16 luglio 2013

IL NUOVO UMANESIMO CHE SOFFIA IN PAESI DIMENTICATI





In questo blog ci siamo già occupati di Franco Arminio, uno studioso, narratore, testimone e poeta dei paesi dell'Italia interna, una parte essenziale del patrimonio italiano, se è vero che senza l'osso la polpa non sta in piedi.
Proponiamo oggi la recensione di uno dei suoi ultimi libri:
Franco Arminio fa il maestro elementare, lo scrittore, il poeta, il documentarista, è animatore di battaglie civili (contro una discarica, contro una foresta di pale eoliche, contro la chiusura di un ospedale). Il suo nuovo libro s’intitola Geografia commossa dell’Italia interna  (Bruno Mondadori pagg. 129, euro 14) e prima sono venuti Vento forte fra Lacedonia e Candela (Laterza), Cartoline dai morti (nottetempo), Terracarne (Mondadori). Oltre a questo, Arminio ha inventato una disciplina, la paesologia, che definisce «tanto indispensabile quanto inesistente», usando una delle invenzioni spiazzanti che cadenzano i suoi libri, un po’ metafore, un po’ ossimori, comunque figure retoriche di una lingua carnosa che, nei racconti o nei versi colpisce, ma non come ascoltandolo quando ritto in piedi declama con gesti plateali l’orografia di questo lembo dell’Irpinia orientale, punta estrema della Campania fra Puglia e Basilicata. O quando dalla sua Bisaccia si sposta a Cairano, a Santomenna, a Conza, a Sant’Andrea di Conza e ai vecchi seduti al bar chiede quanti abitanti sono rimasti nel centro storico, quante vacche fanno ancora latte, quanti ettari di terreno sono stati sottratti al grano per le pale eoliche e perché se ne sono tornati dal Venezuela o dalla Germania. Se pensano mai alla morte.

L’Italia di dentro è il teatro della paesologia di Franco Arminio. I borghi sofferenti «sistemati fra il Pollino e la Maiella», per niente decorati dal turismo dei resort, i paesi dell’osso lontani dalla polpa, come li chiamava Manlio Rossi-Doria, delle pensioni al minimo, distrutti dal terremoto del 1980 e dalla ricostruzione che seguì, che ogni giorno contano meno abitanti e dove i sindaci, dice Arminio, «dovrebbero esporre i manifesti quando nasce un bambino e non quando muore un vecchio».

«Questa è l’Italia che conosco, dalla quale non mi sono mai mosso», racconta Arminio camminando per le strade di Bisaccia nuova, il suo paese, separata da Bisaccia vecchia da un vallone frutto di una frana. Bisaccia vecchia è su un’altura, ci sono la chiesa, la piazza, il belvedere davanti al convento. Ci vivono in pochi, ma qui si svolgono le processioni e i funerali, tutti si danno appuntamento. A Bisaccia nuova, ingrandita dopo il terremoto per volere dell’allora sindaco Salverino De Vito, big democristiano e anche ministro, Arminio mostra il mastodontico ospedale che non ha mai funzionato, il moderno rudere di un edificio con una cinquantina di appartamenti mai completati e una villa che sembra un disco volante atterrato su un perno e con un balcone che sporge come una pupilla fuori dall’orbita.

Tante case, ma non c’è il paese. «Il paese non è uno zerbino sul quale si cammina, è un corpo come il mio corpo, una creatura con cui combattere, da cui ricevere amore e anche odio», spiega Arminio. «Io non sento il confine fra la terra del mio corpo e la terra del mio paese, la mia è una terracarne. I nostri padri vivevano nei paesi come in un’epopea: alzarsi all’alba e andare in campagna ogni mattina era un’avventura, una guerra. E la sera era grande il ristoro di un bicchiere di vino. Queste cose le abbiamo perdute, siamo convalescenti prima di aver preso la malattia. Ma io sono qui per combattere, il mio è un dolore che combatte».

Nonostante distruzioni e orrori il mondo che racconta Arminio non sta scomparendo. Anzi. «Fino a quando vedi un muro, una porta, un soffitto, un balcone, un paese c’è ancora». Come c’è ancora Craco, borgo abbandonato della Basilicata «che pare un’ambasciata della luna sulla terra». Craco che non è seppellito con i suoi ruderi, «ma è sollevato nell’aria e ogni giorno che passa diventa più bello e più vivo». Ed è questa, sentendo brillare le sue metafore, la leva intellettuale e politica su cui agisce la paesologia, l’alternativa «all’autismo corale di cui è impregnata la modernità cittadina». Geografia commossa dell’Italia interna risente di uno sguardo meno desolato. Arminio maneggia la letteratura, i suoi reportage sono scritture narrative e i suoi codici tutt’altro che da erudito di provincia. I suoi versi hanno un’andatura cantabile («Salendo verso la fine del paese / il silenzio è così forte / che si sente assai vicina / la calma della nuvola / che ha partorito la neve / e la nasconde dentro le cantine »). Ma, oltre che scrivere, Arminio organizza iniziative culturali, rassegne musicali, letture pubbliche. Suscita energie, spacchetta competenze e la fa fluire in imprevedibili stampi, mette in contatto poeti e cuochi, agronomi e piccoli imprenditori. Per fine agosto ha allestito un’iniziativa di paesologia ad Aliano, in Basilicata, dove fu confinato Carlo Levi. Tra i suoi interlocutori ci sono Gianni Celati e Franco Cassano, il geografo Franco Farinelli, gli storici Piero Bevilacqua e Antonella Tarpino (l’autrice di Spaesati. Luoghi dell’Italia in abbandono tra memoria e futuro, edito a fine 2012 da Einaudi), l’antropologo Vito Teti. Non ama la decrescita felice né il suo teorico Serge Latouche («È pur sempre un pensiero del Nord, per la critica di questa modernità è molto meglio Leopardi»). E su di lui ha messo gli occhi, quand’era ministro della Coesione territoriale, un fine economista come Fabrizio Barca, che ha lanciato un ambizioso progetto per le aree interne del paese finanziato con fondi comunitari e che si propone di ripopolare i luoghi abbandonati sia per garantire una migliore manutenzione contro frane e smottamenti che dissestano l’Appennino, sia per garantire la biodiversità naturale e culturale, sia, ancora, per diffondere occasioni di sviluppo (dall’agricoltura biologica all’artigianato).

Arminio ha partecipato a diverse iniziative con Barca: «Dobbiamo svuotare le coste e riportare le persone in montagna. L’Italia interna può diventare il laboratorio di un umanesimo delle montagne: basta che terra e cultura siano più rilevanti di cemento e uffici, canti e teatro al posto delle betoniere». Ma la paesologia, così la vede lui, resta un movimento dal basso. D’accordo sulla tutela dei beni comuni, «ma la poesia non è tra questi, la poesia cerca i solitari, gli affamati d’amore, li cerca e affida loro il suo piccolo tesoro».

Da Bisaccia ci spostiamo a Conza vecchia, nella cattedrale abbandonata, dove uno squarcio creato dal terremoto ha fatto emergere un foro romano. Non c’è più il tetto, ma sono venute alla luce le fondazioni medievali della chiesa e qui si allestiscono letture di poesie, performance teatrali. «Per anni ho scritto a gomiti chiusi sul grembiule delle mie ansie. Ma adesso c’è un lato di me disteso, il lato che mi porta a girare dentro il Sud, che porta tante persone a sentirsi una piccola risorsa di questo Sud». Risorsa quanto consistente? «Siamo un’esigua minoranza. Ma in certi momenti è come se fosse più credibile che la storia possa prendere una piega nuova».
Francesco Erbani , La Repubblica del 13 luglio 2014

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