02 luglio 2013

ECOLOGISTI NEGLI USA





Riprendiamo dal sito http://www.democraziakmzero.org/2013/07/02/ecologismo-usa-una-storia/  un saggio di Giorgio Nebbia, intitolato “L’ecologismo americano: i temi fondamentali”, anticipazione del terzo volume di “Altro Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico”, Vol. III, “Il capitalismo americano e i suoi critici”, volume di prossima uscita presso Jaca Book.

GIORGIO NEBBIA – PER UNA STORIA DELL’ECOLOGISMO USA

L’assalto alla natura
L’ecologismo, in quanto protesta contro le violenze esercitate dalle attività umane, specialmente attività di sfruttamento delle risorse agricole, forestali, minerarie, nei confronti della natura, trova le sue radici e si esprime con forza nella società e nella cultura americana.
Specie nel corso dell’Ottocento l’occupazione del Nord America da parte degli immigrati europei, spesso di origine contadina e proletaria, avvenne nella forma di uno sfruttamento senza precedenti delle risorse del grande paese, poco abitato da sparse comunità di nativi – i «pellerossa» – che vivevano come cacciatori, in genere nomadi, con antiche regole nelle quali il rispetto per la natura era legge e anche comportamento necessario per continuare a disporre di cibo.
I coloni europei si trovarono di fronte a vaste terre incontaminate, con grandi pascoli e animali selvaggi, e con grandi foreste da cui trarre legname commerciale da bruciare come fonte di energia e da usare come materiale da costruzione, e davanti a grandi risorse minerarie, fra cui depositi di oro nelle montagne della costa occidentale. La colonizzazione è diventata così una corsa dalla costa orientale verso l’Ovest, il favoloso West. Occorrevano ferrovie e quindi ferro e carbone e legname per le traversine, e mano d’opera a basso prezzo. I pascoli quasi incontaminati vengono in parte trasformati in campi di cereali e in parte utilizzati per l’allevamento intensivo del bestiame da trasformare in carne anche da esportare verso l’Europa. I nativi e gli animali allo stato naturale, soprattutto grandi popolazioni di bufali, ostacolo alla espansione, vengono sterminati; i nativi sopravvissuti relegati in riserve che imponevano un radicale e traumatico cambiamento del modo di vivere e del rapporto con l’ambiente.
A niente servivano gli avvertimenti che pochi saggi nativi rivolgevano ai capi degli invasori, come quello attribuito ad un «capo Sioux», datato 1854 e rivolto al presidente degli Stati Uniti Franklin Pearce: «Quando l’ultimo albero sarà stato abbattuto, l’ultimo fiume avvelenato, l’ultimo pesce pescato, l’ultimo animale libero ucciso, vi accorgerete che non si può mangiare il denaro», avvertimento diventato nei decenni recenti una specie di bandiera dell’ecologismo, come invito alla pace e al rispetto delle leggi della natura. Numerosi film, nel corso del Novecento, hanno raccontato la «conquista» dell’Ovest, in genere in chiave entusiastica; solo recentemente si è cominciato a vedere tale conquista come violenza e distruzione di valori umani e ambientali . La corsa all’oro ha portato inquinamento dei fiumi e la nascita delle prime violente comunità cresciute senza alcun piano, e ben presto i coloni hanno cominciato a sperimentare la realtà dei «limiti»; l’esaurimento delle prime ricche vene di oro e di minerali, la crescente difficoltà di trovare nuovo legname, la graduale perdita di fertilità dei pascoli e dei campi a causa dell’erosione del suolo.
In America si riprodussero, su grande scala, i modelli europei della libera impresa, del successo economico, con le inevitabili conseguenze negative sull’ambiente naturale. La Guerra di secessione, con la vittoria del Nord industriale sul Sud agricolo e schiavista incentivò l’assalto alle risorse naturali e forestali. Già alla metà dell’Ottocento si alzarono le prime voci critiche dell’ecologismo americano, sia negli Stati orientali della Nuova Inghilterra, dove ancora non erano esplose l’industrializzazione e l’urbanizzazione selvaggia e dove esisteva ancora una cultura in relativa armonia con la natura, sia negli Stati della costa del Pacifico.
Sul piano letterario il Moby Dick di Herman Melville (1819-1891) , scritto nel 1851, raccontò lo scontro fra l’aggressività «economica» dell’uomo e la difesa dell’essere naturale. Henry David Thoreau (1817-1862) nel libro Walden o la vita nei boschi del 1854, diffuse ad un vasto pubblico i valori del recupero del contatto con la natura. Nel 1864 George Marsh (1801-1882), geografo, scrittore, uomo politico, viaggiatore, nel libro L’uomo e la natura , descrisse in un grande affresco gli effetti delle attività umane sulla natura in vari paesi del mondo.
Negli stessi decenni dell’Ottocento si sono formati alcuni gruppi «ecologici», a partire dalla costa occidentale, in difesa delle foreste californiane di sequoie, esposte ad una aggressione indiscriminata e indicate come simbolo di un’America da salvare. Questi movimenti ebbero risonanza anche a livello governativo: nel 1849 fu creato il Dipartimento dell’Interno che, a differenza delle istituzioni europee con lo stesso nome, essenzialmente ministeri di polizia, negli Stati Uniti ebbe la responsabilità delle risorse naturali, delle terre federali, e degli affari indiani. Nel 1872 fu istituito il parco nazionale di Yellowstone. L’associazione naturalistica Audubon Society fu fondata nel 1886 ; l’associazione Sierra Club, originariamente impegnata nella difesa delle sequoie della Sierra californiana, fu fondata da John Muir (1838-1914) nel 1892. Nei primi anni del Novecento il presidente Teodoro Roosevelt emanò le prime leggi per la difesa della natura .

Arriva Mumford
Di Lewis Mumford (1895-1990) è difficile dare una definizione: urbanista e studioso di architettura, scrittore di arte e di letteratura, analista e critico della tecnica e delle sue innovazioni, giornalista attento ai mutamenti del suo tempo, polemista e pacifista. Ogni lettore delle sue opere potrebbe classificarlo in una casella corrispondente alle sue personali sensibilità. Nato a Long Island, vicino New York, e vissuto nella cittadina di Amenia, pure vicino New York, da questo posto tranquillo ha osservato e interpretato come pochi altri i mutamenti del mondo: la Prima guerra mondiale, la Grande crisi, l’avvento dei fascismi in Europa e del New Deal in America, la Seconda guerra mondiale, l’avvento dell’era atomica, l’utilizzazione della tecnica come strumento del potere.
L’avventura ecologista, se così si può dire, di Mumford comincia con il libro «The brown decades» in cui Mumford esamina le correnti americane attente ai rapporti fra l’uomo e l’ambiente, e prosegue, in una analisi dei rapporti, anche «ecologici», fra tecnica, potere e ambiente, nella trilogia: Tecnica e cultura, Il mito della macchina e Il Pentagono del potere. Originariamente Mumford aveva pensato Tecnica e cultura (1934) come il primo volume di un ciclo The renewal of life che sarebbe continuato con La cultura delle città (1938) a cui fece seguito La città nella storia , e più tardi, in quella che era ormai l’età della violenza atomica, con Il Pentagono del potere e Il mito della macchina .
Tecnica e cultura è stato scritto dopo la fine drammatica della fragile stagione del boom economico americano dei ruggenti anni Venti, in quel 1934 che vedeva da una parte la conquista del potere da parte del nazismo in Germania, e, dall’altra parte, la primavera del New Deal rooseveltiano; risente perciò dell’influenza degli anni in cui, in America, i problemi delle risorse naturali, del territorio, della regolazione del corso dei fiumi – cioè i problemi più squisitamente «ecologici» in senso moderno – ebbero un ruolo centrale.
Mumford ha usato il termine Technics per indicare l’arte della trasformazione della natura con l’abilità umana in cose utili agli individui e alla società, distinguendola da «tecnologia». Tecnica e cultura riprende le idee di autori ammirati da Mumford: l’inglese Robert Owen (1771-1858) , l’anarchico russo Piotr Kropotkin (1842-1921) , il riformatore inglese Ebenezer Howard (1850-1928) , l’economista eterodosso americano Thorstein Veblen (1857-1929) , il sociologo tedesco Werner Sombart (1863-1941) , lo scozzese Patrick Geddes (1854-1933).
Patrick Geddes, soprattutto, lo straordinario scozzese che ha scritto di urbanistica (ha «inventato» la parola «conurbazione»), di biologia, di economia (ha scritto un saggio sull’«economia cartesiana»), di storia della tecnica. Mumford ha considerato Patrick Geddes come suo maestro spirituale, al punto da dare il nome Geddes al figlio, morto diciannovenne in combattimento sull’Appennino durante la seconda guerra mondiale e sepolto nel Cimitero di guerra Alleato di Firenze.
Dalle opere di Geddes, in particolare da Città in evoluzione (1915) , Mumford trae alcune idee sulla evoluzione della tecnica per mettere in evidenza come il potere, in particolare il potere capitalista, si appropria, per rafforzare e aumentare se stesso, delle innovazioni che potrebbero essere liberatorie per gli esseri umani e che sono state e sono usate in maniera deleteria per gli uomini e per l’ambiente naturale. Seguendo Geddes, Mumford individua nei rapporti fra l’evoluzione della società, la tecnica e l’ambiente, un’epoca «eotecnica» nella quale gli esseri umani utilizzavano una tecnica basata sull’uso di fonti di energia rinnovabili come il moto delle acque, la forza del vento, il calore della legna. Il legno, oltre che principale combustibile per il riscaldamento e per il funzionamento delle fabbriche, era il più importante materiale da costruzione per gli edifici e le navi. Nell’era eotecnica gli esseri umani con queste risorse rinnovabili erano capaci di estrarre minerali dalla Terra, di trasformare i minerali in metalli, conoscevano alcuni rudimenti della chimica, sapevano costruire edifici anche giganteschi, strade, ponti, acquedotti, destinati a durare nei secoli.
All’era eotecnica seguì, a partire da circa il 1600, una nuova era, che Geddes e Mumford chiamano «paleotecnica», resa possibile dai perfezionamenti nell’estrazione del carbone, dall’uso del carbone per la produzione su larga scala del ferro, dalla trasformazione del ferro in macchine capaci di fornire energia e di compiere operazioni che fino allora erano state svolte dal lavoro umano, dal progresso nelle conoscenze chimiche. L’avvento dell’era paleotecnica fu tenuto a battesimo dalla nascita, nell’ambito della borghesia commerciale, di una classe di studiosi e pensatori, insieme filosofi e naturalisti, e dalla rapida circolazione delle conoscenze attraverso le accademie scientifiche, le riviste internazionali. Il filosofo non si vergognava di fare, incoraggiare e contribuire a diffondere, invenzioni e scoperte di rapida ricaduta commerciale. È il mito di un progresso che significa «di più», maggiori quantità di beni materiali ottenibili con un più intenso uso – e impoverimento – delle risorse naturali: carbone, minerali, acqua, fertilità del suolo, pascoli e foreste. Progresso accelerato dalla comparsa del petrolio, la nuova fonte di energia principalmente «americana», e dalla cultura «della macchina».
Il sistema della macchina comporta un crescente assalto alle risorse della natura. Mumford dedica molte pagine al sistema di miniera, che distrugge i boschi, inquina le acque con metalli tossici e l’aria con fumi pestilenziali. Il primo segno distintivo dell’industria paleotecnica fu l’inquinamento dell’aria; il fumo del carbone era l’incenso del nuovo industrialismo. La produzione di merci come fine unico per la produzione di ricchezza, induceva i fabbricanti e i commercianti a produrre merci tossiche e pericolose pur di aumentare i guadagni, con conseguente «immiserimento della vita». Inoltre il sistema di fabbrica comportò l’abbandono delle campagne e la migrazione di una crescente popolazione nelle città, vicino alle fabbriche, e la nascita di quartieri squallidi all’insegna della speculazione immobiliare, con conseguente degradazione del lavoratore. Il modello dell’industrialismo europeo, che aveva indignato Charles Dickens, ben presto si trasferì in America, come denunciava un crescente numero di scrittori americani, fra cui Upton Sinclair (1878-1968), l’autore di Re carbone e La giungla.
L’incontro fra ecologismo e critica della società dei consumi è la conseguenza dell’aumento della produzione delle merci che ben presto diventano, da mezzi per soddisfare bisogni umani, strumenti e occasioni di oppressione e di potere. Certi passi di Tecnica e cultura (T&C) – «La gente sacrifica il tempo e le soddisfazioni attuali nella mira di procurarsene altre, in quanto suppone che ci sia un rapporto diretto fra il benessere e il numero di vasche da bagno, di automobili e di altre simili cose fatte a macchina» – riecheggiano alcuni passi di Marx, di Veblen, di Sombart, specialmente in Luxus und Kapitalismus .
Sull’effetto distruttivo di materia, oltre che di vita, connaturato alla guerra Mumford scrive: “Durante una guerra l’esercito non è solo un puro consumatore, ma un produttore negativo: cioè invece che benessere produce miseria, mutilazioni, distruzione fisica, terrore, carestie e morte. L’esercito, inoltre, è ideale come consumatore in quanto tende a ridurre a zero l’intervallo di tempo fra vantaggiosa produzione e vantaggiosa sostituzione. La casa più lussuosa e sovraccarica non può competere, per la rapidità di consumo, con un campo di battaglia. Mille uomini abbattuti dai proiettili corrispondono più o meno alla richiesta di mille nuove uniformi, di mille fucili, di mille baionette e mille colpi sparati da un cannone non possono venire recuperati e reimpiegati. La guerra è, insomma, la salute della macchina .
Dai costi sociali ed umani provocati dalla megamacchina – di cui furono e sono simboli, modernissimi, anche se intrinsecamente paleotecnici, l’automobile, il grattacielo e poi la bomba e l’energia atomica – e dal suo «impero del disordine» ci si può liberare soltanto con profondi mutamenti sia tecnici sia politico-sociali.
In Tecnica e cultura, nel 1934, Mumford immagina che molte innovazioni tecniche, che già si profilavano all’orizzonte, avrebbero portato più o meno presto alla transizione dall’era paleotecnica ad un’era neotecnica: la sostituzione del ferro con l’alluminio, la sostituzione del carbone e del petrolio con l’elettricità, i successi delle sintesi chimiche, avrebbero potuto portare a città più umane, a una più razionale distribuzione della popolazione fra città e campagna, a una società meno inquinata. Ma anche la società neotecnica sarebbe stata una fase di passaggio ad una società biotecnica, il concetto che ispira tutta La città nella storia, un seguito ancora più «ecologico» di Tecnica e cultura.
Le parole di Mumford risentono delle aspirazioni e speranze che caratterizzarono l’età di Roosevelt: la pianificazione territoriale; la difesa del suolo contro l’erosione; le grandi dighe per la produzione di energia idroelettrica, rinnovabile; un freno all’arroganza delle grandi compagnie minerarie; allo sfruttamento forestale; alla espulsione dei piccoli agricoltori dalle loro terre, acquistate dalle banche e dai grandi coltivatori e allevatori; una edilizia popolare; un nuovo rapporto fra città e campagna; l’uso dei prodotti e sottoprodotti agricoli come materie prime per l’industria chimica; la lotta alle frodi commerciali. Attività «tecniche» e commerciali con minori effetti negativi sull’ambiente. Nel parlare delle enormi «montagne di scorie» generate dalla «civiltà della macchina», Mumford afferma che «possiamo oggi guardare avanti al giorno in cui i gas velenosi e i mucchi di trucioli, i sottoprodotti della macchina una volta inutilizzabili, potranno venire trasformati dall’intelligenza e dalla cooperazione sociale, ed adattati ad usi più vitali» .
Mumford discute a lungo «la possibilità di utilizzare l’energia solare o la differenza di temperatura che esiste tra le profondità e la superficie dei mari tropicali; la possibilità di applicare su vasta scala nuovi tipi di turbine a vento che, disponendo di una efficiente batteria di accumulatori, sarebbero da sole capaci di fornire le necessarie quantità di energia» . Secondo Mumford la svolta neotecnica e biotecnica sarebbe stata possibile soltanto attraverso «l’appropriazione sociale delle riserve naturali (anticipando di mezzo secolo il concetto che oggi è indicato come salvaguardia dei ‘beni comuni’), il ridimensionamento dell’agricoltura, la valorizzazione delle regioni in cui vi è grande disponibilità di energia cinetica sotto forma di sole, vento, acqua» .
Mumford spiegava bene che l’origine della violenza della tecnica contro la natura deriva dallo sfruttamento privato di risorse come l’aria o l’acqua o la fertilità del suolo o la ricchezza delle miniere, che a rigore non hanno un padrone; la crisi ecologica è quindi sostanzialmente una crisi del bene collettivo. La salvezza avrebbe dovuto essere cercata mettendo in discussione i principi stessi della proprietà privata, recuperando il carattere pubblico dei beni come l’aria o il mare o le acque o le foreste o le miniere: «gli obiettivi dell’economia finanziaria e quelli dell’economia sociale non possono coincidere; la proprietà collettiva delle fonti di energia, dalle regioni montagnose dove i fiumi nascono, fino ai più remoti pozzi di petrolio, è la sola garanzia per un uso e una conservazione efficace» .
Mumford pensa alla attenuazione della violenza ecologica attraverso un «comunismo di base», ben diverso dalla struttura burocratica e assolutista che già emergeva nell’Unione Sovietica, “un comunismo di fondo che implichi l’obbligo di partecipare al lavoro della comunità, che consenta di soddisfare i bisogni fondamentali con una pianificazione della produzione e del consumo, un sistema economico in cui il fine della produzione sia il raggiungimento del benessere sociale al posto del profitto privato, in cui il diritto di proprietà sia trasferito dai singoli proprietari alla comunità. La sola alternativa a questo comunismo è l’accettazione del caos: le periodiche chiusure degli stabilimenti e le distruzioni, eufemisticamente denominate «valorizzazioni», dei beni di alto valore, lo sforzo continuo per conseguire, attraverso l’imperialismo, la conquista dei mercati stranieri” .
Per tutti gli anni Trenta Mumford continuò instancabile a scrivere e tenere lezioni e conferenze sui problemi della città e dell’ambiente, con interventi e scritti che accompagnavano il New Deal e la nuova politica di rimboschimento, di difesa del suolo, di regolazione del corso dei fiumi, di edilizia popolare. A tale fermento contribuì anche l’industria cinematografica con vari film e lo stesso Mumford scrisse e diresse il film The City (1939) .

La bomba
Che ci dovesse essere qualcosa di misterioso nell’«atomo» si era visto fin dall’inizio del Novecento quando la parola radioattività fece la sua comparsa; ben presto vennero riconosciuti gli effetti nocivi per la salute umana dell’esposizione alle radiazioni, limitate, per i primi decenni del secolo, a quelle emesse dal radio, l’arma che uccide e risana. Solo negli anni Venti e Trenta gli scienziati cominciarono ad affacciarsi sull’universo della radioattività artificiale, a porsi l’obiettivo di svelare, e forse, di utilizzare l’energia liberata dalla trasformazione dell’uranio, la nuova parola magica che sembrava promettere qualcosa di meraviglioso per l’umanità.
Un fumetto degli anni Trenta, con le storie fantascientifiche di Gordon Flash, il personaggio che affronta grandi avventure nello spazio in lontani pianeti, contiene la battuta: «Gordon metti altro uranio nel motore» per aumentare la velocità di un razzo spaziale. Un fumetto di Topolino, «Topolino e l’uomo nuvola» del 1936, racconta l’incontro di Topolino con un’isola sospesa per aria nella quale vive il dottor Enigm che ha inventato un motore «atomico» con cui riesce a tenere sollevata la sua isola artificiale. Quando Topolino lo invita a far conoscere la sua invenzione a tutti per assicurare energia all’umanità, il dottor Enigm si rifiuta perché qualcuno potrebbe farne un uso perverso. I fumetti talvolta interpretano sentimenti popolari e il racconto di Topolino indica che già negli anni Trenta si intuiva che l’atomo nascondeva dentro di sé un potenziale di energia, ma anche di pericoli.
Einstein era popolarissimo grazie alla sua «equivalenza» fra massa e energia, anche se nessuno sapeva veramente come trarre energia dalla massa degli atomi. Gli scienziati, con grande risonanza popolare, avevano cominciato a descrivere la formazione di nuovi atomi artificiali, ma soltanto nel gennaio 1939 viene data la corretta interpretazione della trasformazione dell’uranio in seguito al «bombardamento» con neutroni. Fu così reso noto che l’uranio subisce una fissione con trasformazione di una parte della massa nell’equivalente energia termica prevista dall’equazione di Einstein. La notizia passò dall’Europa – dove esistevano i tre principali gruppi a Roma, Parigi e Berlino, impegnati nel bombardamento dell’uranio con neutroni – agli Stati Uniti dove venne immediatamente compresa la potenziale importanza energetica, commerciale e militare, della fissione nucleare.
In quell’estate del 1939 i rumori di guerra si stavano diffondendo in Europa, e negli Stati Uniti, dove si erano trasferiti molti degli scienziati nucleari europei, in parte ebrei in fuga dalla Germania nazista, apparve chiaro che la potenza della fissione avrebbe potuto essere utilizzata a fini militari, per costruire una «bomba atomica». Nel settembre 1939 la Germania nazista aveva invaso la Polonia dando inizio alla Seconda guerra mondiale; Einstein e gli scienziati sapevano che il bombardamento dei nuclei di uranio con neutroni ne provocava la fissione con liberazione di grandi quantità di energia, che le stesse conoscenze erano a disposizione dei fisici tedeschi e che la Germania avrebbe potuto usare tali reazioni per costruire una bomba, una superarma. Nell’agosto dello stesso 1939 Einstein firmò una lettera indirizzata al presidente Roosevelt per avvertirlo di tale possibilità, suggerendo di far condurre ricerche simili negli Stati Uniti.
Fu così avviato un programma segreto di ricerche, che culminarono il 2 dicembre 1942, un anno dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor (7 dicembre 1941), con la dimostrazione sperimentale, nella pila atomica di Fermi a Chicago, che era possibile ottenere una fissione controllata dei nuclei di uranio con liberazione delle previste, grandissime, quantità di energia. Il governo americano avviò il grande progetto tecnico-scientifico segreto «Manhattan».
Va detto che il lavoro del progetto Manhattan, nella città segreta nel deserto dell’Arizona dove venne costituita la più grande concentrazione di scienziati e di apparecchiature scientifiche mai vista, si svolse, mentre i soldati americani combattevano in Europa e nel Pacifico, in un clima di grande entusiasmo e quasi di gara sportiva: nuovi segreti della materia venivano svelati, nuovi strumenti venivano costruiti e sperimentati. Questa atmosfera è stata descritta da Robert Jungk nel libro: Gli apprendisti stregoni . Pochi scienziati americani si erano rifiutati di collaborare alla produzione della bomba, più per motivi ideologici e per pacifismo che per vera consapevolezza delle conseguenze delle esplosioni atomiche.
Il frenetico lavoro di appena due anni e mezzo portò alla costruzione e alla sperimentazione della prima bomba atomica ad Alamagordo nel deserto del Nevada il 14 luglio 1945. Visti gli effetti dell’esperimento con la «piccola» bomba atomica esplosa ad Alamagordo, nei venti giorni successivi qualche voce si sollevò timidamente per raccomandare di non usare una simile bomba su una città, ma la «ragione» dei militari prevalse e due bombe atomiche furono fatte esplodere sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki il 6 e 9 agosto 1945, con effetti che apparvero subito disastrosi per la popolazione.
Finiva la Seconda guerra mondiale ma nuovi problemi sociali e ecologici si affacciavano all’orizzonte. I bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki generarono due reazioni contrastanti: la maggioranza manifestò un grande entusiasmo per il successo «americano» nel dominare le forze dell’atomo e per la speranza, già nell’aria, che le stesse forze avrebbero potuto essere messe al servizio delle fabbriche, delle navi, per produrre elettricità, inaugurando una nuova era di prosperità. Qualcuno cominciò a preoccuparsi alla constatazione che la fissione del nucleo libera grandi quantità di frammenti radioattivi che potevano diffondersi nell’ambiente e compromettere la vita umana e i cicli naturali.
In un certo senso l’ecologismo moderno comincia proprio con la costruzione e con l’uso della bomba atomica. Negli anni successivi al 1945 la contestazione si sviluppa su vari livelli, oltre alla protesta contro gli esperimenti atomici, sorgono movimenti per la difesa della natura e contro l’uso degli agenti chimici; contro il «pericolo» dell’aumento della popolazione; contro la invasività dell’automobile, denunciata già nel 1958 nel libro di John Keats (1921-2000) ; contro i danni degli inquinamenti industriali; contro la inefficacia degli strumenti economici tradizionali e dei loro indicatori nel tener conto dei danni ecologici, ma anche economici, contro l’incapacità di contabilizzare la violenza all’ambiente. I diversi movimenti si intrecciano, hanno alcuni protagonisti comuni, fino a confluire nel grande movimento degli anni Sessanta destinato a diffondersi dall’America in tutto il mondo occidentale. Questo ecologismo, quasi interamente americano, è stata caratterizzato in genere da ideali «di sinistra», di contestazione della società capitalistica e del mito dell’espansione dei consumi, al punto che quasi tutti i protagonisti sono stati etichettati come «comunisti». Fa eccezione la contestazione della crescita demografica che ha avuto e assunto talvolta posizioni reazionarie se non razziste.
La contestazione della bomba
L’euforia della vittoria contro il nazismo si stava offuscando per il peggioramento dei rapporti fra gli Stati Uniti e l’altro grande alleato nella vittoria contro Hitler, l’Unione Sovietica, i cui scienziati avevano a disposizione le conoscenze sulla fissione nucleare e grandi riserve di uranio, alla cui identificazione si era dedicato per anni il grande geologo russo Vladimir Vernadskij (1863-1945). Negli Stati Uniti si diffuse una sorta di paranoia, di terrore di essere conquistati dal «comunismo», che induceva a cercare spie sovietiche dappertutto e a coprire col massimo segreto i progressi nucleari e militari, soprattutto dopo la scoperta che alcuni americani comunisti avevano trasferito «segreti» atomici all’Unione Sovietica, quando ancora era alleata, convinti che il monopolio della «bomba» da parte di un solo paese avrebbe costituito un pericolo per la pace mondiale. Fra questi «traditori» i coniugi Rosenberg negli Stati Uniti e il fisico di origine tedesca Klaus Fuchs. I primi furono denunciati nel 1951 e condannati a morte nel 1953; il secondo che lavorava in Inghilterra, fu scoperto nel 1950. Lo spettro comunista assunse un carattere ancora maggiore dopo la sfortunata, per gli Americani, guerra di Corea. La scoperta delle «spie comuniste» dette l’avvio alla campagna anticomunista del maccartismo, ma, nello stesso tempo, diede forza alla contestazione che fu, insieme lotta per i diritti civili, lotta (fino al 1955 di carattere essenzialmente pacifista) per l’abolizione delle bombe atomiche e denuncia dei pericoli ecologici e biologici delle armi nucleari.
La prima esplosione sperimentale di una bomba atomica nell’atmosfera fu effettuata dagli Stati Uniti nel 1946 nell’isola di Bikini, nel Pacifico, e Bikini divenne nome popolare e simbolo del successo tecnologico americano. Seguì ben presto, nel 1949, l’esplosione della prima bomba atomica sovietica nel deserto asiatico. Dal 1945 al 1955 si ebbero centinaia di esplosioni di bombe atomiche nell’atmosfera sia americane, sia sovietiche e di alcune francesi e inglesi. Intanto gli scienziati atomici lavoravano febbrilmente: una bomba ancora più potente avrebbe potuto essere realizzata con la fusione di nuclei di idrogeno, la bomba a idrogeno.
La prima bomba H americana fu fatta esplodere nel Pacifico nel 1952; la prima bomba H sovietica venne esplosa nel 1954. Le bombe H avevano una potenza distruttiva equivalente a quella di «megaton», milioni di tonnellate di tritolo, centinaia di volte superiore a quella delle bombe di Hiroshima e Nagasaki. Benché il sito per le esplosioni delle bombe americane fosse stato scelto in pieno Oceano, nel 1954 i frammenti radioattivi di una di queste bombe caddero sul peschereccio giapponese «Drago fortunato» contaminando gravemente i marinai. Un evento che scosse l’opinione pubblica americana e mondiale.
Ci sarebbe voluto un chimico per dare voce alla denuncia dei pericoli associati alla radioattività messa in circolazione dalle bombe atomiche e questa voce fu quella di Linus Pauling (1901-1994), professore nell’Università della California, già famoso per le sue ricerche sulla struttura atomica delle molecole e che avrebbe ottenuto il premio Nobel per la Chimica nel 1954.
Un chimico comprendeva bene, ed era in grado di spiegare, che alcuni dei frammenti radioattivi erano isotopi di elementi importanti nei cicli vitali; uno di questi era l’isotopo 137 del cesio, un elemento con comportamento chimico simile a quello del sodio e del potassio, elementi presenti in tutte le cellule viventi; anche il cesio-137 ha sali solubili in acqua, suscettibili di essere assorbiti attraverso il terreno dai vegetali e di passare nel corpo degli animali, fra cui gli uomini; una volta entrato negli organismi viventi il cesio-137 avrebbe continuato ad emettere radioattività con un lento decadimento, una perdita della metà della radioattività originale in una trentina di anni. Lo stesso periodo di decadimento era manifestato da un altro prodotto di fissione del nucleo di uranio, lo stronzio-90, i cui sali hanno comportamento chimico simile a quello dei sali di calcio, altro elemento essenziale per la vita. Insieme al calcio lo stronzio radioattivo avrebbe così potuto essere fissato, attraverso le acque, i vegetali e gli animali, all’interno del corpo umano, nelle ossa, continuando ad emettere radioattività per decenni con effetti sui mutamenti genetici responsabili di tumori.
Pauling, fin dal 1946, aveva aderito all’Emergency Committee of Atomic Scientists, ispirato da Einstein con la finalità di informare la popolazione riguardo i rilevanti pericoli associati allo sviluppo delle armi nucleari, una attività certamente sgradita al governo. Nel 1952 fu interrogato dalla Commissione sulle attività antiamericane come sospetto comunista e gli fu tolto il passaporto, che gli fu restituito solo nel 1954 per permettergli di andare a Stoccolma a ritirare il Premio Nobel per la Chimica. Nel 1955 insieme ad Einstein, a Bertrand Russell e ad altri membri importanti della comunità scientifica ed intellettuale, firmò il Manifesto Russell-Einstein contro le armi atomiche. Instancabile, nel 1958 Pauling organizzò una petizione, rivolta alle Nazioni Unite, firmata da più di 11.000 scienziati, che richiedeva la fine dei test nucleari. Le firme raccolte furono presentate alle Nazioni Unite il 13 gennaio 1958 e il 7 giugno Pauling fu invitato a presentarsi alla sottocommissione per la sicurezza del Senato per riferire come erano state raccolte le firme. Pauling si rifiutò.
La protesta contro «la bomba» e i tests nell’atmosfera avevano intanto dato vita, negli Stati Uniti, ad una campagna di articoli e di libri che dibattevano gli aspetti morali dell’uso delle armi nucleari. Fra i tanti si possono ricordare l’intervento di Lewis Mumford del luglio 1948, intitolato: «La bomba atomica: miracolo o catastrofe?». Anche l’industria cinematografica contribuì alla diffusione della contestazione contro le bombe atomiche. Il film «L’ultima spiaggia», di Stanley Kramer, del 1959, tratto dal romanzo omonimo di Nevil Shute, finisce con l’estinzione della vita sulla Terra, in seguito ad una guerra nucleare, ma avverte: «C’è ancora tempo, fratelli», per fermare questa insensata corsa verso bombe sempre più potenti.
La contestazione «della bomba» suscitò le reazioni sia del mondo militare, sia di quello industriale – quello che lo stesso presidente degli Stati Uniti Eisenhower aveva definito il «complesso militare-industriale» – e anche di parte del mondo scientifico. Al noto fisico Edward Teller, considerato padre della bomba H, Pauling replicò con il libro del 1958 No More War! che fu determinante nel successo della contestazione antinucleare e pacifista. L’impegno di Pauling aveva avuto una vasta risonanza internazionale e contribuì all’approvazione di una moratoria americana dei test delle bombe nucleari nell’atmosfera; lo aveva promesso il presidente Kennedy in una conferenza alla American University a cui seguì la firma da parte di Kennedy, pochi giorni prima di essere assassinato a Dallas il 22 novembre 1963, e del segretario sovietico Nikita Chruščëv, del trattato per il divieto delle esplosioni nucleari nell’atmosfera e negli oceani, il Partial Test Ban Treaty del 1962.
Non sarebbe stata la pace, non sarebbe stata la cessazione della corsa alle armi nucleari, non sarebbe stata la cessazione delle esplosioni sperimentali delle bombe atomiche (nei decenni successivi ce ne sarebbero state altre mille), ma i test negli Stati Uniti e nell’Unione Sovietica continuarono soltanto nel sottosuolo con minore contaminazione radioattiva planetaria. Soltanto la Francia e la Cina continuarono a fare esplodere bombe nucleari nell’atmosfera fino agli anni Settanta.
Nel giorno in cui il trattato entrò in vigore, nel 1963, il comitato del Premio Nobel assegnò a Pauling il premio Nobel per la Pace, ricordando che, sin dal 1946, si era «prodigato incessantemente non solo contro i test di armi nucleari, non solo contro l’estensione di questi armamenti, non solo contro il loro uso, ma contro la guerra come mezzo di soluzione di conflitti internazionali» .
Per avere una idea dell’atmosfera isterica che permeava gli Stati Uniti in quegli anni nei confronti della protesta antinucleare e pacifista si può ricordare che il settimanale Life pubblicò un editoriale in cui si affermava che l’assegnazione del premio Nobel per la Pace a Pauling era un insulto fatto dalla Norvegia al popolo americano!
Molte decine di libri hanno ricostruito il dibattito contro la costruzione e la sperimentazione delle bombe atomiche . Il Bulletin of the Atomic Scientists, mensile che ha cominciato le pubblicazioni nel dicembre 1945, è una fonte preziosa che contiene molte testimonianze delle persone direttamente coinvolte nella contestazione americana alla bomba atomica.

Guerra alla natura con i pesticidi
La Seconda guerra mondiale, aveva portato, oltre a nuovi strumenti di morte, anche strumenti per migliorare la vita. Milioni di profughi si erano spostati da una parte all’altra del pianeta, milioni di soldati avevano dovuto vivere in condizioni di emergenza, fra le paludi e nelle foreste; la malaria, la malattia della povertà e della sporcizia, aveva colpito o minacciava di colpire milioni di persone. Negli Stati Uniti fu riscoperto un insetticida che era stato scoperto decenni prima in Svizzera, il DDT, un composto clorurato che, uccidendo le zanzare, si rivelò capace di sconfiggere la malaria e di preservare le derrate alimentari dalla infestazione da parte di parassiti. Purtroppo qualsiasi sostanza mortale per i parassiti è anche tossica per gli esseri umani, ma di questo ci si sarebbe accorti soltanto qualche tempo dopo che il DDT aveva invaso il pianeta, essendo prodotto e usato in quantità che, negli anni Quaranta, arrivavano a milioni di tonnellate all’anno.
Nel frattempo l’industria chimica aveva messo a punto e in commercio altri insetticidi nei quali la presenza del cloro sembrava avere effetti particolarmente positivi nella lotta ai parassiti. Ben presto però si è visto che questi insetticidi clorurati erano biologicamente stabili e non erano distrutti, nelle acque, nei prodotti agricoli, nelle derrate alimentari, nel suolo, dai batteri decompositori.
L’attenzione contro i pericoli della contaminazione dovuta ai pesticidi clorurati ebbe la sua voce più alta ed efficace in una biologa, americana anch’essa, Rachel Carson (1907-1964) , la persona che forse più di qualsiasi altra ha contribuito, con un solo libro, a far nascere l’attenzione per i rapporti fra le attività umane e la natura e a alimentare la contestazione ecologica. La Carson era nata in un paese di campagna della Pennsylvania e si era laureata nel 1929 in biologia. I suoi studi furono dedicati alla zoologia e nello stesso tempo manifestò una grande passione per la divulgazione scientifica con una forte vena poetica; per questo fu assunta nell’ufficio per le attività di pesca e di difesa della natura del Dipartimento dell’Interno degli Stati Uniti, dove ebbe l’incarico di redigere pubblicazioni, soprattutto educative, di biologia e di carattere naturalistico; erano gli anni della Grande crisi e il presidente Roosevelt aveva capito che occorrevano opere di difesa del suolo, delle acque e dei boschi se si voleva creare nuova occupazione.
Il primo libro della Carson sulla biologia e la bellezza del mare fu pubblicato nel 1941 col titolo Il vento e il mare , a cui fecero seguito Il mare intorno a noi, del 1950 e Sulla riva del mare del 1955 . Nel corso dei suoi studi sulla vita marina cominciò ad osservare le alterazioni dei cicli biologici provocati, a partire dal 1943, dalla immissione nell’ambiente di crescenti quantità di DDT, l’insetticida «miracoloso» nella lotta alla malaria e nella difesa dei raccolti. Purtroppo il DDT e i molti altri insetticidi simili non biodegradabili, in genere solubili nei grassi, vengono assorbiti e fissati nel corpo di molti animali, vengono trasferiti attraverso le catene alimentari e finiscono anche negli alimenti vegetali e animali. Nel caso delle mucche passava dal fieno al latte e col latte passava nella dieta umana; nel caso del mare, dove sono molto estese le catene di predatori e prede, il DDT passava da un pesce all’altro, e da qui di nuovo nella dieta umana. C’è stato un periodo in cui la concentrazione del DDT nel latte materno era superiore a quella massima ammessa dalle autorità sanitarie negli alimenti umani.
In questa ondata di contestazione si inserisce il primo libro di Murray Bookchin (1921-2006), Our Synthetic Environment, pubblicato con lo pseudonimo Lewis Herber nel 1962 : la distruzione della base naturale della vita umana nella società contemporanea non è questione di comportamenti deplorevoli di pochi e della disattenzione di molti ma il risultato di una società che assorbe crescenti quantità di materie prime, di acqua e di energia per produrre merci che inquinano l’acqua, la terra, l’aria, nella produzione, nella distribuzione, nel consumo e nello smaltimento. Sono già enunciati i principi che Bookchin avrebbe sviluppato con i suoi scritti sul decentramento urbano, volto a permettere un nuovo equilibrio tra natura e società, integrando le attività umane con le risorse del territorio circostante, utilizzando il vento, l’energia solare e quella idroelettrica come fonti di energia.
Il libro di Bookchin rimase quasi ignorato mentre ben diversa fortuna e effetto ebbe Rachel Carson con il libro, Primavera silenziosa, pubblicato anch’esso nel 1962 e immediatamente tradotto in italiano da Feltrinelli ; il libro spiegava con grande chiarezza che, se si fosse continuato ad usare in quantità crescenti e indiscriminate i pesticidi clorurati e simili sostanze non biodegradabili, essi sarebbero stati assorbiti anche dagli uccelli del cielo che sarebbero morti e la primavera in futuro sarebbe stata privata del loro canto, rendendola «silenziosa», appunto. Il libro era dedicato al grande pensatore, premio Nobel per la Pace, Albert Schweitzer (1875-1965), di cui riportava il celebre ammonimento: «L’uomo ha perso la capacità di prevedere e prevenire, finirà per distruggere la Terra».
Il libro della Carson subì, e continua a subire a tanti anni di distanza, durissimi attacchi da parte dell’industria chimica che vedeva compromessi i suoi crescenti profitti legati alla vendita dei pesticidi; gli argomenti furono i soliti del negazionismo ecologico: se si fosse dato retta a questa visionaria (alcuni l’accusarono perfino di essere «comunista») e se fosse stato vietato l’uso del DDT, milioni di persone sarebbero morte di malaria, milioni di persone sarebbero morte di fame per la distruzione dei raccolti agricoli da parte dei parassiti che il «provvidenziale» DDT riusciva invece a sterminare.
Queste critiche infondate amareggiarono gli ultimi anni di vita di Rachel Carson, che morì di tumore al seno nel 1964, ma il suo libro aveva già cominciato il suo cammino trionfale. Milioni di persone si interrogarono su che cosa veniva sparso nei campi e finiva nei raccolti e negli alimenti, e cominciarono a chiedere ai governi di analizzare i residui dei pesticidi nelle acque e nel cibo e di vietare le sostanze più nocive e tossiche. La contestazione indusse i governi a porre dei limiti all’uso agricolo di molti pesticidi, soprattutto di quelli non biodegradabili e persistenti come quelli clorurati, anche se a distanza di mezzo secolo dalla pubblicazione del libro della Carson tali pesticidi sono ancora usati in molti paesi in via di sviluppo e continuano a circolare nella biosfera perché, dovunque siano usati, finiscono poi nei fiumi e nel mare e nei prodotti agricoli e alimentari anche a grande distanza.
Il lavoro e la personalità di Rachel Carson sono state e continuano ad essere oggetto di studi a favore o critici . La diffusione del libro della Carson sui pericoli di contaminazione planetaria dovuta ai pesticidi e la crescente attenzione per la contaminazione planetaria dovuta ai residui radioattivi delle esplosioni nucleari hanno introdotto due nuove categorie di pensiero. L’inquinamento non era più solo un fenomeno locale, le sostanze nocive messe in circolazione dalle attività «economiche» si diffondono in tutto il pianeta e colpiscono persone e esseri viventi dovunque, anche a migliaia di chilometri di distanza. Inoltre gli stessi fenomeni mostravano che le conseguenze negative delle attività umane danneggiano le generazioni future.
La radioattività delle scorie immesse nell’ambiente dalle esplosioni nucleari, ma anche quella residua dell’attività delle centrali nucleari, continua per decenni, secoli, per migliaia di anni; le scorie delle centrali nucleari commerciali e di quelle che producono l’esplosivo, uranio e plutonio, per «le bombe», si sono accumulate in decine di depositi «perpetui», esposti a perdite e a contaminazioni ambientali con cui dovranno fare i conti le generazioni «future».
Nacque a questo punto una crescente attenzione per «il futuro» che comincia a diffondersi soprattutto fra intellettuali europei a partire dalla metà degli anni Sessanta. C’era stata già, negli anni Trenta, una corrente americana di studi sul futuro, di carattere tecnologico – quanto petrolio sarebbe rimasto in futuro, quanta energia sarebbe stata necessaria? – ma la corrente europea, che ebbe uno dei suoi anticipatori nell’economista francese Bertrand de Jouvenel (1903-1987), e nella sua rivista «Futuribles», cominciò a prestare attenzione non solo al futuro della società e dell’economia, ma anche al futuro dell’ambiente.

Spaceship Earth
Il dibattito sollevato dal libro di Rachel Carson sugli effetti dei pesticidi assumeva un nuovo volto in seguito all’inizio della guerra del Vietnam. Dopo la morte di Kennedy, nel 1963, quello che era stata una collaborazione americana in chiave anticomunista col Vietnam del Sud, si tradusse in un impiego sempre più massiccio di persone e di mezzi, mandati a combattere nella giungla una guerra che non dava nessun segno di poter essere vinta, contro un nemico che combatteva per la propria terra e che, con la stessa determinazione con cui aveva mandato via i francesi, rendeva impossibile la vita dei soldati americani in un ambiente tropicale ostile.
L’intervento americano nel Vietnam era costellato di errori strategici e condotto con mezzi così violenti da distruggere assieme a vite umane innocenti anche una parte del patrimonio naturale del lontano paese asiatico, contraddicendo i valori a cui gli americani proclamavano di ispirarsi; il napalm, la benzina gelificata usata nelle bombe incendiarie e nei lanciafiamme e gli erbicidi distruggevano le persone, la foresta e le coltivazioni di riso da cui dipendeva l’approvvigionamento e la vita delle popolazioni locali e dei partigiani Vietcong
Come erbicidi venivano usate alcune sostanze di grande successo, anch’esse clorurate, derivate dal triclorofenolo, soprattutto il 2,4-D e il 2,4,5-T, generosamente forniti dall’industria chimica americana. Gli effetti apparvero ben presto devastanti nei confronti dei delicati ecosistemi tropicali, ma alla fine degli anni Sessanta fu anche scoperto che, per risparmiare, le industrie producevano gli erbicidi usando triclorofenolo impuro di una sostanza allora sconosciuta, altamente tossica e cancerogena, che sarebbe poi stata individuata come una delle diossine .
Altre invenzioni «americane» di successo mostrarono ben presto di nascondere delle trappole tecnologiche. Il piombo tetraetile, il fortunato additivo per le benzine, si rivelò responsabile di un inquinamento delle città e delle campagne dovuto al velenoso piombo; gli idrocarburi clorurati e fluorurati, come i CFC, così utili come propellenti per confezioni spray, come agenti antincendi e come rigonfianti per resine espanse, si rivelarono responsabili della distruzione dell’ozono stratosferico; l’amianto, l’ideale isolante termico e acustico, resistente al fuoco, è stato fonte di innumerevoli casi di tumore. Grazie alle lotte ecologiste partite dagli Stati Uniti specialmente negli anni Sessanta, tutti e tre, piombo tetraetile, CFC, amianto e altri veleni ambientali e per la salute, sono oggi vietati (anche se non in tutto il mondo). L’«aereo supersonico» che, con grande strepito pubblicitario, avrebbe permesso di raggiungere l’Europa dall’America in tre ore, si rivelò non solo inquinante, ma anche un insuccesso dal punto di vista tecnico e economico, abbandonato nelle linee civili, è ridotto ormai a poche costose applicazioni militari .
Questi volti negativi delle attività militari, industriali e commerciali rinfocolarono la domanda, da parte dei giovani americani, dei valori che erano stati proclamati nella breve stagione della presidenza Kennedy: la speranza di distensione con l’Unione Sovietica, un rallentamento o la fine della corsa alle armi nucleari, una nuova politica delle risorse naturali, la speranza di una politica di lotta all’inquinamento, di regolazione dell’uso delle risorse pubbliche come pascoli, risorse minerarie, acque, progetti di lotta alla sete negli Stati più aridi e nell’intero mondo, la speranza di utilizzazione, al posto del carbone, del petrolio e dell’energia nucleare, inquinanti e pericolosi, dell’energia solare e del vento che avevano visto impegnati molti studiosi americani in congressi e sperimentazioni .
I successi dei voli spaziali, conclusisi con la discesa sulla Luna, avevano diffuso la sensazione che le forze usate per distruggere le foreste del Vietnam e per inquinare i mari, avrebbero potuto essere usate per una nuova consapevolezza del ruolo degli esseri umani sulla Terra. Le storiche fotografie della Terra scattate dagli astronauti sui satelliti artificiali, la sensazione che il nostro pianeta, visto dal di fuori, appariva bellissimo, terribile, ma «piccolo», e solo, negli spazi interplanetari, aveva fatto capire che la Terra era, sostanzialmente, simile ad una navicella spaziale nella quale gli abitanti, chiusi in uno spazio limitato, soltanto dall’interno della navicella potevano trarre aria respirabile cibo e acqua per vivere e soltanto dentro la navicella spaziale potevano mettere i propri escrementi e rifiuti: una sensazione ben tradotta nell’espressione «Spaceship Earth» che è cominciata a circolare dal 1965.
Il problema della popolazione
Quante persone avrebbe potuto ospitare questa navicella spaziale e per quanto tempo? La popolazione terrestre dopo la Seconda guerra mondiale era aumentata rapidamente come conseguenza delle migliori condizioni igieniche e di vita anche nei paesi ex coloniali, divenuti indipendenti, dell’aumento della natalità e dell’allungamento della vita media. Negli Stati Uniti si riaffacciava lo spettro di Malthus il quale nel 1799 aveva spiegato, sulla base dei dati disponibili nell’Inghilterra del suo tempo, che la popolazione aumentava più rapidamente di quanto aumentasse la disponibilità di alimenti. Malthus sosteneva che, se non si fosse posto un freno alla crescita della popolazione, scoraggiando la natalità soprattutto delle classi proletarie attraverso la diminuzione dei sussidi pubblici ai poveri, sarebbe arrivato un giorno in cui non ci sarebbe stato cibo per tutti.
Una delle prime voci che auspicava anche in America una crescita zero della popolazione fu quella di William Vogt (1902-1968), ecologo di professione, che nel 1948 pubblicò il libro Road to survival che divenne un successo editoriale. Sulla base dell’esperienza fatta come funzionario pubblico negli Stati Uniti e anche nell’America Latina e sulla base dell’osservazione dell’alterazione degli ambienti naturali dovuti alle attività economiche, nel suo libro Vogt sostenne che le tendenze in corso nella fertilità e nella crescita economica stavano rapidamente distruggendo l’ambiente e mettendo in pericolo la vita delle generazioni future, con effetti che avrebbero portato a guerre, fame e malattie e al collasso della società umana. Il controllo della popolazione era la strada per la sopravvivenza.
Dopo la pubblicazione e il successo del libro, Vogt si dedicò alla denuncia della sovrappopolazione e alla diffusione della pianificazione familiare, diresse la Planned Parentdhood Federation of America e ricoprì varie carche pubbliche negli Stati Uniti e a livello internazionale.
Quasi contemporaneamente appariva il libro Our Plundered Planet di Henry Fairfield Osborn Jr. (1887-1969), biologo e figlio di un altrettanto noto biologo americano. Il libro contribuì a rinfocolare il movimento americano di controllo della popolazione e fu seguito da un altro intitolato Limits of the Earth . Questi scritti diffusero la consapevolezza dei «limiti» fisici del pianeta Terra, ripresi da moltissimi altri libri fra cui quelli di Paul Ehrlich e dei Paddock . Un vasto movimento, soprattutto nei paesi anglosassoni, auspicava un tasso zero di aumento della popolazione (Zero Population Growth) come «la soluzione» per i problemi di degradazione dell’ambiente e di eccessivo sfruttamento delle risorse naturali.
La proposta di porre dei limiti alla popolazione nasce in un’America protestante e puritana; quando il messaggio arriva nell’Europa cattolica trova delle vivaci reazioni associate anche al dibattito degli stessi anni Sessanta sul controllo delle nascite negli ambienti cattolici. La enciclica Populorum Progresso di Paolo VI è del 1967 e quella sulla popolazione, Humanae vitae dello stesso Paolo VI è del 1968. L’uso di mezzi anche drastici come la sterilizzazione e l’aborto per regolare le nascite era rifiutato dal mondo cattolico. L’economista cattolico britannico Colin Clark (1905-1989) reagì stizzosamente al neomalthusianesimo americano sostenendo, in un saggio del 1967 , la peraltro improponibile tesi che la Terra potrebbe sfamare diecine di miliardi, anche una quarantina, di abitanti.
Nel corso di questo dibattito apparve un saggio dello storico del Medioevo, anche in questo caso un americano, Lynn White , che analizzò le basi culturali della crisi ecologica suggerendo che la grande svolta nell’assalto alla natura si poteva individuare nella cultura ebraico-cristiana che indica il fine dell’uomo nel cammino verso la trascendenza attraverso il dominio della Terra; la diffusione del cristianesimo nei paesi pagani avrebbe distrutto il rapporto che le società primitive intrattenevano con la forze della natura da rispettare come sede di divinità. Il genius loci, il dio delle sorgenti, delle foreste, dei raccolti dei campi, andava rispettato prima di usare le sue ricchezze.
La fallacia del PIL
Nel frattempo nell’America in piena espansione degli anni Sessanta si diffuse la consapevolezza che la possibilità di una scarsità futura di risorse naturali era legata non soltanto alla crescita della popolazione mondiale, ma anche alla crescita dei consumi, l’idolo dell’economia tradizionale. Se è obbligatorio far crescere quel magico indicatore del benessere che è il Prodotto interno lordo, il GNP, secondo la dizione americana, era evidente che tale crescita avrebbe potuto avvenire soltanto con una crescente produzione di merci, ricavate da una crescente sottrazione di risorse minerarie, energetiche e biologiche dalla Terra, e con la inevitabile produzione di crescenti quantità di rifiuti e scorie destinate a contaminare i mari, le acque dei fiumi, l’aria.
All’inquinamento – il termine anglosassone pollution riflette meglio del termine inquinamento il fatto che la fonte dell’inquinamento dei corpi riceventi è costituita dalla fuoriuscita di agenti inquinanti dalle attività umane – contribuivano non soltanto le scorie radioattive delle esplosioni di bombe nucleari, non solo le armi biologiche e chimiche, ma anche tutte le «lodevoli» attività umane di tipo «economico».
Gli esempi si moltiplicavano e in forma sempre più vistosa. Centinaia di milioni di tonnellate del prezioso petrolio varcavano ogni anno gli oceani con navi petrolifere sempre più grandi, ma quando una di queste subiva un incidente, come avvenne per la «Torrey Canyon» nel 1967, il disastro ambientale e il costo monetario erano enormi; quando un pozzo petrolifero si incendiava nell’Oceano come avvenne a Santa Barbara in California nel 1969, la superficie del mare si copriva di uno strato di petrolio. Le industrie chimiche erano esposte a incidenti con morti e inquinamenti, come era apparso vistosamente in Giappone nella Baia di Minamata dove gli scarichi di composti del mercurio, la sostanza usata in tante industrie chimiche anche americane, avevano provocato l’assorbimento del velenoso metallo da parte dei pesci e la morte dei pescatori che di tali pesci si nutrivano. L’industria elettronucleare che aveva promesso energia illimitata per sempre, cominciava ad essere segnata da incidenti nelle centrali, nelle fabbriche di ritrattamento del combustibile irraggiato, da perdite di sostanze radioattive dai depositi delle scorie dei reattori nucleari militari e civili.
Nella seconda metà degli anni Sessanta cominciarono ad apparire libri scritti non più da ecologisti contestatori, ma da autorevoli economisti che mettevano in discussione le basi stesse della loro disciplina. Fra questi Kenneth Boulding (1910-1993) scrisse delle graffianti pagine di critica al GNP ricordando come la grandezza americana fosse nata dalla intraprendenza e aggressività dei primi coloni che avevano occupato le fertili terre dell’ovest, con la mentalità del cowboy, sfruttando i pascoli e i boschi con la certezza che, esaurita la fertilità delle terre conquistate, ce ne sarebbero state «altre» ancora più a ovest, raggiungibili con le ferrovie, fino a che la corsa si sarebbe dovuta fermare sulle rive dell’Oceano Pacifico.
Appariva così chiaro a qualsiasi persona attenta che il procedere sulla strada della crescita economica (sto parlando di growth, non di development) poteva avvenire soltanto a spese delle riserve di risorse terrestri (fossili, ma anche della stessa fertilità dei suoli) e con la formazione di una crescente quantità di scorie che potevano finire soltanto nei corpi riceventi della Terra, peggiorandone la capacità ricettiva.
Qualcuno ha suggerito di sostituire il Prodotto interno lordo con un altro indicatore, il «benessere nazionale lordo», ma in quali unità questo possa esprimersi nessuno sapeva dire. La necessità di sostituire il valore monetario delle merci, il valore di scambio, con un altro indicatore, il «valore d’uso», che potrebbe comprendere anche il valore associato a un minore consumo di beni ambientali, era già stata indicata dagli economisti classici e da Marx, ma anche in questo caso nessuno sapeva come potesse essere misurato.
Arriva Commoner
A questo punto arriva impetuosa la figura di Barry Commoner (1917-2012) . Nato nel 1917 da una famiglia di immigrati ebrei russi, dopo studi di biologia e di chimica aveva ottenuto una cattedra di biologia nella Università di Saint Louis, nel Missouri, una Università periferica dove aveva organizzato un CNI (Comitato cittadino di St.Louis per l’informazione nucleare), divenuto poi Center for Biology of Natural Systems, un gruppo di attivisti impegnati, oltre che nella contestazione delle armi nucleari , nelle ricerche sugli effetti ambientali dei prodotti industriali persistenti e non biodegradabili come materie plastiche, fibre sintetiche e detergenti sintetici, erbicidi e pesticidi non biodegradabili, tutti quei prodotti sintetici che, col tempo avevano sostituito i prodotti «naturali», con conseguenze negative sull’ambiente, sempre più evidenti.
Nel libro Science and survival , Commoner anticipava la tesi, ampliata poi successivamente e ispirata, se così si può dire, dalle simpatie socialiste di Commoner, che la vera origine della crisi ecologica sta nella maniera in cui, a fini di profitto, le società capitalistiche sfruttano le risorse naturali producendo merci inquinanti con processi inquinanti: lo si era visto con il DDT e gli erbicidi del Vietnam, con le perdite di petrolio nel mare, con l’invasione del mare da parte delle dannose alghe rosse alimentate dai fosfati dei detersivi, eccetera.
Cominciavano a farsi chiari i rapporti fra i vari termini del problema: il degrado delle risorse e la contaminazione ambientale dipendono dalla «crescita» di tre fattori legati fra loro, la popolazione dei «consumatori» umani, la quantità di beni materiali prodotti, di merci e servizi, e la qualità delle merci. Mentre i cicli della natura sono sostanzialmente chiusi in quanto le spoglie e i rifiuti della vita vegetale e animale rientrano in ciclo, attraverso i batteri decompositori, trasformandosi in gas e sali utili per la vita di altri vegetali e animali, i processi industriali traggono dalle riserve naturali minerali e combustibili e producono merci che sono estranee ai cicli della natura, non biodegradabili e i cui rifiuti sono destinati a restare inquinanti per tempi lunghi e lunghissimi, operano cioè secondo cicli aperti. Senza contare che la crescente combustione di petrolio e carbone fa aumentare la concentrazione dell’anidride carbonica nell’atmosfera, un processo di cui si intravedevano già negli anni Sessanta le conseguenze negative sul clima e sulla temperatura terrestre.
La salvezza sarebbe stata possibile soltanto con interventi urgenti, tecnico-scientifici e politici, capaci di «chiudere» i cicli naturali, il cerchio della natura. Una posizione che si contrapponeva a quella di Paul Ehrlich e dei fautori della crescita zero della popolazione che nell’aumento della popolazione mondiale riconoscevano la causa prima della crisi ecologica e secondo cui la salvezza andava cercata, prima di tutto, nella limitazione delle nascite e della popolazione.
Commoner in una serie di articoli e nel libro Il cerchio da chiudere che sarebbe apparso nel 1971, spiegò che la rottura dei cicli naturali, che si manifesta sotto forma di impoverimento delle riserve di risorse e sotto forma di inquinamento, non dipende – o non dipende soltanto – dal fatto che siamo in troppi sulla Terra, ma dipende dalle regole economiche correnti. Nel nome del guadagno, del profitto, esse hanno spinto a fabbricare e a usare prodotti estranei alla natura o tossici; a scaricare al minimo costo possibile e in spazi ristretti, sostanze tossiche, oppure sostanze anche non tossiche, ma in quantità superiore alla capacità ricettiva, alla carrying capacity, dei corpi naturali. Se ci si vuole muovere verso la «chiusura» dei cicli della natura è necessario intervenire sulla tecnica di produzione e sui modi di consumo per ridurre l’intensità dell’inquinamento.
Per quanto riguarda l’aumento della popolazione bisogna tener conto che i diversi popoli hanno effetti e pesi molto differenti sull’ambiente: un bambino americano (o europeo, fa poca differenza) nel corso della sua vita consuma una quantità di risorse naturali e di merci e inquina il pianeta come alcune diecine di bambini africani. È quindi senza dubbio necessario intervenire per rallentare il tasso di crescita della popolazione mondiale, ma è ancora più urgente intervenire sui consumi e le tecnologie dei paesi ricchi, riconosce Commoner e suggerisce, esemplificando, alcune modifiche tecniche e merceologiche in grado di attenuare la rottura dei cicli naturali. L’efficacia di tali modifiche presuppone la possibilità di misurare il valore delle merci non in unità monetarie, ma con indicatori della qualità, cioè dell’effetto inquinante sull’ambiente dei prodotti, così come il costo in risorse naturali, il costo ambientale, il costo energetico. Hanno maggior «valore» le merci che, indipendentemente dal costo monetario, richiedono meno materie prime non rinnovabili, generano una minore quantità di scorie estranee alla natura nelle fasi di produzione e di «consumo», sono meglio riciclabili dopo l’uso.
Le materie prime di origine agricola hanno un costo energetico inferiore a quello delle materie sintetiche, perché una parte dell’energia viene loro fornita gratuitamente dal Sole attraverso la fotosintesi clorofilliana, e non è quindi necessario ricorrere a risorse scarse e non rinnovabili – carbone, petrolio – come nel caso delle materie plastiche, delle fibre e delle gomme sintetiche. Così le fibre tessili naturali sono preferibili a quelle sintetiche per il minore costo energetico; le materie plastiche sono indesiderabili per il loro alto costo energetico e per l’inquinamento che provocano nella fase di smaltimento, essendo non biodegradabili, estranee alla natura; i detersivi sintetici sono anch’essi fonti di inquinamento molto più del tradizionale sapone.
I cicli naturali possono essere alterati e rotti non soltanto contaminando o avvelenando gli esseri viventi con sostanze estranee o tossiche, ma anche accelerando i processi vitali. L’uso eccessivo di concimi azotati o fosfatici, o di detergenti contenenti fosforo, favorisce i fabbricanti di questi prodotti ma provoca l’immissione nei laghi e nel mare di un eccesso di sostanze nutritive (provoca cioè eutrofizzazione) che fa crescere in maniera abnorme le alghe, la cui putrefazione sottrae ossigeno ai corpi idrici e uccide i pesci, rompendo ancora una volta i cicli della natura.
L’analisi di Commoner aveva, come conseguenza, un invito a rivedere i modelli dominanti di consumi e di scelte tecniche. Nelle società industriali moderne le imprese sopravvivono soltanto se producono più merci al minor costo possibile e questo comporta ulteriore sfruttamento della natura e maggiore inquinamento.
Il fabbricante di concimi, di detersivi, di materie plastiche o di fibre sintetiche ha il «dovere civile» di vendere di più e trova l’alleanza degli agricoltori, che non hanno nessuna voglia di rimettersi a coltivare la terra usando il letame o a coltivare canapa per togliere dal mercato, nel nome dell’ecologia, le fibre sintetiche. In questa corsa verso la rottura dei cicli naturali il fabbricante si trova a fianco a fianco con lavoratori e consumatori per i quali le merci inquinanti a basso prezzo rappresentano spesso la liberazione da secoli di povertà o di fatica o di scomodità, anche se sono dannose all’ambiente. Una contraddizione che solo una società socialista potrebbe risolvere.
Commoner era esplicito nel suggerire regole economiche e rapporti sociali e internazionali del tutto diversi da quelli correnti e citava economisti eterodossi come K.W. Kapp (1910-1976), autore di un libro I costi sociali dell’impresa , poco noto in Italia, o come l’inglese E.F. Schumacher (1911-1977), di cui è stato tradotto con successo in Italia il libro Piccolo è bello , il manuale di economia scritto, come dice il sottotitolo dell’edizione inglese, «come se la gente contasse qualcosa». Non meraviglia che, per queste tesi piuttosto radicali, Commoner fosse considerato dai suoi critici un «comunista», l’aggettivo offensivo riservato a tutti i protagonisti della contestazione ecologica che abbiamo incontrato: da Mumford, alla Carson, a Pauling. In particolare nell’analisi delle fonti di energia, Commoner conclude che fra tutte quella nucleare è la più devastante e l’attenzione va rivolta verso le fonti energetiche rinnovabili.
I limiti alla crescita
Nell’aprile 1970 una vasta rete di movimenti sparsi per gli Stati Uniti e ben presto imitati anche in Europa lanciarono la prima «Giornata della Terra». Nel corso di pochi mesi si moltiplicarono le manifestazioni, le conferenze, con partecipazione diretta degli studenti e di falangi di giovani attivisti, i sit-in, le popolari assemblee all’aria aperta già diffuse negli Stati Uniti in occasione delle proteste contro la guerra del Vietnam, contro la discriminazione razziale, che adesso chiedevano ad alta voce la salvezza del pianeta .
Nello stesso tempo, le Nazioni Unite stavano preparando la conferenza sull’ambiente umano che si sarebbe tenuta nella primavera 1972 a Stoccolma e che aveva assunto come simbolo «Una sola Terra», il titolo di un libro dell’economista Barbara Ward (1914-1981) .
All’inizio del 1972 si tenne a Santiago del Cile la III conferenza delle Nazioni Unite sul commercio «e sviluppo» in cui i paesi emergenti chiesero un nuovo ordine economico basato sul diritto dei singoli paesi di utilizzare per il proprio sviluppo, appunto, i profitti delle vendite delle loro materie prime minerali, energetiche, forestali, agricole. La conferenza ascoltava la voce dei paesi che si stavano liberando dalle condizioni coloniali o di sudditanza dal potere occidentale, dai paesi petroliferi Libia, Iran, al Congo, al Cile dove il governo socialista di Allende aveva nazionalizzato le preziose miniere di rame sfruttate dalle compagnie americane, eccetera.
Negli stessi mesi del 1972, in coincidenza con l’inizio della Conferenza di Stoccolma, apparve un libretto che sarebbe stato destinato a sollevare anch’esso vivaci polemiche; The limits to growth nel titolo originale, fu presentato al pubblico in molte edizioni in varie lingue nel marzo-giugno 1972; il suo contenuto era stato comunque anticipato da un numero del gennaio 1972 della rivista inglese «Ecologist» col titolo A blueprint for suirvival a cura di Edward Goldsmith (1928-2009) .
The limits to growth era stato ispirato e «commissionato» dal Club di Roma, un gruppo di intellettuali di vari paesi, ma era stato curato da Jay Forrester e scritto dai suoi collaboratori del Massachusetts Institute of Technology, era figlio quindi della cultura e visione americana del mondo. La tesi accoglieva e rielaborava in forma di grafici, i principali punti del dibattito ecologico: crescita della popolazione, inquinamento dovuto alle attività industriali, espansione dei consumi e impoverimento delle riserve di risorse naturali. Forrester correlò, con una tecnica collaudata in altri studi precedenti di analisi dei sistemi, i diversi fattori per indicare che cosa avrebbe potuto succedere dall’interazione di questi fattori.
Se fosse continuata la crescita della popolazione mondiale, sarebbe aumentata la produzione di merci e servizi, sarebbe di conseguenza aumentato l’inquinamento ambientale, sarebbe nello stesso tempo diminuita la disponibilità di risorse naturali (spazio abitabile e coltivabile, fonti di energia, acqua pulita, minerali, eccetera) e tutto questo avrebbe provocato guerre e conflitti per conquistare le risorse naturali scarse, epidemie e malattie con conseguente rallentamento della crescita e poi addirittura diminuzione della popolazione mondiale. Solo così, riprendendo la tesi dei movimenti di limitazione della popolazione, avrebbe potuto diminuire un poco la produzione di merci, il conseguente inquinamento, il conseguente impoverimento delle risorse naturali.
Le «curve» tracciate con un calcolatore elettronico, prospettavano brutali diminuzione della popolazione mondiale e della produzione industriale e questo suscitò una ondata di critiche sul piano metodologico dello studio e per la prognosi inaccettabile al mondo industriale e alla cultura economica da cui peraltro provenivano, curiosamente, gli stessi membri del Club di Roma che lo aveva commissionato.
Il libro, spesso letto superficialmente, in Italia spesso letto soltanto per il titolo tradotto in modo equivoco come I limiti dello sviluppo, destò qualche passeggero entusiasmo in qualche ambiente intellettuale, ebbe ascolto in una parte del movimento ecologico, quella di tendenze neomalthusiane, e in qualche frangia anticapitalistica, pur sospettosa del messaggio che veniva dal gruppo degli intellettuali borghesi del Club di Roma . Il libro si concludeva comunque con un messaggio di speranza auspicando l’avvento di una società stazionaria, che era stata considerata come possibile anche da autorevoli economisti come Stuart Mill (1806-1873) nel 1848 e Arthur Cecil Pigou (1877-1959) nel 1915.
Georgescu-Roegen
Altro che società stazionaria! sostenne in un suo libro Nicolas Georgescu-Roegen. La crescita della produzione e dei consumi porta inevitabilmente ad un peggioramento dell’ambiente non sanabile con tecnologie adatte o con nuove fonti di energia, non con l’energia nucleare, ma neanche con quelle rinnovabili derivate dal Sole.
Nicholas Georgescu-Roegen (1906-1994) era nato a Costanza, in Romania, aveva fatto dei buoni studi universitari di matematica e statistica a Parigi, a Londra e a Bucarest e poi negli Stati Uniti dove lavorò con Schumpeter. Dal 1934 al 1947 visse le tempestose vicende della Romania, come professore universitario, come direttore dell’Istituto di Statistica, come delegato a varie conferenze internazionali, fra cui quella sull’armistizio. Nel febbraio 1948 lasciò la Romania e nel 1949 fu nominato professore di Economia alla Vanderbilt University di Nashville, nel Tennessee, di cui restò professore emerito dal 1976 fino alla morte.
Georgescu-Roegen era stato membro della American Economic Association, e aveva scritto vari libri, di economia generale e di economia agraria e dei consumi. Era stato per decenni un apprezzato economista con attenzione ai problemi agricoli, in una piccola università americana di periferia, quando rivolse gli occhi al problema che stava agitando il mondo in quegli ultimi anni Sessanta: aumento della popolazione, aumento dei consumi, aumento dell’inquinamento.
La celebrità venne a Georgescu-Roegen da un libro apparso nel 1971 e intitolato The entropy law and the economic process , non tradotto in italiano, anche questo un libro più citato che letto, difficile, che però costituisce una miniera, un «pozzo di San Patrizio» di idee e stimoli, secondo l’elogio attribuitogli da Samuelson. Georgescu-Roegen ha sviluppato, ampliato e, direi, popolarizzato, le sue idee in molti lavori successivi in parte tradotti in italiano col titolo Energia e miti economici .
Invece di allinearsi all’accusa che gli accademici dell’ecologia stavano rivolgendo all’«economia» di essere la vera responsabile della crisi ecologica in quando basata sul dogma della necessità della crescita, Georgescu-Roegen sostenne che qualsiasi scienza che si occupa del futuro dell’uomo, come la scienza economica, non può procedere senza tenere conto della ineluttabilità delle leggi della fisica. La principale, espressa dal secondo principio della termodinamica, spiega che alla fine di ogni processo la qualità dell’energia peggiora sempre. Per qualità va intesa l’attitudine dell’energia ad essere ancora utilizzata da qualcun altro. Qualsiasi processo che fabbrica merci e cose materiali impoverisce, insomma, la disponibilità di energia nel futuro e quindi la possibilità di produrre altre merci e cose materiali.
Ma, si potrebbe obiettare, il pianeta Terra nasconde nel suo ventre ancora riserve grandissime (ovviamente neanche loro illimitate) di fonti energetiche costituite da carbone, petrolio, metano, cioè dall’energia solare utilizzata centinaia di milioni di anni fa da vegetali e animali divenuti poi materia «fossile»: a tali riserve la società industriale può attingere a piene mani. È vero che un giorno tali riserve potranno esaurirsi, ma è un problema che riguarda chi vivrà nel XXI o nel XXII secolo. Georgescu Roegen ribatte che non si tratta solo di una scarsità, sia pure remota, di energia: la scarsità riguarda anche i materiali, i minerali, i prodotti agricoli.
Si consideri come procedono i cicli biologici, che riciclano tutte le scorie vegetali e animali le quali diventano materie per la propagazione della vita., e guardate invece come procedete voi per raggiungere il vostro mito di ricchezza economica, per moltiplicare i vostri strumenti esosomatici: voi umani operate per cicli sempre più aperti (come aveva scritto Commoner), per cui, al fianco di una crescente quantità di beni materiali e merci, state producendo una molto più grande quantità di scorie con cui dovrete un giorno fare i conti.
Si è, insomma, di fronte allo stesso fenomeno descritto dalla legge dell’entropia per l’energia; anche la materia tratta dal pianeta, dopo l’uso, si «degrada» in rifiuti e scorie non più utilizzabili. Non ci si illuda neanche per le prospettive di riciclo delle scorie al fine di ottenerne ancora beni e materiali e merci utili. I prodotti riciclati saranno sempre in quantità inferiore e di qualità inferiore a quelle delle materie di partenza. Non si può ottenere un chilo di carta riciclata da un chilo di carta straccia, non esiste nessun diavoleto di Maxwell che separi perfettamente, chilo, per chilo, la cellulosa, dall’inchiostro, dagli additivi della carta usata. Georgescu-Roegen ha espresso questa situazione, fisica e ineluttabile, proponendo la battuta dell’esistenza di un «quarto principio» della termodinamica valido per la «materia». Un principio sintetizzato nell’idea che «anche la materia conta», «Matter counts, too».
Lo stesso principio entropico vale in agricoltura: non si può avere una tonnellata di grano ogni anno dopo l’altro dallo stesso terreno. Lo sapevano gli Israeliti che avevano inventato l’anno del riposo delle terre, lo sapevano Columella e gli esperti di agricoltura dai Romani in avanti, lo ha spiegato Liebig nell’Ottocento. Da qui la giusta critica e l’ironia di Georgescu-Roegen verso il concetto di sviluppo sostenibile (non si può «eat the pie and have it») e di società stazionaria. E la critica a quella parte del libro del Club di Roma in cui, per rendere digeribile il concetto di «limiti alla crescita» ai palati più suscettibili, dichiarava che alla fine si potrebbe sfuggire dal pericolo della decrescita realizzando una società stazionaria, come aveva anticipato Mill.
Se volete salvarvi, sostiene Georgescu-Roegen, dovete sviluppare una «bioeconomia», affiancando alla contabilità dei flussi di denaro che descrivono la «vecchia» economia, una descrizione delle risorse naturali materiali e delle scorie fisiche per il cui ottenimento e smaltimento dovrete spendere crescente fatica di energia e soldi. Solo la «bioeconomia» vi darà utili indicazioni per le decisioni politiche che dovrete prendere, vi aiuterà a scansare molte trappole. Ma comunque, per sopravvivere sul pianeta Terra, di dimensioni e risorse limitate, la produzione e l’uso di beni materiali non solo non possono continuare a «crescere», e non basta neanche che si stabilizzi la loro produzione: devono «diminuire». E non compiacetevi troppo, avverte Georgescu-Roegen, nell’illusione dell’uso dell’energia solare: la sua cattura con «macchine» umane comporta un costo di materiali, e quindi di energia, che può superare la quantità di energia commerciale che le macchine «solari» possono fornire a lungo andare.
Ciò premesso non c’è da stare allegri fantasticando di un trionfale futuro di sempre più energia, merci, produzione, consumi. Non resta che sapere quale è la realtà fisica dei fenomeni con cui si ha a che fare, e adattare comportamenti privati e statali alla realtà, ricorrendo a risorse naturali e tecnico-scientifiche esistenti o da inventare per andare avanti, non in una società sostenibile, ma in una società meno insostenibile.
Ma del resto questo avviene anche nella vita; si sa con certezza che invecchiando si peggiora, non si possono più fare certe cose che si facevano da giovani e che alla fine si muore, ma non c’è motivo di disperare; c’è solo da vivere meglio possibile per se stessi e per gli altri, partecipando alla solidarietà e collaborazione, ma anche accettando il declino. Gli scritti di Georgescu Roegen ebbero poco ascolto negli Stati Uniti, ricevettero invece maggiore attenzione in Europa dove l’avvertimento che le attività economiche alterano e peggiorano l’ambiente, per ineluttabili motivi fisici e termodinamici, fu interpretato come l’invito ad un movimento di «decrescita».
Georgescu-Roegen, con altri economisti, redasse un «manifesto per un’economia umana», pubblicato in occasione della riunione della American Economic Society del dicembre 1973. L’iniziativa era stata promossa dalla associazione Dai Dong, una delle tante associazioni che proliferavano in quegli ultimi anni della «primavera dell’ecologia». Il manifesto riproponeva la necessità di una revisione dell’economia che tenesse conto della scarsità delle risorse naturali e della difesa dell’ambiente.

La crescita ha rappresentato finora per gli economisti l’indice con cui misurare il benessere nazionale e sociale, ma ora appare che l’aumento dell’industrializzazione in zone già congestionate può continuare soltanto per poco: l’attuale aumento della produzione compromette la possibilità di produrre in futuro e ha luogo a spese dell’ambiente naturale che è delicato e sempre più in pericolo. Dobbiamo inventare una nuova economia il cui scopo sia la gestione delle risorse e il controllo razionale del progresso e delle applicazioni della tecnica, per servire i reali bisogni umani, invece che l’aumento dei profitti o del prestigio nazionale o le crudeltà della guerra. Dobbiamo elaborare una economia della sopravvivenza, anzi della speranza, la teoria di un’economia globale basata sulla giustizia, che consenta l’equa distribuzione delle ricchezze della Terra fra i suoi abitanti, attuali e futuri.
La fine della primavera dell’ecologismo

Il manifesto arrivò tardi. L’età dell’oro della contestazione ecologica stava finendo. Nel settembre 1973 finiva l’età della speranza di un’autonomia del Terzo mondo, di nuovi rapporti economici. Allende, che nel Cile aveva sostenuto che le preziose risorse di rame del paese avrebbero dovuto essere utilizzate nell’interesse del popolo e non delle multinazionali americane, venne «suicidato»; nell’ottobre i paesi arabi decretarono il primo aumento del prezzo del petrolio; finiva l’età dell’energia abbondante e a basso prezzo. L’austerità sembrava dare ragione alle richieste di minori sprechi non per motivi ecologici ma soltanto per motivi economici.
Ben presto il mondo, gli Stati Uniti e l’Europa e il Giappone, il «primo mondo capitalistico» secondo la classificazione del geografo Alfred Sauvy, reagirono con soluzioni che solo apparentemente recepivano il messaggio ecologico. Processi meno inquinanti, minori consumi energetici, utilizzazione delle fonti energetiche rinnovabili, senza spostare di un millimetro la corsa trionfale dell’economia capitalistica a cui si convertirono rapidamente i paesi ex socialisti, negli anni Ottanta l’ex Unione Sovietica, negli anni duemila la Cina.
Attenzione: niente limiti alla crescita, all’economia; se proprio si vuole essere ecologisti bisogna elaborare uno «sviluppo sostenibile», nuovo mito inventato nel 1987 da un gruppo di economisti e politici, guidati dal ministro norvegese Brundtland , definito come uno sviluppo (development) che «soddisfi i bisogni dell’attuale generazione senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i loro bisogni».
La contestazione è passata dalla forma di una grande ribellione al sistema di potere – accademico, politico, economico – a piccole contestazioni municipali ben espresse dalla formula: «Non voglio questa cosa o quest’altra nel mio cortile» (NIMBY, Not In My Back Yard), o a volonterose collaborazioni con il potere nel nome dell’economia e dell’occupazione.
Abbastanza curiosamente, l’eredità dei fermenti, nati in America, è passata in Europa con profonde modificazioni. Marsh, Mumford, Commoner restano quasi ignorati, dopo la breve stagione degli anni settanta. La Carson è ricordata per le sue lotte al DDT ma ignorata per gli altri contributi sul mare e sulla natura. Si è salvato Georgescu-Roegen che è stato adottato come icona del movimento di bioeconomia e di decrescita, una interpretazione parziale del più complesso contributo di questo studioso alla modificazione dei processi produttivi e alla analisi dei flussi di materia ed energia.
Tanto più che i fautori europei della decrescita non danno una risposta alla domanda più importante. Decrescita di chi e di che cosa? Dove? Nei paesi ricchi, e anche in quelli poveri che non hanno neanche da vivere? Decrescita della popolazione mondiale? Di quella dei poveri? La popolazione mondiale, che era di circa tre miliardi e mezzo di persone nel 1970, ha raggiunto i sette miliardi nel 2011 e continua ad aumentare in ragione di circa 70 milioni di persone all’anno; se anche diminuisse il tasso di crescita e si arrivasse ad una popolazione mondiale stazionaria a 9 o 10 (chi sa?) miliardi di persone, si avrebbe una crescita della frazione di anziani ed una decrescita della frazione in età lavorativa.
Nel mezzo secolo passato da quei favolosi anni Sessanta del Novecento alcune cose nell’ambiente sono migliorate; sono stati investiti denari pubblici per costruire inceneritori dei rifiuti (peraltro inquinanti anche loro), per filtrare un poco i fumi e le acque delle città e delle industrie.
I consumi di petrolio, di carbone, di gas naturale, sono anch’essi cresciuti e la loro crescita sembra continuare nonostante le crisi economiche e le prospettive di esaurimento delle riserve più accessibili. Ormai nel mondo circolano mille milioni di quelle «insolenti carrette», come la chiamava Keats, «grazie» anche al rapido sviluppo economico dei nuovi paesi industriali, Cina, India, Brasile. Come conseguenza sta aumentando la immissione nell’atmosfera di anidride carbonica, di metano e degli altri gas responsabili delle alterazioni climatiche, con aumento delle tempeste tropicali, dell’avanzata dei deserti e dell’inaridimento del suolo in alcune zone, di alluvioni, erosione del suolo e frane in altre regioni, di fusione dei ghiacci e di alterazione della circolazione delle acque degli oceani.
Le Nazioni Unite nei passati decenni, dopo la Conferenza di Stoccolma «sull’ambiente umano» del 1972, hanno organizzato varie altre conferenze internazionali. Quella di Rio de Janeiro del 1992 aveva come titolo: «Ambiente e sviluppo» (è scomparso nel titolo il riferimento agli esseri umani); quella del 2012 ancora a Rio de Janeiro aveva come titolo: «Lo sviluppo sostenibile» (è scomparso anche il riferimento all’ambiente).
L’ambiente e la natura entrano nei rapporti internazionali soltanto se contribuiscono, con pannelli solari, con depuratori e filtri, con automobili elettriche, a introdurre nuove tecnologie che fanno crescere a loro volta quella che sembra essere l’unica divinità: «la crescita». Eppure tutta questa crescita non fa aumentare né il benessere sociale, né attenua le disuguaglianze, né fa aumentare l’occupazione. Quelle che ci aspettano sembrano essere «le periodiche chiusure degli stabilimenti e la distruzione, eufemisticamente denominata ‘valorizzazione’, dei beni di alto valore, lo sforzo continuo per conseguire, attraverso l’imperialismo, la conquista dei mercati stranieri». Sono le parole dimenticate di Tecnica e cultura di Mumford. Se si ricominciasse da quelle? Ma non ci sono segni che, neanche dall’America, venga una domanda profonda e corale di cambiamenti nei rapporti fra gli esseri umani e la natura, un nuovo «ecologismo» non è all’orizzonte.

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