01 luglio 2013

I PARTITI SECONDO SIMONE WEIL





Una discussione delle tesi di Simone Weil, contenute in “Senza partito”.

Rocco Ronchi  -  Nei partiti il germe del totalitarismo? 

Stupisce ritrovare la stessa parola d’ordine – «soppressione dei partiti politici!» – tra i fautori del fascismo e nella filosofa Simone Weil, la quale, pochi mesi prima di concludere la sua breve esistenza, nel sanatorio di Ashford il 24 Agosto 1943, scrisse le sue Annotazioni sulla soppressione generale dei partiti politici (tradotte e curate da Marco Dotti, con una premessa di Marco Revelli e una postfazione di Andrea Simoncini, con il titolo Senza partito. Obbligo e diritto per una nuova pratica politica, (Feltrinelli, «Vita», pp, 67, € 8,00). Stupisce perché la Weil si stava dedicando a una lotta senza quartiere contro il fascismo. Del fenomeno fascista aveva schizzato una genealogia, ne aveva mostrato l’origine nello «sradicamento» delle masse europee e in «una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano» aveva cercato di individuarne anche l’antidoto definitivo. Per questa dichiarazione la biografa della Weil, Simone Pétrement, ha parlato giustamente di una vera e propria «professione di fede».
È una professione di fede a un tempo civile e religiosa, anzi civile perché religiosa, dal momento che l’obbligo nei confronti del «bisogno» del prossimo – tanto del bisogno materiale quanto di quello spirituale, consegue al radicamento essenziale della creatura in un Bene situato «fuori dal mondo». Perché, allora, nella retorica della Weil i partiti (al plurale, come si danno in una democrazia rappresentativa) divengono sinonimo «del male pressoché allo stato puro»? La domanda ha per noi un’attualità che non ha bisogno nemmeno di essere sottolineata. Nella postfazione Andrea Simoncini non può non ricordare come tutte le costituzioni post-totalitarie, e la nostra con più forza delle altre (art. 49), presuppongano i partiti e specificatamente i partititi di massa. D’altro canto l’attacco al sistema dei partiti, la loro sistematica delegittimazione, è stata storicamente la via maestra del fascismo. Come negarlo? Inutile nascondersi dietro a un dito: ciò che inquieta nell’odierna antipolitica è il suo retrogusto fascistoide. Non tanto le tesi sostenute, spesso condivisibili, quanto le conseguenze automatiche di quel sillogismo che come sua premessa ha, appunto, proprio la parola d’ordine della Weil. Bisogna allora chiedersi che cosa accomuna sul piano formale l’ipotesi fascista e l’ipotesi della Weil, un’ipotesi che quanto ai contenuti è antitetica a quella fascista. Come si può, insomma, dire il medesimo nell’orizzonte di inconciliabili visioni del mondo? La risposta la si trova nell’orizzonte gnostico e, per così dire, iperplatonico che fa da sfondo alla riflessione della Weil. Il cristianesimo radicale della Weil era, per sua stessa ammissione, un cristianesimo gnostico. Il che significa porre il Bene in una dimensione trascendente e separata e lasciare questo mondo in balia di una implacabile necessità.
Il Bene è uno e indivisibile, una è la Giustizia e una la Verità. Niente poteva suscitare più ribrezzo nella Weil che un «politeismo dei valori» alla Max Weber o l’idea machiavellica di una autonomia del politico rispetto all’etica o, ancora, una distinzione, di tipo crociano, tra l’utile, il buono, il vero e il bello. Il Bene si dice, per la gnostica Weil, in un solo senso, con buona pace di Aristotele, il quale proprio in opposizione al suo maestro Platone, aveva detto che il bene è un termine che si dice in molti sensi, tra loro irriducibili e senza denominatore comune: ciò che è bene per lo stratega può non esserlo per il singolo individuo, anzi per lui può essere il peggior male… Per la gnostica Weil l’assoluto è l’Uno e l’Uno è indivisibile: non si partecipa se non sfigurandosi e pervertendosi.
C’è allora veramente da stupirsi della conclusione politica che Simone Weil trae da questa premessa gnostica? I partiti, proprio in quanto parti, in quanto punti di vista differenti intorno a ciò che è giusto per la comunità, non possono che essere l’espressione di questa perversione del Bene. I partiti sono il male proprio come il molteplice è per un filosofo superplatonico una decadenza e un’infezione dell’unico vero. Sopprimerli è perciò per la Weil qualcosa di simile a quanto i filosofi neo-platonici chiamavano epistrofé o conversio, intendendo il cammino di ritorno che dalla dispersione del molteplice doveva riportare il saggio verso l’uno, verso l’origine pura che era stata abbandonata. L’intero poteva venir restituito alla sua integrità solo grazie al venire meno della parte. Simone Weil, nel suo saggio, individua nella logica del partito il germe del totalitarismo: il partito vorrebbe sempre più potenza e non sarebbe mai soddisfatto del grado di potenza effettivamente raggiunto; di qui la sua vocazione a volere tutto il potere, un potere che non potrà che essere immaginario e paranoico. In realtà la sua analisi trascura un fatto macroscopico che lei stessa, per altro, rileva e denuncia.
In una democrazia rappresentativa i partiti sono parti. Finché restano tali, non possono essere tutto. Se lo divenissero, come di fatto è accaduto, cesserebbero di essere quello che sono e con loro verrebbe meno tutto il sistema. Ed è proprio in quanto parti che la Weil non li può accettare. C’è da chiedersi allora se il totalitarismo non abbia sul piano formale la stessa radice gnostica che nutre la riflessione antipartito della Weil. Anche per il fascista il Bene si risolve infatti nella purezza di un’origine che non può tollerare partizioni. Tutte le forme dell’antipolitica, anche quelle più recenti e apparentemente innocue, scommettono su questa trascendenza del Bene che viene utilizzata come una clava per demolire ogni istituzione «troppo umana». In questa prospettiva il partito è un male in sé. Certo, il fascismo è sostanzialmente pagano e come tale identifica questa origine pura e indivisibile in un idolo (ad esempio la purezza della razza).
Simone Weil, invece, ha orrore di questa identificazione immaginaria e le contrappone una critica radicale di ogni idolatria. La trascendenza dell’origine per lei non può prendere figura alcuna (se non, per analogia, la figura indiretta del bisogno cui si è incondizionatamente obbligati). La differenza è rilevantissima. Tutto l’antifascismo della Weil riposa su questa radicalizzazione ipercristiana della trascendenza del Principio e sulla sua necessaria purificazione da ogni immagine mondana.
Tuttavia se la Weil ieri, e i sostenitori dell’antipolitica oggi, fanno proprie la tesi della necessaria soppressione dei partiti, questo lo si deve alla vocazione gnostica-messianica che caratterizza una porzione consistente (e politicamente trasversale) del pensiero del Novecento. Bisogna onestamente riconoscere che non vi è alcuna speranza di conciliare un simile pensiero con l’art. 49 della nostra costituzione.


Alias-domenica, inserto del Manifesto, 30 giugno 2013, p.5.









Nessun commento:

Posta un commento