17 luglio 2013

FRANCO CORDERO CONTRO BERLUSCA E IL PD








Il Caimano, descritto con poche essenziali parole, e il Pd, ormai subalterno al PDL,  nella tagliente invettiva del grande maestro di diritto:

FRANCO CORDERO - DEMOCRAZIA SOTTO RICATTO

Da vent’anni siamo preda d’una compagnia mercenaria. Se l’è assoldata Berlusco Magnus, monarca assoluto. «Nomina sunt omina» ossia indicano gesta passate e future: nel catalogo medievale nomi malfamati erano indizio ad inquirendum, come la «mala physiognomia»; e la radice «lusco» descrive modi obliqui. Costui divorava mezzo mondo mescendo volgarità garrula, piagnistei, colpi a sorpresa. Sono tanti i trasgressori abituali. Lui configura una specie rara, anzi rarissima, essendosi ingigantito al punto da sfidare autorità e poteri, quasi invulnerabile: falsifica, corrompe, froda, plagia; inter alia, compra giudici; schiva le condanne perdendo tempo finché i delitti s’estinguano, essendosi tagliati i termini; già presidente del consiglio, costituisce fondi neri in paradisi fiscali, simulando passività. Tale l’oggetto del processo dove ha subito due condanne milanesi (tribunale e corte d’appello), passando in giudicato le quali, sarebbe interdetto dai pubblici uffici: la causa pende davanti alla Cassazione; sarà discussa martedì 30 luglio. Alla difesa fanno comodo tempi lunghi, perché parte del reato s’estinguerebbe, ma la Corte era obbligata a prevenire tale evento. Il caso, dunque, sarà deciso sulla base degli atti, come avviene sempre. Qui sta il punto: Sua Maestà rivendica privilegi d’excepta persona; rispetto a lui, non esistono norme; già l’accusa offende un tre volte benedetto dal voto popolare. Non valgono logiche giudiziarie: se i tali fatti siano avvenuti, corrispondano a modelli legali e l’autore debba essere punito; ragionando così i sacrileghi sminuiscono l’Unto. Provocatio ad populum. Ha dello sbalorditivo che in pieno ventunesimo secolo favole simili corrano nell’Europa evoluta. Ottantanove anni fa dei sicari uccidono l’oppositore Giacomo Matteotti: il regime fascista rischia il collasso, sebbene comandi ogni leva; lo sporco affare finisce in un giudizio truccato, chiuso da condanne miti. Mussolini fingeva ossequio alla legge. L’Olonese se la mette sotto i piedi.
A che punto siamo regrediti, lo dicono gli schermi. Uomini del re parlano e gesticolano a gara. Pigliamone uno dal rango ministeriale (e portafoglio, infrastrutture): milita in Comunione e Liberazione, visita la Terrasanta; venera divum Berlusconem. Mercoledì 10 luglio commenta l’accaduto: qualcosa d’orribile, «attentato alla democrazia»; tale essendo l’atto col quale «una parte della magistratura » tenta d’espellere l’uomo più votato dagl’italiani (che io sappia, non esistono decisioni deliberate dall’intero corpo), e via seguitando, più mimica stralunata. E nel merito della causa? Che domanda: è innocente, non potendo non esserlo; verità ontologica, direbbe sant’Anselmo. Nel dialogo evade dai punti pericolosi eruttando suoni vaghi. E fosse respinto il ricorso? Impossibile, ipotesi aberrante, fuori del mondo, intollerabile. In molti casi, però, s’era salvato per il rotto della cuffia, risultando estinti i reati. Colpa dei giudici, imparino il mestiere, poi nega che la voliera d’Arcore contenga colombe e falchi: credono tutti nel Silvius Magnus; o meglio, salmodiano in posa da credenti (sarebbe interessante qualche scorcio dei dialoghi tra collocutori sans gêne). Non era un capolavoro d’arte dialettica. Vi ricorreva la parola «storia», comune ad altre ugole: i Pdl hanno laringi collegate a un cervello collettivo; anche nel drammatico bisbiglio della Pasionaria risuonava lo stesso bisillabo. Qualcuno vuole dal premier una condanna dell’atto eversivo compiuto dalla Corte e lui resiste, gentiluomo equidistante: i Pd ortodossi «rispettano» le scelte giudiziarie, auspicandole tali da non turbare lo sterile idillio governativo; quando poi i partner chiedono tre giorni d’astensione dai lavori parlamentari, segnale polemico alla Cassazione, non è atto onorevole accordarne uno. Nessuno se ne stupisce. L’alambicco genetico fa degli scherzi. Palmiro Togliatti, temprato nel pragmatismo staliniano, aveva idee chiare; e forbito umanista (disputava con Vittorio Gorresio sul gerundio nello Stilnovo), non avrebbe degnato Re Lanterna, al quale i discendenti parlano rispettosi, cappello in mano, ormai cugini d’Arcore. Vedine due. Massimo D’Alema, sibilante uomo d’apparato, implacabile contro i concorrenti; e Luciano Violante, alias Vysinskij, feroce pubblico ministero nei dibattimenti moscoviti 1936-38. Non trascuriamo una componente craxiana: postcomunisti governativi distano poco da Fabrizio Cicchitto; in Sandro Bondi, venuto dal partito-chiesa, persistono invece cromosomi frateschi.

Conteremo i trasmutati dal voto sulla questione se B. fosse eleggibile. No, dicono norme più chiare del sole, ma esistendo accordi sotto banco, i partiti erano concordi nello svuotarle con una lettura da ubriachi, nel senso che l’incapacità colpisca solo i titolari della concessione, ossia Fedele Confalonieri, e l’effettivo padrone resti fuori causa, quando anche s’interessi alla gestione, come esemplarmente avveniva nel caso deciso dalla sentenza Mediaset. Il voto pro B. (in perfetta mala fede) significherebbe: qui comanda lui; non importa che due elettori su tre lo rifiutino; gli oligarchi hanno deciso cospirando nella notte 19-20 aprile perché restasse al Quirinale l’assertore delle «larghe intese», utili solo al pirata. Voto sicuro, secondo gl’informati. Toglieva ogni dubbio un’intervista 20 giugno, dove lo junior neocapogruppo Pd alla Camera afferma che tale sia la norma (rectius, lettura asininofraudolenta d’un testo), e molto applaudito ex adverso, sabato 13 luglio recita un autodafè: il Pd era «giustizialista», «sfrenatamente antiberlusconiano», non lo sarà più; inalbera l’insegna «garantismo » (in semiotica berlusconiana, impunità); annuncia anche una riforma in materia d’intercettazioni. Ha viso ed eloquio imperiosi questo giovane castigamatti del gruppo Pd, paternamente accudito da Pierluigi Bersani (icona e notizie in Wanda Marra, nel «Fatto Quotidiano, 9 luglio). Se i voti gli pesano e vuol perderne, l’infelice partito se lo tenga caro. 


La Repubblica, 13 luglio 2013

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