuola per magistrati di Scandicci: per riferimenti al riguardo cfr. la Repubblica del 16 ottobre 2012.
(25) Si veda il Fatto Quotidiano dell’11 agosto 2012 (e dei giorni successivi dello stesso mese).
(26)Si allude, ad esempio, alla partecipazione di Antonio Ingroia alla Festa dell’ “Italia dei valori” tenutasi a Vasto, durante il cui svolgimento venivano pubblicamente lanciate critiche nei confronti del capo dello stato: cfr. PALAZZOLO, Ingroia: la politica collusa blocca la verità, ne la Repubblica del 23 settembre 2012.
(27) ZAGREBELSKY G., Napolitano, la Consulta e quel silenzio della Costituzione, ne la Repubblica del 17 agosto 2012; ID., Il Colle, le procure e lo spirito della Costituzione, nel medesimo quotidiano in data 23 agosto 2012.
(28) CORDERO, La geometria del diritto, ne la Repubblica del 6 dicembre 2012.
(29) MANZELLA, Conflitto di poteri. L’equilibrio smarrito, ne la Repubblica del 16 luglio 2012.
(30) ONIDA, Il ruolo del Tribunale dei ministri, nel Corriere della sera del 19 agosto 2012.
(31) PELLEGRINO, Quel conflitto da risolvere, ne la Repubblica del 28 luglio 2012; ID., L’ambizione fisiologica dei poteri in lotta, ne la Repubblica del 23 agosto 2012.
(32) SCALFARI, Perché attaccano il capo dello Stato, ne la Repubblica del 19 agosto 2012. (33) MAURO, Un giornale, le procure e il Quirinale, ne la Repubblica del 24 agosto 2012.
(34) Sulla divaricazione di posizioni all’interno di Repubblica cfr. anche PANSA, La Repubblica di Barbapapà. Storia irriverente di un potere invisibile, Milano, 2013, 19 ss.
(35) Cfr. l’editoriale de il Fatto Quotidiano del 5 dicembre 2012.
(36) Intervista rilasciata a Salvo Palazzolo ne la Repubblica del 5 dicembre 2012.
(37) Cfr. ad esempio l’intervento dal titolo La giustizia, la politica e la ragion di Stato, a firma di INGROIA nel Corriere della sera del 9 agosto 2012.
(38) Per riferimenti cfr., ad esempio, Corriere della sera del 20 settembre e del 7 ottobre 2012. In argomento, per un approccio più tecnico v. LEONE, La libertà di opinione del magistrato: riflessioni sul “caso Ingroia”, in Quaderni costituzionali, n. 2/2012, 411 ss.
(39) Si veda l’intervista rilasciata a L. Milella, dal titolo Ingroia verso il divorzio dalle “toghe rosse”. “Accuse offensive, Md non è più la stessa”, ne la Repubbica del 10 ottobre 2012.
(40) Cfr. INGROIA, Io so, cit., 144 ss. A sostegno si veda TRAVAGLIO, Il pm imparziale è quello morto, ne L’Espresso del 27 settembre 2012.
(41) Così, efficacemente, BIANCONI, “Di certo non mi ritiro dall’attività politica”, nel Corriere della sera del 26 febbrario 2013.
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(42) Sul versante giornalistico, questo aspetto di novità è ad esempio sottolineato da BOLZONI, Trattativa Stato-mafia. Boss e politici a processo, ne la Repubblica dell’8 marzo 2013.
(43) Cfr. NARDUCCI, Processi politici nella Roma antica, Roma-Bari, 1995.
(44) Si veda PORTNARO, Introduzione al volume collettivo Processare il nemico, trad. it., a cura
di A. Demandt e P.P. Portinaro, Torino, 1996, XI.
(45) Per acuti rilievi in proposito cfr. ancora PORTINARO, Introduzione, cit., IX ss.





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