03 luglio 2013

PER FRANZ KAFKA




Per il centotrentenario della nascita di Franz Kafka (3 luglio 1883 – 3 giugno 1924) propongo questa mattina la lettura di un breve saggio di Giorgio Fontana pubblicato ieri sul suo sito http://www.giorgiofontana.com/

GIORGIO FONTANA – ANCHE SE LA REDENZIONE NON GIUNGE

L'uomo che nacque centotrenta anni fa a Praga non ebbe un destino semplice: visse una vita inquieta, cercando di dominare il "mondo immenso che aveva in testa": figlio del burbero commerciante Hermann Kafka, il giovane Franz fu un impiegato modello ma anche uno scrittore notturno, irrisolto e tormentato: sabotò con maniacale precisione i propri amori, coltivò sogni vaghi di fuga senza mai andarsene dalla capitale boema, si ammalò di tubercolosi, morì quarantenne e scrisse alcune fra le pagine più straordinarie della letteratura di ogni tempo.
Eppure la parte più rilevante della sua opera (fra cui i tre romanzi) ci è stata consegnata grazie a un tradimento: il suo migliore amico e primo esegeta, Max Brod, si rifiutò di distruggere quanto richiesto dall'autore in persona. In questo paradosso — lo spregio di un testamento e insieme il dono di una meravigliosa eredità letteraria — c'è già molto di Kafka stesso. C'è la presenza di una contraddizione da cui non si può fuggire, di una tragedia elementare e che può essere solo analizzata all'infinito, come all'infinito può essere analizzato il gesto di Max Brod: fece bene o fece male? Tutti gli scritti di Kafka pongono al lettore simili enigmi: le sue parabole più riuscite mostrano l'assurdo come se la lettera del testo non bastasse mai, non portasse mai a una conclusione certa.
Per questo Albert Camus disse che l'opera di Kafka invita alla rilettura. E aveva ragione, anche se questa frase contiene un germe di pericolo: sacrificare l'arte di Kafka sull'altare di qualsiasi interpretazione ulteriore. Ridurla a un mezzo, a un pupazzo da ventriloquio.
Di certo questa non era l'intenzione del premio Nobel francese, ma è una tendenza dalla quale occorre salvarsi. A differenza di altri grandi classici la bellezza dell'opera kafkiana è stata forse troppo poco percepita e studiata. Questo si nota in primo luogo nell'immagine preconcetta e falsa che molti hanno di Kafka: una specie di conte Dracula della letteratura tetro, cupissimo, nichilista. Ma si nota anche nella molteplicità di letture che sono state proposte della sua opera: la chiave psicanalitica (con tutto il bagaglio di noti episodi familiari, in relazione al padre); l'influsso della tradizione ebraica e in particolar modo chassidica; l'ossessione burocratica; la visione teologica — e così via.
Senza contare infine la mescolanza di generi e temi: fiabe, miti, apologhi di animali, forme narrative lunghe e brevi, carnevalesche e cupe insieme, da opera buffa e da terribile tragedia. America ad esempio è un romanzo di formazione, ma è anche un romanzo d'avventura, un romanzo comico, un romanzo tragico e un romanzo grottesco.
Questa pluralità è ancora una volta lo specchio della poetica kafkiana, non meno che della sua effettiva realizzazione: romanzi incompiuti, annotazioni sparse, aforismi. Il testo stesso dello scrittore ceco è un invito e inseme un'elusione: direi quasi una sfida: difficilmente Kafka pone una questione in termini univoci, e si diverte a spezzarla e inseguirla anche dal punto di vista strettamente narrativo. Nei racconti di Kafka ci sono continue interruzioni, piccoli fastidi e divagazioni che sviano l'operato del protagonista: in una scala più ampia, è il medesimo procedimento che governa il destino dell'agrimensore K., del messaggero dell'Imperatore o di Josef K. — per quanto si sforzino, la meta è loro preclusa da un'infinità di impedimenti.
Certo questo non porta a un relativismo assoluto o a una confusione semantica. La parola kafkiana è anzi chiarissima, il suo stile cristallino: tale lingua "minore", come suggerivano Deleuze e Guattari, lo mette al riparo da ogni interpretazione forzosa; è egli stesso a porgere al lettore un gomitolo di complessità infinita. Il suo tono non è mai muscolare; la grazia delle frasi è proporzionale al loro effetto devastante sul lettore, e la sua voce rimane unica: non fa "scuola", ed è impensabile "scrivere un romanzo alla Kafka".
La narrazione si snoda in un modo che qualunque scuola di scrittura boccerebbe: perché tutte queste divagazioni? a cosa servono questi rallentamenti? Eppure a lui riesce naturale: la lingua non fa altro che rendere ancora più evidente e disarmante la ricerca. Josef K. e il prete del Processo potrebbero andare avanti fino alla notte dei tempi a discettare attorno la novella sulla Legge, come in un racconto talmudico: "il periodare caratteristico di Kafka, spezzato da continue proposizione incidentali, che sembra non giungere (o non voler giungere) ala fine. Come la vita stessa che abbraccia, esso è labirintico e insieme nitido, astratto e insieme concreto, una constatazione realistica spoglia di pathos" (Urzidil, Di qui passa Kafka, Adelphi).
Ecco dunque il metodo. Si presenta un evento irriducibile e fondamentale, un evento — per così dire — "ottuso". Vieni arrestato benché incolpevole (Il processo). Non sei ammesso in un villaggio dove invece eri stato convocato (Il castello). Vieni condannato senza motivo da tuo padre (La condanna). Ti trasformi in un insetto (La metamorfosi). L'essere colpisce i personaggi di Kafka come un maglio, eppure l'assurdo è vestito da realismo assoluto: distruggendo la metafora, egli usa i mezzi di uno scrittore naturalista per rappresentare un mondo insieme tragico e bizzarro.
Come confessò a Gustav Janouch, per lui non si trattava di "inserire miracoli in avvenimenti comuni", bensì di svelare il miracoloso che essi già contengono: il suo metodo è dunque una sorta di trascrizione fantastica. E come ricorda Günther Anders, "Kafka «s-posta» l'apparato normale del mondo per renderne visibile la follia. Ma al tempo stesso egli tratta questo aspetto spostato come qualcosa di completamente normale; e in tal modo descrive addirittura proprio il fatto folle che il mondo folle passi per normale" (Pro o contro Kafka, Quodlibet). Tramite una distorsione simile a quella di un esperimento scientifico, egli verifica la realtà: se il mondo di Kafka ci appare spesso così terribile, è perché è il nostro mondo, quello che ci aspetta ogni giorno fuori dalla porta: il Processo ne è un modello, o se preferite una versione cifrata. Distruggendo la similitudine, Kafka trascina il lettore nell'abisso: devi accettare di essere un insetto, non di "essere trattato come un insetto": l'immagine si fa realtà, con tutte le conseguenze del caso.
George Steiner disse che Kafka opera ai margini del silenzio — ma non vi cade. Corteggia l'abisso, conosce la lusinga e la pietà del tacere, eppure osa comunque: vuole testimoniare, vuole che la sua parola sopravviva all'ingiustizia. Ed è qui che ritorna il paradosso del gesto di Max Brod, il "testamento tradito" di cui parlò Milan Kundera: leggiamo ciò che non dovremmo leggere: insieme onorando e infangando la memoria di questo scrittore. La sola scelta di aprire Il castello è già una scelta etica: stiamo andando contro la volontà di un morto: fin da subito, Kafka pretende il massimo da noi non solo come lettori ma come esseri umani — la sua sete di integrità è implacabile.
Centotrenta anni sono passati dalla sua nascita, e circa un secolo dall'apparizione dei suoi primi scritti. Eppure leggere Kafka oggi è ancora un'esperienza piena di incanto: il tempo non ha avuto effetto sulla sua arte. Secondo Felix Guattari, anzi "il suo modo di abbordare i processi dell'inconscio sociale lo situa forse nel XXI secolo". Il valore di un'opera non si dovrebbe misurare in termini di attualità: eppure, è incontestabile che la capacità di Kafka di scrutare negli abissi dell'umanità non è invecchiato di un solo istante. Di più: suona quanto mai urgente, oggi, la sua disperata ricerca di una parola vera, esatta, salvifica, mai schiava di compromessi o velleità.
Per questo motivo pensarlo come uno scrittore nichilista è un errore: così come pensare all'uomo come a un individuo cupo e vampiresco è un falso storico. Franz Kafka era dotato senz'altro di una sensibilità straordinaria, per molti versi eccessiva: ma essa si sposava al garbo e all'ironia, al sorriso e alla gentilezza: non c'è ricordo di lui che non sia colmo d'affetto. Ma più ancora — nonostante la sua ricerca perversa di una colpa da scontare — non fu in alcun modo un arreso. Di fronte all'onnipresenza del male e della falsità si rifugiò nella ricerca della parola come antidoto disperato: per quanto cosciente del proprio fallimento — un fallimento ontologico, per così dire, e che viene riflesso nella precarietà dei suoi testi — non smise mai di tentare.
Tutta la sua vita può essere vista come un affanno per sottrarsi a tale condizione. E così quella di molti suoi personaggi: si affannano di continuo per comprendere, penetrare, ottenere: sono caparbi e risoluti, al limite dell'ingenuità o della perversione. Certo, il mondo è condannato: ma né Josef K. alle prese con il suo processo, né l'agrimensore K. del Castello, né Karl Rossman di America o Gregor Samsa trasformato in insetto si arrendono al terrificante ordine cui sono sottoposti, e dal quale sono stati colpiti.
La Legge dei Padri li divora con l'indifferenza di una catastrofe naturale, ma è di loro, figli feriti, che ci ricordiamo. Qui si svela il cuore della tragedia kafkiana: il razionalismo e la testardaggine di questi personaggi è esattamente ciò che li condanna: sappiamo che dal Tribunale si può ottenere facilmente un'assoluzione temporanea, che ritarderebbe all'infinito l'esecuzione: ma per Josef K. non è abbastanza. Egli è innocente e pretende di esserlo riconosciuto in pieno — una condizione che molti, troppi esseri umani hanno provato.
Gli stessi Diari di Kafka sono pieni di riferimenti di questo tipo; fra i tanti ne scelgo uno: "scriverò nonostante tutto, assolutamente: è la mia battaglia per l'esistenza". Sì: la scrittura non è certamente un vezzo, ma non è nemmeno pura ricerca di bellezza, né semplice espressione di pensiero: è una guerra per affermarsi e trovare un punto saldo dentro di sé, per testimoniare di esistere. Guardami. Sono qui. Come nel racconto Un messaggio dell'imperatore, benché la missiva del sovrano non arriverà mai (a causa di mille ostacoli e mille difficoltà) e dunque la speranza sia vana, ciò nonostante ancora la sogniamo. Perché? Perché non ci resta altro. Per non cedere.
In questo Kafka portò alle estreme conseguenze la lezione del suo scrittore preferito, Flaubert: non solo la parola deve essere sempre quella giusta, ma deve avere anche una virtù ulteriore, etica: deve mirare disperatamente alla verità: "La sua arte non è soltanto, come può sembrare, una ripugnante deformazione della realtà", scrisse Ladislao Mittner nel saggio Kafka senza kafkismi: "è anche, nei suoi momenti più alti e, in teoria, dovrebbe sempre essere, la distruzione di quella ripugnante menzogna che è la realtà."
La fine terribile dei personaggi di Kafka — vittime, spesso incolpevoli — non disperde in alcun modo la loro resistenza: anzi, la rende ancora più ricca. L'integrità di Kafka sta in questo: nella capacità di rappresentare la ferocia del Potere e insieme nel coraggio di rivendicare le ragioni del singolo. Ancora dai Diari: "Anche se la redenzione non giunge, voglio però esserne degno in ogni momento". La redenzione non sarebbe giunta, né per lui né per i suoi personaggi. Ma è così che dovremmo ricordarlo, centotrenta anni dopo la sua nascita.
(03/07/13)
N. B. : una versione inglese di questo saggio è stata pubblicata su Berfrois


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